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Roseto Basket Story
MICHELE MARTINELLI: ‘COME PORTAMMO A ROSETO MAHMOUD ABDUL-RAUF’.
Roseto degli Abruzzi, Hotel Bellavista, ottobre 2004. Michele Martinelli accoglie nel Lido delle Rose il nuovo ingaggio Mahmoud Abdul-Rauf.

Roseto degli Abruzzi, PalaMaggetti, gennaio 2005. Da sinistra: Ansu Sesay, Michele Martinelli, Neven Spahija, Mahmoud Abdul-Rauf.
[Luca Maggitti]


Il ricordo di chi ha ingaggiato il Califfo. Silenzio, dopo oltre 10 anni, parla Miguelon.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Venerdì, 27 Febbraio 2015 - Ore 17:30

Era l'autunno inoltrato del 2004 e le cose non andavano granché bene, avevamo perso diverse partite e ormai era chiaro che avremmo dovuto cambiare qualcosa. Era inevitabile a Roseto, che aveva un budget complessivo inferiore a chiunque altro.
 
Bisognava prendersi qualche rischio e non tutte le ciambelle riuscivano col buco.
 
Un'altra cosa che rendeva difficili le scelte era la pressione che una piazza così metteva addosso a tutti. Perchè se Roseto conta 25.000 abitanti, 12.000 sono allenatori, 12.000 general manager e 1.000 profeti di sventura!
 
Se c'è una qualità che manca o della quale, forse, non ce ne è abbastanza, è la capacità di sorridere e di interpretare le difficoltà più che come disgrazie come opportunità per migliorare.
 
Ma forse Roseto aveva aspettato talmente tanto il momento di contare davvero qualcosa nel basket che, una volta arrivato nei paraggi, ambiva al "tutto e subito" che, come si è visto, non è stato possibile.
 
Ma torniamo alla cronaca del momento, di quel momento intendo. 
 
Io, per fortuna mia che subivo meno pressioni e di chi quelle pressioni le faceva che riceveva in cambio meno "vaffa", vivevo a l'Aquila e  mi salvavo. Chi invece era aggredito quotidianamente era Domenico Alcini, al quale tutti i rosetani si rivolgevano per lamentarsi, per proporre rimedi, nuovi giocatori, nuovi dirigenti e, sommessamente, per richiedere qualche biglietto omaggio in più che male non faceva.
 
Ogni tanto ci sentivamo e vedevamo e lui, con la feroce lealtà che gli era propria, mi riportava la maggior parte delle cose che gli dicevano, come argomenti per spingermi ad agire. I suggerimenti che mi trasferiva mi erano sempre utilissimi ad escludendum. Lui però mi guardava fisso come per dire: “Chìss sarànn pìr voccapìrt, ma caccòs faciòm, no?”.
 
Lui era in trincea, io no. E lui aveva ragione.
 
Insomma, il ribollire della legittima insoddisfazione era motivazione sufficiente e condivisa per muoversi e pensai che quella poteva e doveva essere la motivazione adeguata per creare quello che sognai potesse essere ciò che è stato: “Il Roseto più forte di sempre”.
 
Ribaltare l'assunto per ribaltare il risultato.
 
Volevo un giocatore che trascinasse il gruppo, che mediaticamente fosse il botto che rompeva il muro del pessimismo, che si caricasse sulle spalle il peso della squadra. 
 
Feci molte telefonate di qua e di là dell'oceano, ma soprattutto trascorsi ore al computer per vedere se ci fossero ex stelle NBA che, per qualche ragione, potessero fare al caso nostro.
 
Quando mi imbattei nel nome di Rauf pensai da un lato che fosse un giocatore troppo importante, dall'altro che era proprio quello che ci serviva perchè immaginai che potesse essere l'ideale per valorizzare in parallelo il talento, fino ad allora non compiutamente espresso, di Woodward.
 
Vidi che aveva già avuto una esperienza in Europa, senza però finire il campionato. Mi informai su chi fosse il procuratore: Keith Glass. Uno con la fama di “cagnaccio”. Non Arn Tellem e forse neanche Paco Belassen, ma uno con il quale trattare non era facile.
 
L'approccio fu sconsolante: 40.000 dollari al mese e non si discute. Di solito, quando dicono che non si tratta vuol dire che qualcosa si può fare ed a quello mi appigliai.
 
Ci sentivamo quasi quotidianamente, facendo microscopici passi in avanti. Ad un certo punto immaginai che potesse essere utile inserire nella negoziazione un procuratore italiano, che ben conoscevo e con il quale avevo un rapporto cordiale: Luigino Bergamaschi. Gli chiesi di contattare Glass per capire i veri margini di trattativa.
 
La trattativa proseguì su un doppio binario ed alla fine, nascondendo la doppia negoziazione, riuscii a strappare Mahmoud ai suoi ozi per 20.000 dollari mensili, garantendo però al buon Keith una generosa overcommission, che ne addolcì l'atteggiamento.
 
L'affare era concluso, ma si trattava ora di “vendere” ai soci l'extra budget complessivo, di circa 60.000 dollari che l’operazione comportava. 
 
Lasciai passare 24 ore e scesi a Roseto. 
 
Il tempo, ci vedemmo di sera ricordo, era splendido come spesso a Roseto accade anche d'autunno ed eravamo in maniche di camicia.
 
Dopo cena, Domenico venne al Bellavista, allora headquarter indiscusso degli Sharks, e ci sedemmo sul muretto che delimita il prato del lido.
 
Domenico fu al solito diretto e chiarissimo: “Micchè, che càzz t’nòm fà? Ècche è nù trtùm... m’abbòttn lì cujùn dìntr e fòr la càs. Fa coma càzz t pàr, ma fa!”.
 
Gli spiegai che forse la soluzione c’era, ma che era onerosa oltre il budget già concordato, per 60.000 dollari.
 
Mi guardò un po’ di traverso, poi mi disse: “Sei sicuro che è bbòne?”.
 
Gli risposi: “Sicuro, Domé. Tre volte più di 50 punti in NBA, 14 di media in carriera”.
 
Domenico rivolse lo sguardo alle sue Hogan (non gli ho mai visto una marca diversa ai piedi), tacque per qualche secondo, poi alzò la testa e disse: “E vabbò. Siamo sei, sò 10.000 dollari a prò!”.
 
Fu così che ebbi l'OK per concludere l'operazione. Il resto lo sapete.
 
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