Roseto Basket Story
ROSETO-PALESTRINA: LA FINALE INVISIBILE (2/3).

Coach Piero Bianchi ci racconta in 3 puntate un pezzo di storia cestistica rosetana. Puntata 2 di 3.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Marted́, 13 Settembre 2011 - Ore 17:45
Puntata 1 di 3.
 
Palestrina era una grande squadra. Le punte di diamante erano Tomassi e Barraco, playmaker e ala reduci da annate importanti ai piani superiori. Il 4 era Mohamed Kadir, un super saltatore nero, che era nato in Somalia ma parlava romanesco. Il pivottone era l’ancora valido Gigione Santoro, due e zero otto. Poi una serie di buoni giocatori di contorno: Apolloni, Rossi, Lulli (non quello di Teramo ovviamente, forse un suo parente).
 
Aldo Corno, all’epoca CT della Nazionale femminile che proprio quella settimana era in raduno a Roseto e si allenava prima di noi, si sbilanciò in un pronostico: “Palestrina vince facile”. Le ultime parole famose.
 
Giocammo a ritmi vertiginosi, le canotte arancioni erano sempre un giro indietro. Difendemmo fortissimo, ma il punteggio si mantenne comunque alto per via del gran numero di possessi. Li colpimmo in contropiede, ripetutamente, sfruttando la maggior freschezza atletica. Tirammo con percentuali sontuose. Alla fine il tabellone recitava 94-87. Uno a zero per noi, primo passo verso la B1.
 
Ma qualcuno decise di rovinare la festa. Dopo la partita, secondo un rituale folle che ancora oggi di tanto in tanto viene rispolverato, un gruppo di teppisti tese un agguato ai pullman dei tifosi di Palestrina, prendendoli a sassate.
Non ci furono conseguenze gravi, se non qualche vetro rotto. Ma l’episodio di cronaca nera avvelenò il clima della finale a livelli impensabili. Erano già incazzati neri per il “ratto” degli striscioni, figuriamoci dopo la sassaiola! 
 
I rapporti tra le due società restarono buoni, nessun incidente diplomatico. Il Club prenestino capì che la sassaiola era stata la bravata di pochi balordi. Ma nei due giorni che ci separavano da gara 2 successe di tutto. Le notizie che arrivavano da Palestrina riferivano di animi esacerbati e terribili preparativi di vendetta. La società arancio-verde rifiutò l’accredito a TV Elle, la televisione di Roseto che trasmetteva le nostre partite, non per acrimonia ma perché temeva di non poter garantire l’incolumità della troupe.
 
Intervenne persino l’amministrazione comunale della cittadina laziale, che si mise in contatto col Comune di Roseto e chiese ufficialmente di evitare l’afflusso di tifosi rosetani, per evitare disordini. Tanto più che l’impianto di Palestrina era molto piccolo e tutt’altro che adatto a una finale di quella portata. Era chiaro che avremmo giocato in un clima di guerriglia.
 
La sera prima della partita arrivò la decisione, presa di concerto con i responsabili dell’ordine pubblico: a Palestrina sarebbe andata solo e soltanto la squadra, con la comitiva ridotta al minimo indispensabile. Era la decisione più saggia per non accendere inutili micce. Già, ma chi doveva andare in quell’inferno eravamo noi.
 
Mercoledi 25 maggio 1988. La distanza breve della trasferta ci consentiva di consumare il pranzo pre-gara a Roseto, in un ristorante sul lungomare. Partimmo in 15: i 10 giocatori, Romano Mari dirigente accompagnatore, poi allenatore, vice, medico e massaggiatore. Il sedicesimo era Gianni Vincenti, arbitro ligure ma rosetano adottivo, scomparso prematuramente qualche anno fa. Chiese di aggregarsi per puro spirito di avventura, che coraggio. Il diciassettesimo era ovviamente l’autista del pullman, l’indimenticabile Giovanni. Un manipolo di coraggiosi per quella che si annunciava una battaglia durissima.
 
