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Sabato, 18 Maggio 2024 - Ore 12:09 Fondatore e Direttore: Luca Maggitti.

25 anni senza Faber (11.01.1999-11.01.2024)
LA TESI DI LAUREA DI GIORGIO DI BONAVENTURA PER RICORDARE FABRIZIO DE ANDRÉ / 1
Fabrizio De André.

Roseto degli Abruzzi, 11 agosto 1998. Da sinistra, Enrico Marziani, Marco Quaranta, Alfonso Borghese, Fabrizio De André. Seduto, l’attuale sindaco dell’Aquila, Pierluigi Biondi, all’epoca grande fan di Faber, arrivato da Villa Sant’Angelo (di cui è stato sindaco negli scorsi anni) per seguire il concerto al parco Chico Mendez di Giulianova.
[Fotografia conservata alla reception dell’Hercules]


Mondiale di Basket 3x3 Under 23 in Cina nel 2019. Giorgio DI Bonaventura durante Italia-Brasile.

L’introduzione e il primo capitolo (Rapporto fra Letteratura e Musica). Nei prossimi giorni, gli altri capitoli.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 11 Gennaio 2024 - Ore 11:30

Un quarto di secolo fa (11 gennaio 1999) passava a miglior vita, sulla soglia dei 59 anni e per le conseguenze di un tumore ai polmoni, uno dei più grandi cantautori della musica leggera italiana: Fabrizio De André.
Questo sito intende omaggiare l'inimitabile artista genovese pubblicando la tesi integrale - elaborata in Letteratura Comparata (Facoltà di Scienze della Comunicazione) nell'anno accademico 2019/2020 - discussa da Giorgio Di Bonaventura, ex cestista abruzzese, classe 1997, cresciuto nel settore giovanile del Moncalieri e successivamente visto in canotta Roseto (A2), Latina (A2), Cento (A2), Teramo (B) e Luiss Roma (B), quest'ultima la franchigia con cui, nella stagione 2022/2023, ha conquistato la promozione in A2. Giorgio è stato anche atleta della Nazionale di Basket 3x3, disputando tornei internazionali e il Mondiale Under 23 in Cina nel 2019.
Buona lettura.


GIORGIO DI BONAVENTURA
Il regista poetico-musicale De André e la collina di Spoon River

INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO PRIMO
Rapporto fra Letteratura e Musica

CAPITOLO SECONDO
La vita di Edgar Lee Masters
L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters

CAPITOLO TERZO
La traduzione dell’Antologia di Spoon River in Italia

CAPITOLO QUARTO
La rivisitazione poetico-musicale di Fabrizio De André

CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA

SITOGRAFIA



INTRODUZIONE


Fabrizio De André (1940-1999) è stato insieme a Tenco, Bindi, Lauzi e Paoli, uno dei portavoce di quella che è stata definita la Scuola genovese, un gruppo di artisti che ha rinnovato la musica leggera italiana. Quando si pensa di argomentare che De André rappresenta molto di più che uno fra gli esponenti più ispirati del filone poesia per musica - da sempre contrapposto al filone musica per poesia - è necessario fare delle premesse e ripercorrere alcune tappe fondamentali del percorso umano e professionale compiuto dal cantante ligure, per inquadrarlo, legittimamente e da protagonista, in una terza dimensione espressiva, non solo poetica e non solo musicale, che il Prof. La Via definisce «poetico-musicale» (1).

É acclarato che tutta la critica italiana considera Fabrizio De André, detto Faber, uno dei maggiori cantautori di tutti i tempi e, sicuramente, quello che meglio di ogni altro è riuscito a produrre grande letteratura, divulgandola attraverso la musica. Nei quattro decenni di attività, conditi da tredici album più diversi singoli poi raccolti in antologie, i brani di De André - trattando spesso temi sociali con metafore poetiche puntellate da un linguaggio inconfondibile e alla portata di tutti - sono ritenuti all’unanimità delle vere e proprie poesie, tanto che diversi fra essi (per esempio La canzone di Marinella, La guerra di Piero, Il pescatore e Bocca di Rosa) sono contenuti in numerose antologie scolastiche di letteratura, al fianco di poeti come Pascoli, Ungaretti, Leopardi, Gozzano e Montale.

