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DIMMI COME MANGI GLI ARROSTICINI E TI DIRO’ CHI SEI...
L’arrosticino. Uno e trino.

Stecchi di arrosticini di viaggiatore solitario e guida.

Stecchi di arrosticini di arbitro di basket.

Il modo di mangiarli e, soprattutto, il modo di gestire gli stecchi dicono tutto di noi.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 03 Settembre 2015 - Ore 12:15

A come Abruzzo, a come “arrosticini”, anche se il colto amico Giovanni Tavano ha solide – e sapide – argomentazioni (che trovate nel pezzo in calce), per correggerci e farceli chiamare “arrostelli” (rustill’).
 
Insomma: non c’è Abruzzo senza gli spiedini di carne di pecora arrostiti sulla brace, formidabili alleati sia per il perfetto convivio all’aria aperta d’estate sia per il poderoso pomeriggio-sera invernale vicino al camino.
 
L’arrosticino è molte cose insieme: rompighiaccio per sconosciuti seduti allo stesso tavolo e misuratore di vigoria digestiva. Si narrano leggende di formidabili incassatori di arrosticini che manco Bud Spencer con i cazzotti finti ricevuti in un film con Terence Hill (prima di prendere i voti).
 
Ho in mente una leggenda basket-metropolitana che gira da almeno 13 anni: quella volta in cui Norman Nolan, giocatore statunitense moro di pallacanestro di 204 cm (e un quintale e mezzo di peso, quando non era in forma), se ne mangiò 120 (centoventi) in quel di Campli, dove l’amico e compagno di squadra Donato Avenia (ex farnese) lo aveva condotto in gastronomica esplorazione.
 
Ma l’arrosticino è anche preziosa antenna, misuratrice di caratteri e personalità.
 
Anche qui il basket mi aiuta e ripenso ad Antonio Watson, meteora statunitense di professione centro, visto nel Roseto 2001/2002, che da Spizzico cominciò a mangiare gli arrosticini “dritto per dritto”, infilandosi lo stecco in bocca a mo’ di ghiacciolo. Nel mio inglese stentato, al suo secondo morso, gli dissi che era prossimo al suicidio e che bastava guardare la modalità laterale di sfilamento dei pezzetti di carne, portata avanti dagli altri commensali, per assumere il corretto stile di battaglia. Così fu. E il due metri e 4 centimetri evitò una delle morti più ridicole della storia.
 
Ci sono poi gli schizzinosi. E ancora basket. Perché è il turno di Sean Colson, visto a Roseto sempre nella stagione “sliding doors” 2001/2002, che invece – sempre da Spizzico – tentava di smembrare con la bocca i pezzi di magro da quelli di grasso, ottenendo una sorta di opera astratta composta dallo stecco, i residui grassi e alcuni magri. Uno schifo. E, d’altronde, era quello che voleva allenarsi in jeans e con il Rolex al polso.
 
Ma il più chiaro elemento di giudizio sulla persona che li sta mangiando è lo stecco nudo, dopo che l’arrosticino è stato assaporato.
 
Il modo di gestirli dice molto, quasi tutto, di noi.
 
Lungo tavolate di oltre una dozzina di persone, ho visto infamoni professionisti prendere una manciata di stecchi propri e confonderli in mezzo a quelli del compagno di tavolata seduto a fianco, che ignaro dava le spalle conversando con altri. Di solito sono i più contrari al conto “alla romana”, predicando il verbo del: “Ognuno si paghi gli arrosticini che ha mangiato”.
 
Ho visto perfidi e indigesti profeti della tavola a fianco (per fortuna) spezzare e gettare lontano gli stecchi, invitando l’oste a ricontare quelli addebitati, sicuri di un errore sul conto, per risparmiare 5 euro. Anzi, per vantarsi di aver fregato il ristoratore.
 
Ma il più bell’esempio di utilità degli stecchi – in rapporto a come siamo fatti dentro – lo abbiamo a fine pasto, quando possiamo ammirare la loro disposizione sui piatti o sul tavolo.
 
Martiri del gusto, gli stecchi possono riposare in vari modi.
 
Nell’estate del 2012, ebbi la fortuna di cenare con due fratelli molto legati, eppure diversissimi. Uno arbitro di basket, l’altro ex giocatore dello stesso sport e oggi guida motociclistica in viaggi lunghi e complessi, oltre che viaggiatore solitario da oltre un milione di chilometri percorsi in giro per il mondo.
 
Ebbene, i loro piatti dissero chi erano senza bisogno del profilo biografico. Certo, li conoscevo, ma se non li avessi avuti per amici avrei comunque tratto preziose indicazione dai loro stecchi, che potete vedere nelle foto di questo articolo.
 
L’arbitro li aveva sistemati con certosina precisione a lato del piatto, in fila, attento a pareggiarli nella lunghezza. E in quella diga compatta vedevo la sua precisione, lo scrupolo, l’attenzione del rispetto delle regole che si porta nel fischietto da quasi 35 anni.
 
Il viaggiatore solitario, invece, non si era curato di loro e il risultato era simile al gioco dello shangai. E nel loro disordine, bello e armonioso, vedevo lui che andava incontro al tramonto in sella alla sua moto, percorrendo terre di cui nulla sapeva e tutto voleva scoprire.
 
Ludwig Feuerbach, filosofo tedesco vissuto nel 1800, affermava: “Noi siamo quello che mangiamo”.
 
Se avesse conosciuto gli arrosticini, magari avrebbe chiosato: “E come mettiamo gli stecchi degli arrosticini dopo averli mangiati”.
 
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Venerdì 3 agosto 2012
Enogastronomica [Cibo, Vino e Spiriti.]
LA VERITA’, VI PREGO, SUGLI ARROSTICINI…
Li rustill’ vengono dai Balcani. Ce lo spiega Giovanni Tavano.
 
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Luca Maggitti
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