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Giovedì, 25 Aprile 2024 - Ore 6:42 Fondatore e Direttore: Luca Maggitti.

Luigi Braccili
ROSETO DEGLI ABRUZZI, 4 MAGGIO 1944.
Luigi Braccili, fotografato nel 2004 da Sergio Pancaldi.

‘Abruzzo Kaputt’, libro di Luigi Braccili.

Luigi Braccili, fotografato nel 2009 da Luca Maggitti.

Un racconto sulla Resistenza in Abruzzo di Alice Mazzali, ispirato al libro ‘Abruzzo Kaputt’ di Luigi Braccili e dedicato al compianto ‘Gigino’.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 28 Agosto 2014 - Ore 11:00

Il 29 aprile 2014 ho avuto la possibilità di incontrare Luigi Braccili.
Cercavo informazioni sulla Resistenza abruzzese e il mio amico Luca Maggitti si è detto felice di accompagnarmi a casa dell’uomo che fino a quel momento avevo solo letto, e del quale avevo sentito parlare non di rado.
È stato un incontro illuminante, emozionante a tratti.
Ci ha raccontato storie avvincenti e aneddoti interessanti, ridendo della mia sorpresa in risposta ad alcuni racconti e stupendosi del mio debole legame alla nostra terra.
Ci ha mostrato i suoi libri, migliaia di libri, conservati con cura e orgoglio commoventi, lo sguardo sempre luminoso e fiero di ciò che era stata ed era ancora la sua vita.
Mi ha poi dato in prestito uno dei testi scritti da lui, del quale conservava solo due copie, con la fiducia che può avere solo chi, come primo ideale, ha la condivisione del sapere.
Quel testo, un saggio lucido, preciso ed estremamente interessante sulla storia dei partigiani della nostra regione, riposa ora sul mio comodino, e mi è ancora più difficile, adesso, staccarmene.
Ricorderò sempre la dolcezza di quel pomeriggio e il privilegio che ho avuto nel conoscere un così grande giornalista.
 
 
Roseto degli Abruzzi, 4 maggio 1944.
 
Si dice che chi nasce in riva al mare non riesce più a voltargli le spalle, perché quando, con fatica, ci si abitua all’immensità, non vedere l’orizzonte diventa ancora più doloroso dello sgomento provocato dal nulla. Il mare è infido, dà e poi toglie senza avviso o pietà, ma premia sempre chi lo sta ad ascoltare, perché al suo cospetto immaginare la felicità è facile.
 
Con la seconda guerra mondiale, dopo la caduta di Mussolini, si delinearono due schieramenti che dividevano gli stessi italiani: repubblichini e partigiani, sostenitori dei tedeschi e degli Alleati. Anche gli uomini d’Abruzzo si trovarono a dover scegliere: probabilmente fu la decisione più consapevole che la storia ha visto, perché per la prima volta, in assenza dello stato, non c’era più la possibilità di rifarsi ad un’autorità e il problema poteva essere risolto solo facendo appello ai propri valori, alla propria coscienza.
 
Fortunatamente l’Abruzzo non mancava di montanari, studenti, pescatori e artigiani con a cuore la patria e la libertà che coraggiosamente si vestivano di rosso e che partivano da ogni paese, rocca, valle, spiaggia della regione.
 
E il mare, compagno di queste genti? Che ruolo ha avuto il mare? Nei difficili anni della guerra dei totalitarismi, quando in tutta Italia superfici enormi di terra venivano devastate e gli animi degli uomini stanchi di subire cominciavano a ribellarsi alle inaudite atrocità del tempo, affidandosi alla stabilità delle montagne, il mare era molto spesso poco più che un difficile campo di battaglia. I vecchi pescatori si chiedevano dove fosse finita la sua sacralità, la sua maestosità terribile; si disperavano, e si stupivano di fronte al male dei combattimenti e alla potenza degli eserciti, che erano riusciti a zittire anche il Signore della Natura, colui che prima era pace, sgomento e immensità. Il mare, infatti, non cantava più; pescare, da sempre il loro maggiore sostentamento, era diventato difficile e pericoloso, lo sciabordio delle onde, costante e rassicurante sottofondo alle loro giornate, veniva spesso coperto del borioso rombo degli aeroplani, dal grido di rabbia delle bombe. Il mare era sempre lì, certo, ma sembrava averli traditi…
 