Tutto ciò non rappresenta certo un azzardo, men che meno una forzatura:
«L’affinità fra poesia e musica è facilmente rintracciabile in molte tecniche e strutture utilizzate da Faber. Rime, assonanze, allitterazioni e metafore sono il tessuto emotivo del suo canzoniere. Un lavoro di scrittura unico in Italia – con l’eccezione forse di Francesco Guccini – perché De André componeva pensando prima di tutto alla metrica della musica. Sicché la ‘semplice’ lettura dei suoi testi in un libro non ne diminuisce il valore, la bellezza e la musicalità»  (2).

Alla luce di tutto ciò, considerare De André un artista di altissimo livello, classificandolo tale primariamente per la forza dirompente, e spesso carica di sentimento, dei suoi testi e soltanto dopo, secondariamente, per l’attenzione riservata alla sfera musicale, sembrerebbe quasi cosa naturale, visto che è proprio questo il concetto che si è sedimentato nell’immaginario collettivo dei suoi fan, gli stessi che, fin dagli esordi, lo hanno ascoltato, a volte discusso e quasi sempre amato. In realtà, questa idea di rapporto ancillare fra le due discipline – poesia e musica - che vorrebbe legittimare la gerarchia scelta dal cantautore genovese verso una presunta superiorità della componente poetica su quella musicale, oltre ad apparire molto semplificata, non ha grande fondamento. In primis, De André non ha mai sofferto, e tanto meno aveva ragione di temere, la dimensione musicale: infatti, non dimentichiamo che egli, già all’età di quindici anni, entra come chitarrista a far parte di un gruppo, The crazy cowboys & The Sheriff One e subito dopo di un altro, il Modern Jazz Group, a cui talvolta si univa anche Luigi Tenco, al sax alto. Tutto ciò si traduceva nella preziosissima opportunità di esibirsi in pubblico - tra club privati, feste e teatri di Genova - e di confrontarsi in modo diretto con vari generi musicali, passando dal country al western e al jazz. Ecco come ricorda quei giorni lo scrittore Viva:

«Si trattò di un’esperienza straordinariamente formativa; suonare jazz in quegli anni, e a quell’età, con un repertorio non certo facilissimo, non era cosa da niente. Fu così che Fabrizio sviluppò un incredibile senso del tempo e del ritmo» (3).

La passione per la chitarra, che lo aveva avvicinato all’attrezzo già all’età di dieci anni, prometteva prospettive interessanti, rendendo il virgulto De André, progressivamente, un chitarrista così devoto allo strumento da scrivere, nel sofferto brano autobiografico Amico fragile (Volume 8, 1975):

«Pensavo è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra».

Quindi, questa consapevolezza, questa autostima artistica metabolizzata fin dall’età adolescenziale, a cui si aggiunge la scoperta di una voce particolarmente magnetica, che oggi definiamo inconfondibile, porterà De André ad incidere il suo primo singolo (Nuvole barocche, 1961) a soli ventuno anni, facendogli ulteriormente sviluppare una rilevante propensione all’elemento musicale, al punto che l’artista ligure non ha mai avuto ragione di pensare che quest’ultimo potesse, o tantomeno dovesse, considerarsi subordinato rispetto all’importanza e alla qualità dei propri versi. Un’altra ragione che, presupponendo un eventuale rapporto ancillare a favore della componente linguistico-espressiva poetica, rischierebbe di penalizzare, o quanto meno di produrre un effetto riduttivo sulla valutazione complessiva del profilo artistico di De André, consiste nella sua ferrea volontà di rifiutare l’etichetta di poeta - come vedremo in maniera più approfondita nel capitolo dedicato al rapporto fra letteratura e canto, dove si cercherà di ricordare anche l’ambiente storico-culturale in cui sono maturate determinate decisioni o prese di posizione - preferendo umilmente la definizione di cantastorie.

