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Cultura
I BALCANI POLVERIERA D’INGIUSTIZIA, PAROLA DI LUCA LEONE.
Luca Leone.

La copertina del libro ‘Mister sei miliardi’, pubblicato da Infinito Edizioni.

Luca Leone presenta il suo libro al Nome della Rosa lo scorso 16 novembre 2012.

Intervista all’autore del libro ‘Mister sei miliardi’, che ci ricorda – prove alla mano – che Bosnia e Italia sono molto simili.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Lunedì, 10 Dicembre 2012 - Ore 20:30

Luca Leone, come nasce la tua passione per quel mosaico inestricabile che sono i Balcani?
«Sono stati più d’uno gli elementi che m’hanno fatto incontrare la Bosnia Erzegovina, e con essa i Balcani. Senz’altro la conoscenza con alcuni profughi del conflitto bosniaco, che mi hanno raccontato una realtà così profondamente diversa da quella che narravano i giornali e i telegiornali italiani, cosa che ha fatto sorgere in me tanti dubbi e il bisogno fortissimo di dipanarli. Poi un acuto senso di indignazione per il ruolo fortemente negativo avuto dall’Europa, dall’Italia e dall’Onu nella guerra bosniaca. Infine, tra le ragioni più forti, lo scoprire con sgomento d’essermi laureato il 12 luglio 1995 con una tesi in diritto costituzionale comparato dedicata al Cile e a uno dei dittatori più sanguinari, corrotti e vili del ventesimo secolo, Augusto Pinochet Ugarte, proprio mentre a Srebrenica si svolgeva la giornata più spaventosa, la seconda, di quello che successivamente sarebbe stato riconosciuto da almeno tre sentenze internazionali come un genocidio, il genocidio di Srebrenica, il primo mai commesso in Europa dalla pagina orribile, spaventosa, inaccettabile e ingiustificabile della Shoah. Senza dubbio questi tre elementi, congiunti, mi hanno portato in Bosnia. E lì ho imparato, e continuo a imparare, molte cose».
 
Cosa sono per te oggi i Balcani? Come li definiresti?
«Una polveriera d’ingiustizia, in cui su un tessuto del tutto impreparato e inadeguato, oltre che provato da guerra e dolore, è stato applicato un sistema neoliberista che sta stritolando milioni di persone. I Balcani sono luogo di festa per qualche centinaio di guerrafondai arricchitisi col conflitto del 1991-1999, i cosiddetti tycoon. E sono stati – e sono – laboratorio dell’orrore e delle nostre incapacità di europei ipocriti. Sono, in definitiva, lo specchio deformante delle nostre coscienze sporche, incrostate di sangue, cattiveria e brama di facile guadagno a tutti i costi».
 
Dopo le varie guerre nella ex Jugoslavia degli inizi degli Anni '90 del Secolo scorso, sono nati centinaia di milionari in euro, grazie ai loschi e sporchi traffici fatti sotto le bombe. Passano i secoli, ma le guerre restano il più grande business?
«La guerra in Bosnia è stato ed è un grande business. Una guerra andata diversamente dal preventivato, ma comunque una guerra d’aggressione (da parte di serbi e croati contro lo staterello bosniaco) con la finalità dello spartimento delle risorse e del territorio della Bosnia. Quella della guerra etnica e di religione è stata una balla colossale, costruita a tavolino dalla propaganda e bevuta con colpa (e forse per interesse di parte) dai nostri media e dai nostri politicanti. Sono circa 500 i milionari in euro nati improvvisamente dallo sfaldamento bellico della Jugoslavia. Non è un caso se costoro abbiano in mano le leve economiche e politiche dei Paesi in cui vivono».
 
Il tuo libro dedicato alla Bosnia Erzegovina si chiama “Mister sei miliardi”, come nasce?
«“Mister sei miliardi” è il mio sesto libro in ordine cronologico (su un totale di quindici che ho scritto) dedicato alla Bosnia Erzegovina. È la fine di un percorso bello e difficile cominciato con “Srebrenica. I giorni della vergogna” e continuato con “Bosnia Express”. Prima ho raccontato dalla viva voce degli scampati un genocidio; poi ho fatto la fotografia impietosa di un Paese distrutto dalla politica, dalla mafia, dalla religione e dall’inganno internazionale. Con “Mister sei miliardi” – uscito un anno dopo la pubblicazione di “Saluti da Sarajevo”, la prima guida storica, sociale e fotografica a colori mai pubblicata in Italia sulla capitale bosniaca – racconto l’apartheid scolastico, le strade attraverso le quali i nazionalismi musulmani, cattolici e ortodossi creano artificiosamente nelle scuole le separazioni, le incomprensioni, gli odi del futuro. Ma, e ci mancherebbe altro!, racconto anche il contrario, ovvero gli sforzi e l’amore di chi si batte contro tutto questo. Sono molto soddisfatto del risultato editoriale, spero che questo libro possa insegnare qualcosa anche agli italiani, poiché Bosnia e Italia, nel male, sono molto vicine, purtroppo».
 