Camillo pensava a questo mentre con il cuore in gola tentava di raccogliere ciò che aveva di più importante in una sacca di tela, non abbastanza capiente da contenere trent’anni di vita. Pensava al mare, lo pregava, chiedeva la sua protezione e intimamente lo malediceva, come si fa con Dio quando appare indifferente alla sofferenza. Doveva fare in fretta, l’ultima occasione di fuggire da quell’inferno lo aspettava in spiaggia, con rischi e dubbi; non tutti nascono combattenti, coraggiosi, valenti: avrebbe voluto lottare per la patria, ma la codardia, che fin da piccolo lo aveva accompagnato, glielo impediva.
 
Alla fine si imbarcò con altre nove persone, tutte disperatamente in cerca di pace, ma turbate dalla preoccupazione e il senso di colpa. Mentre in ogni altro posto d’Abruzzo scappare era possibile solo al riparo delle montagne, a Roseto, paese di pescatori, si tentava la via delle acque, fino ad arrivare a Termoli, sulla costa molisana, così da superare la linea Gustav e mettersi sotto l’egida degli alleati. Il viaggio però era duro e imprevedibile e ad intraprenderlo erano soprattutto giovani, perché la furia del mare poteva scatenarsi in qualunque momento e le fragili imbarcazioni quasi mai riuscivano
a sopravvivere.
 
Era quasi mezzanotte e Camillo sedeva nell’angolo più nascosto della barca, tutto intento a fissare i dettagli del suo paese che a poco a poco si allontanava e che non era certo avrebbe visto di nuovo.
 
Quando tutto divenne indistinguibile distolse a malincuore lo sguardo da Roseto chiedendosi per l’ennesima volta se quello che stava facendo fosse giusto. Osservò la vela della barca, tinta di nero come quelle dei pirati dei racconti e chiese con fastidio al vecchio il perché di quel colore tetro e dall’infelice significato allegorico. «Credi che a me non dispiaccia dover ‘rabbrunire’ le mie vele prima così belle? Sicuramente non lo sai, voi giovani non sapete mai niente, ma il grande poeta D’Annunzio, quando era ancora una persona per bene, amava e cantava le nostre vele latine, dai colori pastello e di fuoco. Non puoi nemmeno immaginare come soffro a guardarle, ma cosa dovevo fare? I tedeschi hanno occhi ovunque e io non posso permettermi di farmi scoprire e rischiare la morte. Questi viaggi, ormai, sono l’unico modo che ho per far mangiare la mia famiglia.»
 
Il ragazzo divenne scuro in volto mentre si malediceva per la leggerezza con la quale aveva fatto la domanda al buon vecchio. Erano, oltretutto, le barche a vela, e mai a motore, ad essere impiegate, perché la spesa per il carburante era impensabile per quella gente. Si partiva solo di notte, quando la luna non c’era e il buio era totale, perché le spie tedesche erano dappertutto e spesso scoprivano le modalità e i tempi dei «viaggi della speranza» di quel tempo e, appostati a Francavilla, erano pronti a fare fuoco sulle barche lontane che, costrette a rifugiarsi a largo, dovevano affrontare il mare aperto.
 
Notò un giovane come lui, che rassegnato seguiva con lo sguardo i movimenti del vecchio marinaio. Lo conosceva, era un ragazzo del suo paese, di poco più giovane di lui. Pensò di domandargli perché anche lui stesse fuggendo, perché rifiutava di schierarsi da una parte o dall’altra. Realizzò poco prima di parlare che la domanda sarebbe stata inutile e dolorosa.
 