Quindi, possiamo dire che egli si vedeva più come un trovatore moderno, tra l’altro spesso impegnato, fin dagli inizi degli anni Sessanta, nella laboriosa arte della traduzione di canzoni interpretate da artisti stranieri di primo piano, in special modo come Georges Brassens (1921-1981) e, negli anni Settanta, Leonard Cohen (1934-2016) e Bob Dylan (1941). Proprio Brassens, esponente del filone francese poesia per musica e stregato come Faber dal poeta maledetto François Villon, rappresentò una folgorazione per De André, visto che le sue canzoni riflettevano quello spirito libertario, che il giovane genovese sentiva molto vicino al suo animo, e quella avversione ad ogni forma di intolleranza, soprattutto nei confronti dei più deboli, che egli – oltretutto affascinato dalle idee anarchiche del transalpino - condivideva pienamente.

Se il cantautore ligure, negli anni Settanta, tradusse tre brani di Cohen e due di Dylan, dal repertorio dello chansonnier Georges Brassens, affezionato alla pipa e abilissimo a far viaggiare poesia e musica sullo stesso binario, egli estrasse addirittura sette canzoni, inserite nei suoi primi dischi a 45 giri, a dimostrazione di un’ammirazione davvero speciale verso quel cantante che aveva conosciuto, e immediatamente interiorizzato, nel 1954, attraverso alcuni vinili riportati dal padre dopo un viaggio fatto in Francia.

In questa artigianale e intraprendente veste di traduttore, considerando in particolare gli spazi ristretti dei testi di Georges Brassens – naturalmente senza dimenticare quelli successivi di Cohen e Dylan - la critica è stata concorde nel riconoscere a Fabrizio De André l’abilità di aver ricreato, in maniera molto fedele, l’atmosfera legata ai brani originali; eppure, proprio per riaffermare l’idea che non ci troviamo di fronte ad una passiva opera di traduzione e tantomeno alla presenza di un rapporto ancillare fra musica e poesia a vantaggio di quest’ultima, le parole di La Via testimoniano il desiderio embrionale dell’ispirato artista genovese di realizzare un connubio vincente, una “ricomposizione” tra poesia, letteratura e musica:

«Persino in traduzioni apparentemente “fedeli”, come ad esempio quella della brassensiana Dans l’eau de la claire fontaine (Nell’acqua della chiara fontana), l’omaggio al modello venerato si trasforma impercettibilmente in una ricomposizione, altamente personale, nella quale musica e poesia si fondono pienamente in una “terza dimensione” linguistico-espressiva dal suono – anche inteso come sound – inconfondibilmente deandreiano»  (4).

Con il passare del tempo, soprattutto a partire dagli anni Settanta, De André, pur non rinnegandolo mai del tutto, innesca un processo di smarcamento dal classico modello francese, iniziando sia a circondarsi di un collettivo sempre più ampio di coautori (musicisti e poeti) che a scrivere testi poetici sulla musica già composta da altri; nel nuovo corso, la poetica delle sue canzoni, che spesso testimoniano la grande attenzione che il cantautore genovese ha per gli ultimi e gli emarginati, viene quindi impreziosita con sonorità che abbracciano non solo archi temporali diversi - dalle atmosfere barocche a quelle della tradizione popolare regionale italiana - ma anche luoghi diversi, spaziando dal sound mediterraneo a quello internazionale, affermando progressivamente Faber, nei decenni a venire, come il regista di un canzoniere multiforme ma comunque marchiato a fuoco dal suo stile inconfondibile. Alla luce di questa evoluzione professionale, diventa molto significativo il peso specifico dell’operazione che ha portato De André a rivisitare il classico della letteratura statunitense di Edgar Lee Masters, cioè l’Antologia di Spoon River (1915), che diede origine, nel 1971, all’album Non al denaro non all’amore né al cielo, un long playing che, oltre ad essere uno dei dischi più riusciti del cantautore ligure, rappresenta anche un valido riferimento a tutta quella letteratura americana arrivata tardi in Italia, a causa del proibizionismo legato al fascismo. Infatti, questo concept album, che segue il primo concept album dell’artista, cioè La buona novella (1970), disco ispirato alla vita di Gesù secondo la versione dei Vangeli apocrifi, funge da spartiacque, da punto di svolta: dal momento in cui il progetto di Fabrizio De André prevede di rivolgere il proprio sguardo ad un testo che egli conosceva molto bene, visto che lo aveva letto una prima volta intorno alla fine degli anni Cinquanta e una seconda dieci anni più tardi, e di essere intenzionato anche a riscriverne, nel vero senso della parola, parte di alcuni dei momenti più significativi per renderlo più accessibile e diffonderlo in maniera trasversale, come vedremo nel capitolo finale, erano necessari cambiamenti strutturali che - legando in modo originale poesia e musica - agevolassero il compito di descrivere al meglio

