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FRANCESCA E GIOVANNI

Un ricordo, scritto a 10 anni dalla strage di Capaci. E riproposto a 20.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Mercoledì, 23 Maggio 2012 - Ore 02:00
Francesca e Giovanni
[23 Maggio 1992 – 23 Maggio 2002]
 
“Dalla caverna non si esce in massa, ma solo uno per uno.”
Nicola Chiaromonte
 
Quando la Mafia uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo, io ero a Lucca, felice di aver vinto, con un gruppo di amici, una gara di endurance, o fondo equestre. Eravamo contenti per aver messo le mani sulla Staffa D’Oro, talmente contenti che andammo a comprare una copia del quotidiano Il Tirreno, giornale locale che parlava della gara. Ma in prima pagina trovammo la notizia che ci svegliò di soprassalto.
Il giorno prima, di sabato, avevamo corso dalle 4 del mattino a mezzanotte di sera, immersi nel verde della lucchesia. La mattina dopo, la gioia evaporò. Come quei 5 corpi.
 
La Mafia aveva chiuso i conti con quel magistrato rotondetto, che parlava poco, sorrideva sornione, si attirava critiche, ma era un caterpillar nel suo lavoro. Troppo scomodo.
 
Saltati in aria, scomposti, spruzzati contro il cielo. I boss mafiosi dissero: “Gli facciamo saltare le palle” si scoprì poi.
 
Mi ricordo di quei giorni, i giochetti capitolini per l’elezione del Presidente della Repubblica, le moine, i candidati di bandiera. E poi, d’un tratto, il rigore tipico del funerale e la frettolosa elezione di Scalfaro.
 
Però Falcone era già morto, insieme ai suoi agenti e a sua moglie Francesca, quella donna bionda sposata a mezzanotte con rito civile davanti all’allora Sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Quel magistrato femmina che, prima di sposarla, gli aveva fatto prendere i rimbrotti dei suoi superiori, perché la loro relazione avrebbe potuto dare scandalo. Come se fosse un delitto avere, da entrambe le parti, un matrimonio fallito alle spalle.
 
Più ci penso, a dieci anni di distanza, e più penso che la vera lotta contro la Mafia e contro tutte le organizzazioni criminali sia una lotta da combattere sia sul piano tattico sia sul piano strategico e che nessuno dei due aspetti possa essere trascurato.
 
Penso che si debba combattere uscendo dalla caverna uno per uno, anche se restando a vista d’occhio.
 
Penso a Francesca Morvillo e Giovanni Falcone e alla loro scelta di vita, che dovrebbe tirarci la giacca ogni volta che ce ne dimentichiamo. Penso che per difendere la legalità e la libertà di tutti, me per primo, avevano accettato un’esistenza umanamente infame, fatta di nervi a fior di pelle e trasferimenti blindati, di parole d’ordine e di precauzioni nevrotiche e che ogni volta che ignoriamo questo meriteremmo un bello spavento ammonitore.
 
Francesca Morvillo, magistrato come Giovanni, aveva fatto un scelta forte, ma credo facilissima. Perché qui si parla di amore, di voglia di stare insieme, del bisogno di toccarsi, di stringersi, di fare l’amore, di mangiare insieme e immaginare un futuro migliore.
 
Chissà, forse se non si fossero amati il vigore di un magistrato come Falcone sarebbe stato minore. Forse il loro amore era il carburante che bruciava quando lo scoramento rischiava di minare le giornate tremende di chi vive recluso per garantire la liberta altrui e agognando, un giorno, la propria.
 
Penso agli agenti della scorta, alle loro piccole quotidianità di persone normali. Gente che entra nel grande motore della storia come un piccolo ingranaggio. Preziosissimo però per far girare il tutto.
 
Penso che per combattere la Mafia bisogna, innanzitutto, combattere contro l’assuefazione che ci fa sordi e anestetizzati, piegati dal peso schiacciante del “tanto sarà sempre così”.
 
Bisogna trovare il modo di non celebrare anniversari, perché le cose veramente care che abbiamo ce le ricordiamo ogni giorno.
 
Bisogna trovare il modo per essere davvero solidali e vicini, verso chi ci mette vita ed esistenza. Uscire dalla caverna dell’indifferenza non in massa, ma uno per uno, vincendo il brivido del coinvolgimento personale che impaurisce.
 
Francesca, Giovanni, Antonio, Vito e Rocco meriterebbero di più di una commemorazione da anniversario. Meriterebbero che tutti noi avessimo di loro una foto nel portamonete, un ritrattino sulla scrivania, un’immagine in un quadro. Perché in fondo erano familiari di tutte le persone perbene della terra.
 
Erano persone care. E qualcuno che non ha persone care li ha ammazzati.

Roseto degli Abruzzi, 23 Maggio 2002
 
 
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