L’assenza di telecamere faceva sì che di quell’evento non sarebbe stato conservato nessun documento filmato. La mancanza di tifosi al seguito (ma anche di dirigenti, amici, fidanzate, insomma niente entourage) sentenziava che solo noi saremmo stati testimoni di quello che sarebbe accaduto. Si giocava Palestrina-Roseto, la finale invisibile.
 
Uscimmo dall’autostrada al casello di Tivoli e ci avviammo su per la salita che porta a Palestrina. Le prime avvisaglie di quello che sarebbe successo non tardarono. Certi “simpaticoni” ci aspettavano già per strada, 3-4 auto piene di tipacci. Avete presente il film “Ombre Rosse” quando i Sioux assaltano la diligenza? Una cosa del genere. Facevano il carosello con le macchine attorno al pullman, ci affiancavano urlando insulti e minacce, ci superavano, poi ci costringevano a rallentare facendo perdere la pazienza al povero Giovanni (“I sting a fatijà, a me d’ lu pallò n’m’n’frech’nind…!!” e cioè, all’incirca: “Io sono qui a lavorare, a me del basket non mi importa nulla!”), si lasciavano sorpassare e di nuovo si affiancavano, ricominciando la litania di macabre promesse: non tornerete a casa, non uscirete vivi e via di questo passo.
 
Arrivati nel centro abitato, capimmo che l’intero paese si apprestava a vivere l’evento. Sui balconi delle case c’erano lenzuola trasformate in striscioni con scritte offensive contro intere generazioni di rosetani. Dalle finestre persino le massaie e i bambini ci insultavano. Il pullman fu costretto a fermarsi a un centinaio di metri dalla palestra, qualcuno ci disse che da lì in poi dovevamo andare a piedi. Nico Faraone, chi se non lui, ruppe il ghiaccio: “Beh, scendiamo, non avrete mica paura!..”.
 
Già a Vasto qualche settimana prima, in una drammatica trasferta vinta ai supplementari, Faraone ci aveva scatenato contro l’ira e gli sputi del pubblico di casa rispondendo con un gestaccio agli insulti che arrivavano dalla tribuna. Marco Aureli, che già quella volta stava per mettergli le mani addosso, lo fulminò con lo sguardo: “Se fai altre cazzate, stavolta ti ammazzo”.
 
Scendemmo tra due ali di folla minacciosa, ostentando sicurezza. Camminammo senza fretta, con lo sguardo fisso davanti a noi, ignorando gli epiteti contro mamme e sorelle. Arrivammo in quello che era un eufemismo chiamare palazzetto: fondo in gomma, dietro alle panchine il muro, spalti a “elle” su due lati del campo, con gli spettatori a una manciata di centimetri dalla linea laterale. Dietro a un canestro ancora muro, così vicino alla linea di fondo che a ogni lay-up si rischiava di rimanere spiaccicati.
 
In un amen si riempì tutto, nella palestra non entrava più nemmeno uno spillo. Mentre i giocatori si cambiavano, ero con Raffaele Battista che scaricava la tensione fumando davanti all’ingresso degli spogliatoi. Arriva un tifoso, aveva la bava alla bocca per l’eccitazione. Ci mostra una grossa pietra del peso apparente di 4-5 chili e urla: “Questa me l’hanno tirata a Roseto, l’ho raccolta e l’ho conservata per voi!”. “Pietro - mi disse il dottore, che era solito aggiungere una ‘t’ al mio nome - credi che subiremo gravi pregiudizi fisici?...”. Speriamo di no, pensai.
 
All’ingresso in campo ci rendemmo conto del “muro” umano che ci aspettava. La palestra ribolliva. I tifosi organizzati esibivano il loro solito striscione “Stato di ebbrezza”. Di fronte alle panchine ce n’era un altro che diceva: “Se i conigli avessero le ali Roseto sarebbe un aeroporto”.
 
Sbagliato: i “conigli” in realtà erano leoni.
 
Fine Puntata 2 di 3.
[continua]
 






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