«un gran corpo di epigrafi sepolcrali poste sulle labbra, secondo il buon gusto classico, ai morti stessi, di un villaggetto tipico nordamericano, Spoon River» (5).

Ecco che Non al denaro non all’amore né al cielo rappresenta il primo frutto di una nuova metodologia di lavoro: la produzione, oltre che al collaudato Dané, viene affidata anche a Bardotti, i testi vengono creati insieme al paroliere Bentivoglio mentre le musiche vengono curate dallo stesso Faber ma con l’aiuto decisivo del ventiquattrenne pianista Piovani, che si occuperà degli arrangiamenti e della direzione d’orchestra. Da questo momento, visti gli ottimi risultati ottenuti, Fabrizio De André non rinuncerà mai più a collaborazioni qualitativamente rilevanti per realizzare i suoi album, a riprova di quanto ci siamo ripromessi di affermare, cioè che egli non ha mai smesso di conferire uguale importanza alle due componenti linguistico-espressive, riuscendo sempre a combinarle – da consumato regista, in modo spesso diverso ma nondimeno efficace - in quello che il La Via definisce il terzo linguaggio, la terza dimensione poetico-musicale.


CAPITOLO PRIMO
RAPPORTO FRA LETTERATURA E MUSICA


Quello tra letteratura e musica, tra poesia e canto è un rapporto primordiale. Suono e parola hanno in comune il fascino e la potenza di espressione di un qualcosa che non deve necessariamente essere presente nell’immediato e nelle vicinanze, ma che al tempo stesso è dominabile, quasi controllabile, proprio mediante l'espressione e il canto, quindi tramite la parola, le figure retoriche (il verso) e il suono. Poi è ovvio che la parola sia suono, molto prima che segno o immagine scritta. Quanti libri hanno rappresentato l’incipit, l’ispirazione o addirittura l’oggetto palese della genesi di brani musicali, come nel caso della rivisitazione eseguita da De André - attraverso l’album del 1971 Non al denaro non all’amore né al cielo - dell’Antologia di Spoon River di Masters? I poemi classici, le ballate medievali, l’opera, ne sono solo un esempio. L’ispirazione può essere chiara sin da titolo e ritornello oppure più velata, passando da veri e propri metatesti (6)  per finire più semplicemente a parole e concetti che, attraverso le note, assumono una nuova forma, e generano nuove emozioni. Naturalmente, capita molte volte di chiedersi: prima la musica o prima la poesia? Probabilmente, proprio per non delegittimare una disciplina rispetto all’altra, i nostri antenati più lungimiranti hanno tramandato miti rassicuranti come quello delle comuni origini di poesia e musica, o del loro ancestrale connubio ritmico e sonoro. Le due arti vantano una storia secolare di vicinato, visto che entrambe, senza imbarazzo, ascrivono a sé opere che inglobano anche elementi dell’altra: l’Aida di Giuseppe Verdi è certamente parte della storia della musica, anche se non comprende soltanto suoni, mentre le cosiddette Canso dei Trovatori, apparse nel XII secolo, affondano le loro radici nella poesia, ma sono finalizzate con la musica. Successivamente, riguardo la grande canzone d’autore moderna - rispetto a quanto avveniva per il madrigale, nel quale si realizzava, tra Rinascimento e Barocco, una collaborazione tra un poeta e un musicista e dunque tra due sistemi formali complessi - queste due abilità convergono nella medesima persona, un po' come accadeva molti secoli prima, nel caso dei Trovatori.