La Bosnia Erzegovina ha 4 milioni di abitanti, 1,5 milioni di popolazione attiva, quasi il 50% di disoccupazione e 14 Costituzioni. E a noi che in Italia sembra opprimente lo spazio della politica nella vita pubblica...
«In Italia opprimente è l’incapacità, l’arroganza, la corruzione (e la corruttibilità) e l’ipocrisia dei nostri politici. Oltre al fatto che Italia e Bosnia sono tra i Paesi col tasso di corruzione nella politica e nella pubblica amministrazione più alto d’Europa. I politici italiani sono impuniti e distanti dai bisogni della popolazione esattamente come quelli bosniaci. Anche questo, purtroppo, è un elemento che accomuna i due Paesi. Come del resto la gestione errata e personalistica, da parte di molti politici, delle risorse pubbliche. In Italia non sappiamo che cosa sia il liberalismo, come non lo sanno in Bosnia. E lo Stato è competitore e arbitro in troppe questioni. Mancando poi, da noi come da loro, una legge sul conflitto d’interessi, è facile trovarsi da noi con un Berlusconi che per vent’anni piega al suo volere la vita del Paese dominando i mezzi di comunicazione di massa e comportandosi come un maraja invece che come uno statista occidentale posato e rispettoso non solo delle leggi ma dell’etica; da loro con un Radoncic che, improvvisamente arricchitosi e diventato magnate di tutto, incluso dei media, ora si trova incredibilmente a fare il ministro dell’Interno, senza averne tra l’altro la minima competenza. Questo dimostra come nella politica contino solo soldi e amicizie, non certo la competenza. O l’etica…».
 
Su 4 milioni di persone, ci sono 80 partiti e 6.000 persone vivono di politica in modo quasi sempre parassitario. I partiti hanno tutto l'interesse ad aumentare le divisioni accentuando i vari nazionalismi, alla faccia del mondo globalizzato...
«E in Italia non accade la stessa cosa? Non abbiamo i partiti che devono per forza piazzare incapaci e lacché in provincia, in comune, in regione, nella municipalizzata? Direi che, purtroppo, sono loro che imparano i brutti esempi da noi e non hanno molto da insegnarci, in negativo. I politici bosniaci sono vergognosi e indifendibili, quasi tutti. Ma i nostri?».
 
I politici in Bosnia Erzegovina tengono così tanto al popolo da voler scrivere a tavolino vocabolari per intrecciare ancor di più - come se non bastasse l'attualità - un panorama in cui almeno sulla lingua c'era univocità e facilità di comprensione...
«È uno dei grandi obiettivi dei nazionalisti – che potremmo definire alcuni neofascisti, altri populisti – di tutte e tre le parti, bosniaci-musulmani, serbo-bosniaci e croato-bosniaci. La loro lingua, comune, è il serbo-croato, ma creando a tavolino una loro lingua – una lingua bosniaca, una croata e una serba – pensano di potersi differenziare ancora di più dagli altri e di porre basi più solide alla loro identità piuttosto timida, al momento basata soprattutto su una presunta – ma non dimostrata – appartenenza religiosa. Per differenziare le lingue, e creare l’ennesimo biasimabile danno, ricorrono all’arricchimento coatto dei rispettivi vocabolari ripescando arcaismi, coniando sfacciatamente neologismi, saccheggiando lingue di Paesi culturalmente o economicamente di riferimento. È un’operazione assurda, che costerà a quei popoli tantissimo e che costerà anche a tutti noi, il giorno in cui sia la Croazia, sia la Bosnia sia la Serbia saranno entrate nell’Unione europea con tre lingue diverse anziché con una comune, come sarebbe naturale, nonostante i due alfabeti diversi, cirillico per i serbi e latino per croati e bosniaci».
 
A un'ora di aereo da noi, 8 ore di macchina, c'è questa nazione in cui esistono scuole separate a seconda delle etnie e dei credo religiosi. L'apartheid a portata di mano?
«Dall’Abruzzo, in macchina, le ore saranno più o meno 14, ma questo non cambia assolutamente il senso del discorso. La bugia propagandistica nasce nei banchi di scuola degli istituti “etnicamente segregati” dell’Erzegovina, oltre cinquanta, come in quelli “etnicamente puliti”, col sangue, della Republika Srpska di Bosnia. Nasce, la menzogna creatrice d’odio, nei libri di testo – storia, letteratura, grammatica, religione, persino geografia – di scuole in cui oramai per legge s’insegnano le “materie di rilievo nazionale”, ovvero quelle utili al nazionalismo di parte per rimarcare le differenze e trasformarle in pericoli, invece che in chance per essere tutti migliori. Ma la segregazione è anche apartheid fisico, vero, isolamento di ragazzi e insegnanti di un gruppo nazionale da una parte, gli altri dall’altra.
Le scuole sono il covo, il nido, l’incubatrice dei nazionalisti di domani. Che vanno formati, plasmati, piegati se necessario. È facile farlo poiché le scuole bosniache non sono libere, in quanto alla fine di ogni anno scolastico il personale docente è soggetto a una votazione che vale la riconferma. Il voto è espresso dal dirigente scolastico, e quest’ultimo è nominato dal ministro competente per l’Educazione. Il corto circuito è chiaro, evidente, persino banale nella sua folle assurdità».
 
