Il Critico Condotto
MARIO POMILIO E GLI ALTRI. C’ERANO UNA VOLTA GLI SCRITTORI.

Torna il Critico Condotto, torna Simone Gambacorta.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Sabato, 22 Ottobre 2011 - Ore 19:30
Mario Pomilio è nato nel 1921. Ventuno anni dopo Ignazio Silone, tredici dopo Laudomia Bonanni, undici dopo Ennio Flaiano, uno dopo Eraldo Miscia e uno prima di Gennaro Manna. Questo per restare a quella leva di scrittori “abruzzesi” che, ciascuno a modo proprio, avrebbero lasciato un segno nella letteratura italiana del Novecento. Una covata, verrebbe da dire, che pare non aver conosciuto repliche nella recente storia della regione. 
 
Quella di Pomilio è stata una vita ricca di incontri ed esperienze, di libri e luoghi, eppure a tutt’oggi, per quanto ho potuto appurare, e dichiaro subito di non presumere di aver appurato tutto, e anzi confesso d’essere il primo a temere di poter prendere qualche cantonata, eppure, dicevo, a tutt’oggi manca una biografia organica che ricomponga esaustivamente l’itinerario dello scrittore scomparso ventuno anni orsono.
 
Se, in parte, ciò denunzia un vuoto che reclama d’essere colmato, in altra ribadisce, purtroppo, l’ispessirsi di quella bruma di dimenticanza che avvolge la figura e l’opera di Pomilio non meno che quella di altri importanti scrittori – più o meno appartenenti alla generazione degli anni Venti, o giù di lì – i quali, complice una diffusa amnesia del mondo editoriale (fatte salve alcune rare eccezioni riconducibili pressoché sempre all’iniziativa di piccoli editori, e per ciò stesso tanto lodevoli quanto “deboli”), sembra siano stati, se non esiliati, per lo meno confinati nella regione, per così dire, dei “non più letti”.
 
Lo ha ben intuito, fra gli altri, Giorgio Vasta, il quale, nella premessa che apre il collettaneo “Dieci decimi. Sguardi a ritroso sulla nostra letteratura” (Rizzoli, 2003), sottolinea come «la narrativa italiana del Novecento» sia «un paesaggio fatto in buona parte di smarrimenti, rimozioni, censure». E nello stilare un rapido elenco a titolo esemplificativo, Vasta cita «Piovene, Tobino, Pomilio, Bacchelli, Comisso, D’Arrigo, Borgese, Doni, Frassineti, Santucci, Parise, Bilenchi, Coccioli, Alvaro, Cancogni, Soldati, Jahier, Soffici, Morselli, Ortese Volpni, Fusco, Pizzuto, Ottieni, Tesori, Sgorlon, Tomizza…».
 
A colpire sono soprattutto quei puntini di sospensione, che lasciano sospettare, ed è un sospetto sin troppo facile a covarsi, quanto la lista potrebbe estendersi, ed estendersi sino ad ampliarsi in un novero in cui non si durerebbe fatica a scorgere le dimensioni di un’intera biblioteca.
 
Sarà il caso d’annotare che i nomi elencati da Vasta richiamano, in parte, ma con significative adiacenze, un passo de “Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento” di Gino Tellini (Bruno Mondadori, 1998), ove, fra l’altro, si legge questo: «Alla ribalta del romanzo si affaccia una generazione nuova, nata intorno al 1920, insieme con il regime fascista. Tra il 1916 di Bassani, Cancogni e Natalia Ginzburg e il 1925 di Del Boca, nascono Cassola (1917), D’Arrigo e Primo Levi (1919), D’Arzo, Guerra, Prisco (1920), Rea, Pomilio, Sciascia (1921), Bianciardi, Fenoglio, La Capria, manganelli, Meneghello, Pasolini (1922), Calvino, Del Buono, Roversi, Tesori (1923), Bonaviri, Leonetti, Ottieri, Volponi (1924)».
 
Ma, per tornare alle dimenticanze, questa “non lettura” finisce per trovare i propri alleati in quei luoghi comuni che, vai a sapere come, hanno attecchito riguardo questo o quell’autore sin quasi rimpiazzarne, nella consumistica confezione dell’etichetta spicciola, la reale fisionomia: ecco allora che d’un Pomilio si sente parlare come di uno “scrittore cattolico”, la qual definizione potrà pur non essere del tutto priva d’un suo fondamento, e tuttavia, incentrata com’è su una parte soltanto di un quadro ben più sfaccettato e complesso, giunge a rivelarsi un’enunciazione che, nel suo voler dire tutto, di fatto dice nulla.
 
Ora, sia chiaro: scrittori come Pomilio sono in effetti scrittori esigenti, che pretendono le proprie parole, per quel che dicono e per come lo dicono, siano “ascoltate” e sorbite con una pazienza disposta a nutrirsi di indugi, soste e ritorni, e a misurarsi con questioni e con tematiche “difficili”; scrittori, insomma, che consentono d’essere letti a condizione che si dedichi loro un’attenzione prossima allo studio, e che, nel caso specifico di Pomilio, per via dell’alto coefficiente problematico e interrogante che ne caratterizza le opere, non tardano a rivelarsi faticosi, tanto più ove del Nostro si consideri il passo di scrittore che lavora a fondo i propri personaggi, che li incarica di addentrarsi nei laboratori delle crisi e delle ricerche, che li depriva di certezze, che non li esonera da un confronto doloroso e inquirente con se stessi, con la realtà, con Dio e con la verità, che li sconcerta e li estenua con una possibilità di comprensione che si definisce prima di tutto con le proprie insufficienze e che pare sempre inseguire un’inafferrabile parte di se stessa.
 
Uno scrittore che pone, attraverso le proprie narrazioni, domande sui punti nodali della condizione umana – il male nel mondo, il dolore, la morte, la libertà – e che affida allo scavo coscienziale e psicologico il percorso privilegiato per elaborare in misura drammatica e morale le vulnerabilità, le ansie (ivi compresa quella religiosa), le inquetudini e le angosce dell’uomo contemporaneo.
 
Uno scrittore i cui personaggi, se estratti dalle rispettive sorti “romanzesche” e se osservati uno a fianco all’altro, descrivono una teoria di modalità di confronti con l’esistenza, secondo una sorta di codice di procedura umana che trova in una manzoniana malinconia della storia una delle proprie norme fondative.
 
A giocare un ruolo nevralgico in tutto questo è quella laica interrogazione cristiana che, nelle prove pomiliane più “religiose”, porta i personaggi a oscillare tra il piano della Storia e il cielo avvicinabile e pur sempre impenetrabile, pur sempre in minima parte decodificabile, dei silenzi con cui l’Assoluto cela i propri alfabeti.
 


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