Passando, quindi, dai trovatori antichi ai loro più legittimi eredi della nostra epoca, cioè i poeti-cantanti della canzone moderna - e dunque restando nell’ambito di una tradizione prevalentemente orale e fisiologicamente tendente all’improvvisazione – è impossibile prescindere dalla figura di Woody Guthrie (1912-1967): da alcuni definito l’archetipo del trovatore americano oppure assimilato ai «profeti della Bibbia, che cantavano gli avvenimenti del loro popolo» (7) , Guthrie è di certo il modello principe della cosiddetta protest song fiorita negli Stati Uniti a partire dai primi anni Sessanta, soprattutto per opera dell’astro nascente Bob Dylan (1941). A Guthrie vengono attribuite più di mille canzoni, che in realtà solo in rarissimi casi sono basate su melodie originali: si tratta in gran parte di motivi ripresi dall’inesauribile patrimonio musicale delle tradizioni folk e country americane, che Guthrie - sopra la cui chitarra campeggiava simbolicamente la scritta This machine kills fascists - si limitava a rivestire con nuovi versi, di ben altra intensità emotiva e attualità politica. Naturalmente, rispetto all’epoca dei trovatori, sia il contesto sociale che le forme specifiche, i canali di diffusione e gli stessi destinatari sono mutati radicalmente; eppure, quasi a rappresentare orgogliosamente un elemento di continuità, anche per Guthrie - come per il celebre trovatore classico Bernart de Ventadon – il cosiddetto contrafactum  (8) costituisce una prassi del tutto normale, che non si ha alcuna difficoltà a riconoscere come tale. Guthrie, però, non volle mai definirsi un poeta, ma un cronista del popolo:

«Ho preso a prestito la mia vita dalla vostra. Ho sentito in me la vostra energia e ho visto la mia scorrere in voi. Forse vi avranno insegnato a chiamarmi poeta, ma non sono più poeta di voi. E non sono più di voi scrittore di canzoni, cantante»  (9).

Queste parole carismatiche, scandite nel 1946, diverranno presto il credo di tutti i cantanti d’ispirazione folk degli anni Sessanta e Settanta. La tensione ideologica fra canzone e poesia assunse inevitabilmente toni molto accesi, al punto che i cantautori paragonati al rango di poeta tendevano di getto a rifiutarne l’etichetta, come fece ad esempio pubblicamente Dylan il 3 dicembre 1965, quando, alla domanda di una televisione di San Francisco che chiedeva se si considerasse più un cantante o più un poeta, egli replicò secco: «Io mi considero soprattutto un song-and-dance-man»  (10).

Questo tipo di atteggiamento intransigente, riguardo al termine poeta assegnato ai cantanti, si estese a macchia d’olio, diffondendosi anche al di fuori dei confini americani; infatti, sulla scorta di Guthrie e Dylan, anche autori italiani riconosciuti dalla critica letteraria ufficiale come autentici poeti, come ad esempio Guccini e De André, presero nettamente le distanze da questa etichetta, preferendo entrambi considerarsi dei cantastorie popolari, anche in virtù di un conflitto ideologico che ha caratterizzato il passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Infatti, negli anni Settanta - soprattutto fra i cantautori che avevano sviluppato la loro attività durante il periodo della contestazione verso la legittimità della cultura dominante e delle sue istituzioni - circolava in Italia «un’idea di poeta come protagonista ipocrita, intellettuale falso, traditore ambizioso e ubriacone»  (11). Naturalmente, la cultura ufficiale non porgeva l’altra guancia, ricambiando con gli interessi, attraverso studiosi e giornalisti, la scarsa considerazione riservata ai poeti:

I testi delle canzoni d’autore hanno mille riferimenti, mille echi, mille orecchiamenti alla cultura tradizionale letteraria, ma intanto rimandano alla parte peggiore di questa cultura e inoltre la riproducono cristallizzata e standardizzata, facendo di una produzione autonoma e originale […] un “genere”, uno stilema sempre riproducibile. Non solo: ma ingenerano nel pubblico la sensazione che scrivere poesie sia mettere parole in libertà secondo come dettano le viscere (Pintor, 1976, p. 148)  (12).

