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Abruzzesi buoni per il Mondo
ANDREA BECCACECI: LONDON CALLING.
Andrea Beccaceci, all’interno del suo ristorante.
[Elio D’Ascenzo]


Intervista al titolare del Ristorante Beccaceci di Giulianova, famoso nel mondo, che oggi chiude.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Domenica, 08 Gennaio 2017 - Ore 18:00

Diventare un aggettivo è, per un artista, un punto di arrivo e di massima celebrazione (pensate a Federico Fellini, diventato “felliniano”).
 
Ora pensate a un ristorante di pesce, situato sulla costa dell’Abruzzo teramano, a Giulianova, che nel corso degli anni è diventato, addirittura, una sorta di unità di misura.
 
Il ristorante è Beccaceci, l’unità di misura è il modo di dire che da anni circola dalle nostre parti: “Ci giochiamo una cena da Beccaceci!”,
 
Già, perché da queste parti, quando ci si incaponisce su qualche argomento e le posizioni restano distanti, nel rimandare il chiarimento a una scommessa con pegno importante, spesso si sbotta: “Ho ragione io. E mi ci gioco una cena da Beccaceci!”.
 
Ecco. Da domani, lunedì 9 gennaio 2017, è come se avessero abolito il chilogrammo. Già, perché il Ristorante Beccaceci chiude oggi, mandando nell’archivio della memoria collettiva una storia iniziata addirittura nell’Ottocento.
 
Una storia commovente pensando a milioni di persone sfamate e coccolate nei secoli, prima con i piatti di terra (Tazio Nuvolari mangiò pollo coi peperoni, quando il pesce era cibo povero) e poi, nei decenni di massimo fulgore fino ai nostri tempi, con il pesce.
 
Andrea Beccaceci chiude il suo apprezzato e premiato ristorante per raccogliere una nuova sfida, oltremanica. Prima di partire, ha accettato di fare una chiacchierata con ROSETO.com. Eccola di seguito.
 
Andrea, come nasce la scelta di chiudere il ristorante Beccaceci di Giulianova e andare a lavorare a Londra, come manager nel campo della ristorazione italiana?
«Lo scorso anno, mi è arrivata la richiesta di una consulenza da parte di un operatore della ristorazione di stanza a Londra. L’inizio di questa consulenza, mi ha spinto anche a fare un bilancio della mia carriera professionale e di quel che erano le mie prospettive da qui a 10, 15 anni».
 
Prospettive buone o cattive?
«Ho due figli che hanno deciso di intraprendere strade diverse. Uno lavora a Londra, nella City, l’altro studia Lettere a Bologna. Insomma: non avendo continuità nei figli, ho capito che sarei stato comunque io l’uomo che avrebbe dovuto scrivere la parola fine su una storia molto lunga, gloriosa e piacevole per tutti coloro che ne hanno fatto parte».
 
E la cosa ti ha fatto paura?
«Più che paura, mi sono reso conto che, dopo 35 anni passati professionalmente qui a Giulianova, avrei dovuto riprogettare qualcosa che comunque entro 10, massimo 15 anni, avrebbe avuto una fine».
 
E qui, suppongo, torna la tua consulenza londinese...
«Sì, perché l’idea di una “morte” professionale e cioè della chiusura del ristorante ha iniziato a contrapporsi con la vita di un nuovo progetto. Una vita che si alimentava a mano a mano che andavo a Londra e guardavo la città. Ci sono stato 10 volte nel 2016 e, banalmente, ho scoperto che poteva esistere anche un altro mondo».
 
So come vanno queste cose. Se sei un consulente di quelli che chiede l’orologio ai clienti per dire loro che ore sono, di solito ti pagano e mandano via, ma se invece lavori bene...
«Indovinato. Dopo la consulenza, i miei interlocutori londinesi mi hanno fatto la proposta di andare a lavorare per il loro gruppo, che si occupa della gestione di ristoranti italiani».
 