Iscriversi all'università in Bosnia Erzegovina costa 1.600 euro l'anno, molto più che in Italia, a fronte di stipendi che vanno da 150 euro mensili fino a 400 euro mensili. Lo studio diventa appannaggio esclusivo dei figli dei ricchi e dei figli di... buona donna?
«All’università, se possibile, le cose vanno persino peggio che non nelle scuole. Ormai i corsi universitari – strutturati in un triennio e un biennio di specializzazione, sulla base della riforma di Bologna, entrata in vigore anche in Bosnia – hanno costi identici o addirittura superiori a quelli italiani (ma in alcuni casi costano anche di più). Con la differenza che a Sarajevo lo stipendio medio si aggira sui 400 euro, altrove non supera i 200. Iscrivere all’università un ragazzo vuol dire spendere, ogni anno, una base di 1.400-1.600 euro, quattro stipendi su dodici nella Capitale, sette-otto su dodici altrove. In un Paese in cui, oggi, circa il 49% della forza lavoro attiva è disoccupata a causa della crisi che attanaglia il Paese ormai da anni.
La Bosnia non è un Paese in cui sono i meritevoli ad andare avanti, ma in cui la selezione avviene in base al censo: studia e si costruisce un futuro chi ha i soldi, gli altri possono morire d’inedia. Sono gli effetti evidenti delle politiche neoliberiste innestate violentemente su un corpo sociale, economico e politico uscito devastato da una guerra che ha messo fine a mezzo secolo di socialismo più meno reale e a oltre un decennio di gravissima crisi economica. Responsabile di questo è anche l’Europa, lo siamo anche noi italiani. Noi, anzi, lo siamo una volta più degli altri. Perché, come gli altri, non abbiamo fatto nulla per prevenire la guerra, nulla per fermarla e poi nulla per favorire una pace duratura; sempre come gli altri, sfruttiamo questo Paese con le nostre vergognose fabbriche su ruote, che pagano 150 euro al mese a gente che d’inverno lavora in capannoni persino privi di riscaldamento. Più degli altri, tuttavia, abbiamo la vicinanza geografica e le dinamiche sociali e politiche molto simili alla Bosnia. Questo dovrebbe far scattare un grande allarme nelle teste di tutti noi. Per il futuro della scuola, dei nostri giovani, della nostra sanità, del nostro Paese».
 
Con queste premesse, che classe dirigente avrà la Bosnia Erzegovina nell'immediato futuro?
«Rispondere vorrebbe dire avere la certezza che in futuro la Bosnia esisterà ancora. Io in questo momento, sinceramente, questa certezza non ce l’ho più. Se esisterà, sarà una classe dirigente selezionata per censo, probabilmente incapace, senz’altro corrotta. Fotocopia di quella attuale, insomma…».
 
Vedi possibile l'esportazione del modello Bosnia Erzegovina in Italia, quanto alle cose più ripugnanti? La nostra società è abbastanza malmessa da abbracciare quel modello, nonostante non abbia subito una guerra sul proprio territorio, visto che non è capace di abbracciare i modelli delle democrazie mitteleuropee o nordeuropee?
«La guerra l’abbiamo subita settant’anni fa e non è stata fatta alcuna pulizia, alla fine del secondo conflitto mondiale. Non siamo in grado di abbracciare modelli più evoluti e meno “clanici” di quelli che abbiamo perché, appunto, non siamo evoluti, pensiamo solo di esserlo. Siamo un popolo profondamente diviso, ferito, ipocrita, egoista, vocalista, ignorante. Non sono buone basi per pensare di migliorarci, almeno non a breve. I migliori giovani appena possono se ne vanno all’estero. La scuola e l’università italiane sono allo sbando, alla rovina, e questo è un preciso disegno politico – già denunciato pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale da Calamandrei – non un caso sfortunato. “Noi” e “loro” siamo più simili e più vicini di quanto si potrebbe pensare, questa è la verità, triste e drammatica. E, se fossimo meno ignoranti e meno egocentrici, forse potremmo anche accorgercene…».
 