In un contesto così vibrante, la schiettezza di Francesco Guccini – il quale assegnava alla musica un ruolo subordinato rispetto ai testi - non lasciava adito ad equivoci, distanziando il cantautore dalle pretese associazioni tra poesia e canzoni; nel brano, divenuto un manifesto generazionale, L’avvelenata, tratto dall’album Via Paolo Fabbri 43, utilizzando un linguaggio forte per l’Italia del 1976, Guccini «se la prendeva non genericamente contro gli intellettuali, bensì contro la boria e la pesantezza ideologica dei critici militanti» (13), riferendosi in particolare a Riccardo Bertoncelli, il critico musicale che aveva stroncato il suo album Stanze di vita quotidiana (1974) e anche Storia di un impiegato (1973) di De André:

«Voi critici, voi personaggi austeri / militanti severi, chiedo scusa a vossìa / però non ho mai detto che a canzoni / si fan rivoluzioni, si possa far poesia».

Un’altra cruda opposizione tra la poesia scolastica istituzionale e la creatività dell’ambiente rock prende forma nel brano, dal titolo eloquente, Poeta mancato (1981) della Premiata Forneria Marconi - il gruppo che tra l’altro aveva accompagnato proprio De André nelle memorabili esibizioni dal vivo alla fine degli anni Settanta - dove il cantante Franz Di Cioccio

«dichiara di non essere né un poeta né un cantautore, mentre propone Bob Dylan come migliore alternativa ai classici del curriculum scolastico italiano, Carducci, Pascoli e Foscoli, che lo buttavano giù»  (14).

Precisato tutto ciò, nel rispetto delle legittime posizioni prese da artisti come De André e Guccini, è davvero riduttivo considerare questi e altri poeti come semplici autori di canzonette d’amore e continuare a fingere che ciascuno di loro non abbia fornito un contributo alla poesia del Novecento. Ma se la canzone moderna è per definizione una “canzone d’amore”, anche più del classico madrigale, è opinione condivisa che gli argomenti trattati, le atmosfere e il linguaggio utilizzato all’interno di essa rischiano di riproporre, in maniera ineluttabile, cliché banali e molto spesso prevedibili.

Eppure, anche in un caso così estremo, dove le probabilità di scivolare nello sdolcinato apparivano elevate, non possiamo di fatto ignorare due realtà:  l’alta qualità letteraria, varietà di immagini e situazioni raggiunta nel tempo da numerosi poeti e “parolieri” di canzoni amorose e poi l’evidenza che molti di questi autori - lungi dal dedicarsi in esclusiva alle classiche canzoni sentimentali - trovano la loro dimensione più convincente e genuina come

«poeti-cantanti di denuncia sociale e politica, talora in grado di proporre ancor più ampie e profonde riflessioni esistenziali, filosofiche, spirituali» (15).  

Come anticipato, queste qualità sono state rappresentate al meglio da un poeta-cantante, ancora in attività e prestigiosamente insignito a Stoccolma nel 2016 del Nobel alla Letteratura, come Bob Dylan, autore di struggenti ballate sentimentali ma anche di vibranti e appassionate canzoni di protesta, senza dimenticare, restando in ambito anglo-sassone, le qualificate produzioni discografiche di artisti come Tom Waits, Patti Smith, Joni Mitchell, John Lennon e Leonard Cohen, mentre, spostandoci in Italia, riflettori puntati, tra gli altri, su Paolo Conte, Francesco Guccini, Ivano Fossati, Enzo Jannacci e, ovviamente, Fabrizio De André. Alla luce dei numerosi esempi di contaminazioni avvenute fra musica e poesia, risultano ancora una volta utili, per non dire illuminanti, le parole del Prof. La Via:

«In realtà, la fenomenologia dell’interazione fra due forme espressive cosi diverse, e al contempo cosi strettamente imparentate, è talmente vasta e mutevole da sfidare ogni facile generalizzazione, ogni rigido schema storiografico, ogni diagramma evolutivo»  (16).