Quindi scelta fatta...
«Sì, ma dopo aver messo nel conto anche la mia naturale curiosità e la mia voglia, a 55 anni, di avere ancora diverse cose da dire e da dare al mondo della ristorazione. Insomma: seppur nata per caso, questa opportunità a Londra è capitata, non lo nego, anche al momento giusto».
 
Un migrante 2.0, diretto ad Albione...
«Già. Lascio un’attività e, soprattutto, una storia che hanno costruito i miei nonni, i miei genitori e poi io. Una storia che, proprio perché è frutto di dignità, operosità e curiosità, doveva trovare un epilogo degno della propria identità e non trascinarsi».
 
Il pensiero dominante, dopo questa decisione?
«Spero che questo sia il compimento di un percorso. Nessuna attività basata sulle persone, sui loro sentimenti e sulle loro capacità è eterna. Le storie cambiano, si evolvono e Beccaceci non fa eccezione».
 
C’è un ristorante che chiude, certo, ma direi che c’è pure un nome (o un “brand”, direbbero quelli bravi) che non muore...
«Vero. Il nome Beccaceci, mi permetto di dire, continua nella mia curiosità e nel mio operato, con la voglia che ho di misurarmi in nuove imprese e nella voglia di vivere anche realtà diverse, perché ritengo di avere ancora almeno 15 anni di produttività estrema».
 
A proposito di migrazione, porti qualcuno con te?
«Come ti dicevo prima, il mio primogenito Carlo, 26 anni, lavora a Londra e continuerà a vivere in una sua casa, diversa da dove andrò io. Pietro, 19 anni, ha iniziato gli studi a Bologna e lì resterà. Mia moglie, Alberta Ortolani, resterà a Giulianova a svolgere la sua professione di avvocato, ma ovviamente ha benedetto la mia decisione. Adesso la famiglia si è arricchita di un quinto elemento: il Signor RyanAir (sorride, n.d.r.)».
 
Da abruzzese, non posso non chiedertelo: Beccaceci chiuso per sempre o un giorno potresti riaprirlo?
«Ci può stare, perché rientra nella mia curiosità».
 
Le difficoltà maggiori che stai vivendo, a livello umano?
«Intanto dirlo ai clienti, salutare gli amici che per anni ci hanno supportato, rendere pubblica la cosa con quel che ne deriva a livello di sentimenti. Lasciamo tantissimi amici, prima che clienti, e non si scherza coi sentimenti né con le persone, che irrimediabilmente mancheranno a me e al mio staff».
 
Ti senti pure tu uno dei tanti “cervelli in fuga”?
«Ma no! Non è una fuga, è una cosa che è capitata a Londra, ma che poteva capitare a Milano, Dubai, Roseto o Tortoreto. Questo significa anche non nasconderti una certa mia stanchezza logistica».
 
Tre “r”: rimorsi, rimpianti, rimproveri?
«Certo, fa parte della vita professionale di ognuno fare bilanci e trovarci dentro queste voci».
 
Le prime cose che ti vengono in mente, della serie: “Mi sarebbe piaciuto...”?
«Mi sarebbe piaciuto spostare il ristorante 20 anni fa e dare anche un panorama ai clienti, mi sarebbe piaciuto avere – parallelamente al ristorante – un’azienda in cui organizzare cerimonie... mi sarebbe piaciuto fare tante cose che non ho fatto, ma ti assicuro che sono molto contento delle cose che ho fatto durante il mio cammino professionale. Anche perché essere figlio di una dinastia e dare il proprio contributo, se non elevando almeno conservando, ti assicuro che non è semplice».
 
Sei stato l’uomo della modernizzazione...
«Diciamo che una cosa che mi inorgoglisce molto è aver creato professionalità interne, valorizzando giovani».
 
Se questo momento della tua vita fosse una canzone, quale sarebbe?
«(Sorride, n.d.r.) Sicuramente “Born to run”. Sono un fan folle di Bruce Springsteen, quindi scelgo questo inno alla voglia di correre, di non fermarsi, di procedere».
 