Ma nella ex Jugoslavia si stava meglio quando si stava peggio, con il Maresciallo Tito?
«E chi lo sa? C’è chi lo sostiene, e viene definito “jugonostalgico”. C’è chi Tito lo ha rimosso dalla sua memoria. Senz’altro in Serbia e in Croazia quello di Tito non è un nome molto gradito, e a volte va fatto a voce molto bassa. In Bosnia, a Sarajevo in particolare, c’è invece una diffusa jugonostalgia. Tito è stato una figura importante, anche se non possiamo dimenticare anche i drammatici errori e orrori dell’era titina, a cominciare dalle foibe e continuando con la reclusione e lo sterminio degli oppositori a Goli Otok, l’Isola Calva, senza dimenticare le preclusioni imposte ad alcune minoranze, come quella italiana (ma, inizialmente, anche ai musulmani bosniaci). Ciò nonostante, in Jugoslavia durate l’era del Maresciallo si studiava gratis, la sanità era d’alto livello, i cittadini avevano mediamente una certa libertà di spostamento, anche all’estero (tantissimi jugoslavi andavano a studiare a Trieste o, più semplicemente, vi si recavano nei fine settimana per comprare vestiti e cibo italiano), e – almeno finché non è scoppiata la grande crisi economica degli anni Ottanta, dopo la morte di Tito – il lavoro era assicurato quasi per tutti. Questo, al netto degli orrori di cui sopra, e comparato con la situazione odierna di povertà, tensione, disoccupazione, apartheid, è abbastanza normale che ingeneri un fenomeno jugonostalgico in molti…».
 
Dopo il Nobel per la Pace “sulla fiducia” a Obama, ci ritroviamo il Nobel per la Pace all'Unione Europea, campionessa di ignavia e pacificatrice a forza di navi da guerra per proteggere le proprie coste da sbarchi di profughi. Invece in Bosnia Erzegovina, tu dici che ci sono 3 donne che meriterebbero davvero il Nobel per la Pace. Vuoi concludere questa intervista dicendoci chi sono e cosa fanno?
«Secondo me, la prima è Irfanka Pasagic, psichiatra di Srebrenica che ha fondato a Tuzla l’associazione Tuzlanska Amica. Quest’ultima ha aiutato e probabilmente salvato centinaia e centinaia di bambini orfani e altrettante donne con, alle spalle, esperienze drammatiche. Ancora oggi Tuzlanska è un punto di riferimento unico per chi, a Tuzla e non solo, donna o bambino, abbia bisogno di aiuto. La seconda è Marjana Senjak, fondatrice dell’associazione Medica nell’inquinatissima e povera città di Zenica. Qui Marjana svolge lo stesso ruolo di Irfanka a Tuzla, con massimo impegno soprattutto a favore delle donne che hanno subito stupro etnico durante la guerra. Infine, Rada Zarkovic, mostarina spostatasi a Bratunac, una delle città più problematiche e violente della Bosnia, “centrale” del genocidio di Srebrenica nel 1995. Qui Rada ha fondato la Cooperativa Insieme, che dal 2001 produce marmellate, succhi e altro da piccoli frutti, innanzitutto lamponi, poi more, ribes, fragole. Fornitori della Cooperativa sono circa 500 famiglie locali, metà serbo-bosnaiche e metà musulmano-bosniache, come egualmente al 50 per cento sono i lavoratori della fabbrica di Bratunac, dove vengono prodotte queste meraviglie, queste vere leccornie. Qui il dialogo tra chi s’è ammazzato per quattro anni è ripartito proprio grazie a Rada. Perché non a loro, il Nobel, ma alla Ue, e l’anno prima a Obama? Forse perché ormai il Nobel è un premio autoreferenziale che, prima ancora che premiare chi davvero ne avrebbe diritto, premia quei potenti i cui nomi possono garantire visibilità e prestigio al premio stesso. Se la Ue fosse guidata da persone oneste e di buona volontà, persone consapevoli del trattamento che riserviamo ai Rom (avete presente la politica del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, in materia?) e ai migranti, ad esempio, o a quello che in alcuni Paese della Ue viene riservato alle minoranze, o del comportamento di alcuni Paesi membri fondatori della Ue all’estero (vogliamo parlare delle “meraviglie” di cui, ad esempio, la Francia si macchia in Africa?), quelle persone restituirebbero immediatamente il premio Nobel. Facendo, tra l’altro, una gran bella figura. Dopo di che, loro stesse dovrebbero dimettersi, per manifesta incapacità. Ma ormai potere e resto dell’umanità vivono su due piani completamente diversi e finché sarà il potere, e solo il potere, a legittimare se stesso, scavalcando ogni logica democratica, non usciremo mai da questo corto circuito terribile in cui viviamo…».
 
Luca Maggitti
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