Ora, se per comodità di analisi intendiamo rivolgere la nostra attenzione ai due orientamenti del processo creativo - ossia da una parte l’intonazione musicale di un testo verbale già presente (poesia per musica), sia esso di poesia pura (come Le morte chitarre di Quasimodo, interpretato da Modugno nel 1960) o di poesia creata per il canto e dall’altra la scrittura di un testo su di una musica preesistente (musica per poesia) - allora diventa legittimo tentare di identificare le due tendenze più diffuse proprio sulla base della testimonianza di qualcuno fra i poeti-cantanti di maggior rilievo.

Da un lato, allora, i poeti-cantanti-narratori, quindi artisti come Woody Guthrie, Bob Dylan, Leonard Cohen, Francesco Guccini e, seppur in maniera progressivamente molto meno marcata, Fabrizio De André, che tendono a concepire il testo prima della musica, attribuendo genericamente ai versi maggiori possibilità espressive, e dall’altro poeti non solo cantanti ma anche musicisti, tipo Paul McCartney, Cole Porter, Chico Buarque, Joni Mitchell, Paul Simon e Paolo Conte che sostengono di comporre la musica prima della parte letteraria, come nel caso famoso del brano Yesterday (1966) dei Beatles, che inizialmente, al posto della parola yesterday, prevedeva curiosamente scrambled eggs, in italiano uova strapazzate.

In ogni caso, è opportuno precisare che, nonostante questo senso di appartenenza che alcuni artisti dichiarano apertamente all’uno o all’altro filone - poesia per musica o musica per poesia - il cosiddetto rapporto ancillare, a favore di una o dell’altra disciplina, non è affatto indispensabile:

«Il punto è che la precedenza cronologica di una componente rispetto all’altra, nel corso del processo creativo poetico-musicale, non implica a priori la definizione di un rapporto gerarchico, del tipo: quel che viene prima è più importante / rilevante / espressivo / strutturante / percepibile di quel che viene dopo; o anche: quel che viene creato “simultaneamente” è necessariamente paritario e ben equilibrato»  (17).

Logica conseguenza di considerazioni come questa è che l’incontro fra poesia e musica - come nel caso che tratteremo dello Spoon River rielaborato da De André, dove la poesia dell’artista ligure nasce mirabilmente dalla poesia di Masters ma dove anche la sua musica nasce dalla componente letteraria, per poi fondersi sui piani della forma e dei contenuti - dia sempre vita ad un terzo linguaggio, ad una terza forma di espressività, non esclusivamente poetica e non esclusivamente musicale, ma poetico-musicale, una specie di nuova dimensione così avvolgente da

«rendere inadeguato qualsiasi tipo di approccio univoco o specialistico, che si limiti cioè a considerare soltanto uno degli elementi costitutivi a prescindere dall’altro»  (18).

Alla luce di tutto ciò, si capisce che, per tutti gli artisti precedentemente citati, il terzo stadio creativo, in cui le due componenti, poesia/letteratura e musica/canto, procedono sullo stesso piano alimentandosi e riformulandosi a vicenda, acquista un peso specifico rilevante, visto che molti di loro - da Cole Porter al brasiliano Chico Buarque, passando per lo stesso Bob Dylan - hanno più volte pubblicamente dichiarato di «concepire simultaneamente, spesso di getto, le parole e la musica delle proprie canzoni»  (19).

In pratica, l’esperienza artistica insegna che, qualora ci si trovi di fronte ad autori oppure a coppie di autori - partendo dai nostrani Battisti/Mogol per finire ai celebri McCartney/Lennon, passando per i raffinati rappresentanti della bossa nova Tom Jobim e Vinicius de Moraes – in grado di sposare realmente le due esigenze formali, si accede ad una terza dimensione che tende a riservare emozioni speciali, in particolare quando accade che

«la sensibilità musicale del poeta (poesia per musica) sia amorevolmente corrisposta dall’altrettanto acuta e consapevole sensibilità poetica del compositore (musica per poesia)!»  (20).