Hai sentito qualche collega, in merito alla tua decisione?
«Con i miei colleghi ho un rapporto fantastico. Purtroppo, devo dirti che, senza citare casi specifici, quasi tutti mi dicono che invidiano il mio coraggio e la mia forza nel prendere questa decisione. E questo mi fa riflettere molto».
 
Una risposta con questo retrogusto amaro, non può non aprire una riflessione più ampia sullo stato attuale della ristorazione di qualità...
«A mio avviso, oggi a Giulianova, in Abruzzo e in Italia è un momento difficilissimo per la ristorazione di qualità e con occhio attento a materie prime, servizio e convivialità. Quelli che sopravvivono bene sono quelli che hanno una famiglia numerosa e che quindi, operando insieme, attutiscono bene i gravami fiscali e di altro genere».
 
Dentro e fuori dai ristoranti, costi in esplosione e capacità della spesa sempre più ridotta per la maggioranza delle persone. Dico una cosa banale?
«Direi di no, perché è quel che è effettivamente accaduto negli ultimi anni. Non voglio dire che la capacità media di un cliente si è dimezzata, ma ci siamo vicini. Questo significa, parlando di ristorazione di qualità, che se si ragionasse con i parametri di valutazione che si applicano nelle aziende, gran parte dei ristoranti sarebbero da chiudere, perché non più economici».
 
È un problema del “lavorare alla carta”, suppongo, visto che le televisioni sono invase da “chef star”...
«Esatto. Quello è un ottimo modo di far quadrare i conti per un bravo chef, ma lavorare dentro il ristorante, solo con il menu alla carta, è sempre più complicato e quasi sempre in perdita, stante la capacità di spesa della gente, nelle nostre zone».
 
Che Italia lasci, enogastronomicamente parlando?
«Viva. Probabilmente, mediamente parlando, non si è mai mangiato così bene in Italia, in Abruzzo e sulla costa teramana. Quindi viva, però in difficoltà per quanto riguarda il risvolto economico per potersi permettere l’eccellenza che sappiamo produrre».
 
Niente pessimismo, insomma...
«No. Ci sono artigiani che lavorano, formano, tramandano. E poi ci sono gli artisti – una decina – che hanno le stelle».
 
Il problema non è quindi l’offerta, mai così alta a sentire te, bensì la domanda che risente di una crisi economica ormai quasi decennale. E quindi tu ti muovi per cercare nuovi mercati, dove portare sapori e saperi...
«Sì, direi che è una metafora calzante».
 
E l’Italia, fuori dalle cucine e dalle sale dei ristoranti? Che Italia lasci?
«Lascio un’Italia bruttissima, volgare, litigiosa, che ha perso anche la cultura e il gusto del linguaggio».
 
Accidenti! L’Italia, così come l’hai dipinta, di certo non sa neppure più godersi un buon pasto...
«Diciamo che è un Paese che ha bisogno di uno scatto in avanti, a livello di civiltà».
 
Andrea Beccaceci, modalità “vita a Londra”. Come te la immagini rispetto a quella giuliese?
«Molto più impegnativa e sicuramente diversa, senza il rischio di dare mai nulla per scontato, né di adagiarsi o appiattirsi».
 
E Giulianova?
«Mi mancherà, come logico. Ovviamente, tornerò quando possibile, anche se i primi due mesi del 2017 saranno intensissimi e con poco tempo libero».
 
Andrea, chiudiamo questa intervista con i “più” e i “meno” a tavola. Mi piacerebbe che tu mi raccontassi dei clienti più famosi ospitati, dei più gentili e dei più cafoni, delle critiche ricevute che più ti hanno fatto crescere e dei complimenti più belli ricevuti...
«Facciamo così, per questo risentiamoci. Sono sinceramente preso da mille cose, fra chiusura del ristorante e preparativi per andare a Londra, che ti risponderò volentieri in futuro, avendo più tempo a disposizione».
 
Affare fatto, Andrea. Proverò a disturbarti a primavera inoltrata. Intanto, uno sportivissimo “in bocca al lupo”!
 
Luca Maggitti
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