Anche Camillo si disperava, sentiva che la sua negligenza non era soltanto vigliaccheria, che il suo rimettere la decisione ad altri, la silenziosa rinuncia a decidere da che parte stare, contribuiva ad affermare il male che si abbatteva su tutti. Fuggire, abbandonare la famiglia, gli amici, l’Italia, voleva dire rinunciare alla pretesa della libertà. Improvvisamente i suoi dubbi assunsero la forma di presa di coscienza. Doveva fare qualcosa, scendere da quella barca prima di calpestare il terreno felice degli alleati e rimanere abbagliato. Sapeva di non poter chiedere al vecchio di portarlo subito a riva perché avrebbe messo in pericolo tutti gli altri passeggeri. Decise allora di fare da solo, sicuro che questa volta il mare non lo avrebbe tradito.
 
Salutò tutti, nello stupore generale, e si tuffò.
 
Atessa (CH), 10 maggio 1944.
Sembrava ci fossero solo chiese, in quel piccolo paese. Era stato lì molto tempo prima, forse tre o quattro anni prima della guerra, e tutto sembrava cambiato. Era alla ricerca di Pietro Benedetti, suo amico d’infanzia, che tanto aveva amato e ammirato, perché più sveglio, allegro e intraprendente di lui. In tutte le cose era il suo preciso contrario, si comportava come un eroe, era gentile con chiunque e godeva della simpatia generale.  ra impossibile non volergli bene.
 
Era arrivato fino a lì dal mare, dopo cinque giorni di lungo e pericoloso viaggio, perché Pietro era l’unico vero partigiano che conosceva e voleva che gli insegnasse tutto, che gli dicesse da dove cominciare, cosa fare, con chi parlare, dove ci fosse bisogno di lui. Nella sua memoria l’amico era un ragazzo alto, non molto bello, ma dallo sguardo vivace e intelligente, da sempre in lotta con il potere, a favore dell’uguaglianza e la legalità; a diciotto anni era già segretario della sezione giovanile del Partito Comunista di Atessa, ed era la cosa di cui andava maggiormente fiero. Faceva l’ebanista, e con le mani era capace di vere e proprie magie. Prendeva pezzi di legno senza significato e li rendeva vere e proprie opere d’arte, apprezzate e richieste soprattutto dai signori più ricchi, che venivano a cercarlo da lontano. Pietro però intagliava legno soprattutto per diletto, e regalava la maggior parte dei suoi capolavori agli amici e ai parenti, quando voleva dimostrare loro il suo affetto.
 
Camillo era finalmente arrivato davanti alla casa dove sapeva che Pietro viveva con la moglie, e fu subito colpito dalla desolazione dell’orto e la sporcizia all’ingresso. Aveva già visto altre case così… Bussò alla porta, con uno strano e improvviso senso di angoscia che tentava di dissimulare.
 
Fu un ragazzino ad aprirgli, poteva avere all’incirca sei anni. Doveva essere Filippo, uno dei figli del suo amico Pietro. Gli chiese di portarlo dai suoi genitori e il bambino lo condusse in una piccola cucina buia, dove una donna era seduta al tavolo, intenta a rammendare un camicia consunta.
 
«Enrichetta!», la chiamò. «Mi riconosci? Sono Camillo, l’amico di Pietro!»
La donna alzò lentamente lo sguardo ed accennò un sorriso. Non servivano parole, la crudeltà della verità era raccolta in quegli occhi.
 
Improvvisamente la mente di Camillo si svuotò. Il suo amico, l’uomo che aveva creduto invincibile, anche lui era morto. Enrica, la moglie, gli disse che era stato rinchiuso in carcere dopo che gli avevano trovato delle armi nella sua bottega. Era stato condannato a quindici anni di reclusione, ma dopo qualche mese la detenzione era stata mutata in pena di morte. Era stato ucciso pochi giorni prima, il 29 aprile, fucilato da un plotone della Polizia Africa Italiana, sugli spalti del Forte Bravetta di Roma.
 