Pertanto, ragionare esclusivamente in termini dei due filoni canonici (poesia per musica e musica per poesia) che sono all’origine del processo creativo, risulterebbe riduttivo, visto che ci priverebbe della terza dimensione (poesia con musica) che contribuisce, con il suo ampio ventaglio di opzioni - ovviamente mutevoli rispetto alle diverse sensibilità degli autori coinvolti - a garantire qualità importanti all’intero sistema. Concludendo, è pacifico affermare che artisti passati e contemporanei - dai Dire Straits che nel 1980 pubblicavano la canzone Romeo & Juliet ispirata dal testo di Shakespeare, a Bruce Springsteen che, nel 1995, con The ghost of Tom Joad rileggeva un caposaldo della cultura statunitense come Furore di Steinbeck, passando appunto per Fabrizio De André, che nel 1971 con l’album Non al denaro non all’amore né al cielo omaggiava l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, giusto per ricordare tre esempi famosi  - hanno attinto e continuano ad attingere dai personaggi dei romanzi o dai versi dei poeti per produrre e confezionare il loro materiale discografico.

Nel caso specifico che verrà esaminato, proprio quello di Fabrizio De André alle prese con le anime in cerca di riscatto descritte da Edgar Lee Masters nel classico Spoon River Anthology, analizzeremo come l’artista genovese, tra l’altro pacifista ed anarchico libertario al pari dello scrittore americano, grazie proprio al gioco di squadra realizzato professionalmente con i suoi collaboratori, accederà alla cosiddetta terza dimensione, riconoscendosi compiutamente nel ruolo di regista poetico-musicale, riuscendo così a conformare un linguaggio e a creare una forma musicale adatte a sostenere magistralmente lo slancio umano insito nella famosa raccolta poetica americana dove è possibile trovare adulterio, aborti, tradimenti, ipocrisie spicciole, banche strozzine, tanti rimpianti e dove «l’espediente utile a mettere in moto l’ingranaggio della narrazione è la morte»  (21).

NOTE
(1)    S. La Via, Poesia per musica e musica per poesia. Dai trovatori a Paolo Conte. Roma, Carocci Editore, 2017, p. 20.
(2)    C. Ermini, Fabrizio De André: 80 anni fa nasceva il poeta della musica italiana, in Io donna, 18 febbraio 2020, http://www.iodonna.it/spettacoli/musica/2020/02/18/fabrizio-de-andre-80-anni-fa-nasceva-il-poeta-della-musica-italiana/.
(3)    L. Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco, Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2020, p. 52.
(4)    Intervista a Stefano La Via, Letture.org, http://www.letture.org/poesia-musica-musica-poesia-stefano-la-via.
(5)    C. Pavese, Edgar Lee Masters, in Saggi letterari, Torino, Einaudi, 1982, p. 53.
(6)    Nella scienza della traduzione, indica il testo tradotto, cioè la meta cui deve giungere il processo traduttivo.
(7)    R. Shelton, Vita e musica di Bob Dylan, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 55.
(8)    Nella musica vocale, il contrafactum è il metodo che si riferisce alla sostituzione di un testo cantato per un altro, pur non apportando modifiche alla musica.
(9)    Shelton, Vita e musica di Bob Dylan, cit., p. 55.
(10)     A. Carrera, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 45.
(11)     F. Ciabattoni, La citazione è sintomo d’amore, Roma, Carocci Editore, 2019, p. 19.
(12)     Ivi, p. 23.
(13)     Ivi, p. 22.
(14)     Ivi, p. 23.
(15)     La Via, Poesia per musica e musica per poesia, cit., p. 157.
(16)     Ivi, p. 19.
(17)     Intervista a S. La Via, cit., Letture.org.
(18)     La Via, Poesia per musica e musica per poesia, cit., p. 20.
(19)     Ivi, p. 190.
(20)     Ivi, p. 158.
(21)     L. Tibaldi, La poesia per musica di Fabrizio De André, Civitella in Val di Chiana (AR), Editrice Zona, 2005, p. 24.


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