Non era rimasto più nulla a lei e ai suoi due bambini, se non alcune delle sue opere d’artigianato, qualche vestito e le sue tante lettere dal carcere. Camillo non voleva piangere, almeno quella volta doveva dimostrare di essere un uomo. Sentì che qualcuno lo chiamava dal basso e si accorse che un paio d’occhi vivaci, gli occhi di Pietro, lo guardavano con attenzione. Appartenevano ad un bambina magrolina, che l’uomo riconobbe facilmente come l’altra figlia del suo vecchio amico, con la quale aveva a lungo giocato, anni prima, e che evidentemente si ricordava di lui. Lei gli mise in mano un foglio, negli occhi la richiesta di prestare la massima attenzione: era tutto quello che le rimaneva dell’uomo che era stato suo padre.
 
«Ai miei cari figli,
quando voi potrete forse leggere questo doloroso foglio, miei cari e amati figli, forse io non sarò più tra i vivi. 
Questa mattina alle 7 mentre mi trovavo ancora a letto sentii chiamare il mio nome. Mi alzai subito. Una guardia aprì la porta della mia cella e mi disse di scendere che ero atteso sotto. Discesi, trovai un poliziotto che mi attendeva, mi prese su di una macchina e mi accompagnò al Tribunale di Guerra di Via Lucullo n.16. Conoscevo già quella triste casa per aver avuto un altro processo il 29 febbraio scorso quando fui condannato a 15 anni di prigione. Ma questa condanna non soddisfece abbastanza il comando tedesco il quale mandò l’ordine di rifare il processo. Così il processo, se tale possiamo chiamarlo, ebbe luogo in dieci minuti e finì con la mia condanna alla fucilazione.
Il giorno stesso ho fatto domanda di grazia, seppure con repulsione verso questo straniero oppressore. Tale mia suprema rinuncia alla mia fierezza offro in questo momento d’addio alla vostra povera mamma e a voi, miei cari disgraziati figli.
Amatevi l’un l’altro, miei cari, amate vostra madre e fate in modo che il vostro amore compensi la mia mancanza.
Amate lo studio e il lavoro. Una vita onesta è il migliore ornamento di chi vive.
Dell’amore per l’umanità fate una religione e siate sempre solleciti verso il bisogno e le sofferenze dei vostri simili.
Amate la libertà e ricordate che questo bene deve essere pagato con continui sacrifici e qualche volta con la vita.
Una vita in schiavitù è meglio non viverla.
Amate la madrepatria, ma ricordate che la patria vera è il mondo e, ovunque vi sono vostri simili, quelli sono i vostri fratelli.
Siate umili e disdegnate l’orgoglio; questa fu la religione che seguii nella vita.
Forse, se tale è i mio destino, potrò sopravvivere a questa prova; ma se così non può essere io muoio nella certezza che la primavera che tanto io ho atteso brillerà presto anche per voi. E questa speranza mi dà la forza di affrontare serenamente la morte.»
Dal Carcere di Regina Coeli
Roma, 12 aprile 1944

Camillo non aveva parole. Aveva giurato di non piangere, ma gli occhi gli si riempirono ugualmente di lacrime, perché impreparati ad accogliere tutto quell’amore.

Il suo amico Pietro era stato una grande persona, ancora più di quanto egli aveva creduto. E chissà quanti come lui avevano già offerto la vita! Si riempì di coraggio, quel coraggio che non aveva mai avuto, il coraggio che Pietro, probabilmente, gli aveva lasciato in dono. Era giunto il momento di diventare un uomo, di combattere, di resistere, di morire se necessario!

Osservò Enrica, Filippo e Rosa. La loro dignità lo commosse. Donò ai tre il poco denaro che aveva e li lasciò, con la promessa di tornare. Uscì da quella casa e corse, corse, corse attraverso paesi, valli, montagne, alla ricerca dei partigiani, alla ricerca della libertà.
Alice Mazzali
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