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Roseto Basket Story
GIAMPIERO PORZIO: ‘VI RACCONTO L’ULTIMA ALLA D’ANNUNZIO’.
MVP
Tommaso Ginoble. Risolutivo nell’ultima gara del Roseto alla Palestra D’Annunzio, nella stagione 1977/1978.


QUELLI CHE FECERO L’IMPRESA
Il Roseto 1977/1978, griffato GIS Gelati. In piedi, da sinistra: Morello, Olivieri, De Witt, Di Carlo, Lucantoni, Mulligan (coach). Accosciati, da sinistra: Serafini, De Simone, Ginoble, Tesoro, Ciafardoni.
[Archivio Vittorio Fossataro]


Stagione 1977/1978. Derby d’altri tempi fra Roseto e Chieti. Ce lo racconta il più giovane coach del Roseto Basket. Una commovente chicca.

L’Aquila
Mercoledì, 08 Febbraio 2006 - Ore 16:00

Il lungomare deserto alle cinque del mattino suggeriva riflessioni profonde sul senso della vita.

Molto più semplicemente, Muggs Mulligan ed io cercavamo a fatica di tornare a casa.

Quell’alba, per dirla con Francis Ford Coppola, “odorava di vittoria”.

Tutto era iniziato la mattina del giorno prima. La radio-sveglia, invece della solita dedica della solita ragazzina (“In diretta nel vento” dei Pooh, da un’anonima a Giampiero), aveva trasmesso la voce di Gigino Braccili che arringava la tifoseria. “Saremo disposti a picchiare chi non sarà degno della maglia. Oggi non ci saranno prigionieri.”

Si apriva una giornata di quelle destinate a modificare il codice genetico di quei pochi che l’hanno vissuta e di quei pochissimi che non l’hanno dimenticata.

Alle 17.30, palestra D’Annunzio, Roseto-Chieti. Penultima di campionato; noi al quinto-sesto posto, loro ad un passo dalla serie A. Per il Chieti, infatti, la vittoria avrebbe rappresentato la matematica promozione.

Il percorso da casa al Bar Ferzetti (in totale non più di trecento metri) fu eterno. Tutti volevano sapere, parlare della partita, dire la loro.

Il Chieti era fortissimo. Nino Marzoli in panchina e poi Dindelli, Pizzirani, D’Ottavio, Odorisio e compagnia bella. Giocavano un basket aggressivo e veloce. Il basket, che Teodor Lasic aveva portato a Chieti e che avrebbe segnato un periodo durato una quindicina d’anni.

Noi? I soliti. Sandro, Tommaso, Ernesto, Gianni e un paio di oriundi. Tonino Olivieri (il primo negro bianco venuto a Roseto dopo Ugo Nigrisoli) e Franco Tesoro (grande amico di Mulligan, l’unico giocatore di basket con il fisico e la pancia del camionista).

In casa eravamo imbattibili.

Alberto Bucci ed il suo Rimini, il Livorno, la Viola Reggio Calabria e altre squadre destinate a recitare un ruolo di primo piano nel basket italiano erano state battute ed umiliate nella palestra “D’Annunzio”.

Nel girone di andata avevamo perso a Chieti con classico Miserere di Selecchy intonato dai tifosi a fine partita.

A Roseto si aspettava quella partita con l’idea della vendetta più che della rivincita. Domenico Alcini, furibondo nel dopo-partita di Chieti, aveva messo in palio un premio-partita. Prima volta nella storia del basket rosetano.

Incontrai Muggs che si aggirava per il centro con Maria, sua fidanzata dell’epoca. Mi disse di avere in mente una mossa segreta che avrebbe completamente disorientato Nino Marzoli. In quel momento ebbi l’esatta percezione della totale follia di Muggs Mulligan.

Come Dio volle, arrivarono le cinque della sera. La tribuna lato-mare della D’Annunzio era completamente occupata dai tifosi teatini che accolsero la squadra al grido di “Serie A-Serie A”.

Durante il riscaldamento, appoggiato alle transenne, mi resi conto che quella sarebbe stata la mia ultima partita e che sarebbe stata anche l’ultima partita giocata alla D’Annunzio. Era, infatti, in costruzione il palazzetto che avrebbe ospitato gli Europei cadetti.

Nell’angolo, sotto le pertiche, Giovanni Giunco, Nino Di Sabatino e mio padre. Dietro di loro Muggs con Maria.

La partita fu un’altalena micidiale. Passai buona parte del tempo a tenere in tensione Tommaso Ginoble che Muggs, senza alcuna spiegazione logica, aveva deciso che avremmo dovuto tenere in panchina.

A sette-otto minuti dalla fine, fingendo di aver capito una cosa per un’altra, feci uscire uno spentissimo Franco Tesoro per Tommaso Ginoble.

Quello che accadde negli ultimi tre-quattro minuti è difficile da raccontare.

Quattro tiri sbagliati da loro e quattro contropiede tutti uguali: rimbalzo di Olivieri, palla a Sandro, passaggio lungo a Tommaso, canestro.

L’ultimo contropiede fu fatto ad una tale velocità che, come avrebbe detto il Gioann Brera, lasciò un solco indelebile nella mia retina.

Non ci fu il miserere, ma il battere ritmico dei piedi sulle gradinate di legno. “Roseto dum-dum-dum”.

Il finale fu indimenticabile: i rosetani, Maciste in testa, mossero minacciosi dal loro settore avanzando verso i chietini urlando “Serie A, Serie A”.

Civitarese, presidente del Chieti strappò la tessera della Federazione urlando che “Una squadra abruzzese non doveva ostacolare un’altra squadra abruzzese verso la serie A”.

Sotto le pertiche, Giovanni e Nino, lacrime agli occhi, si abbracciavano.

Mulligan, completamente inebetito, rideva come una zucca nella notte di Hallowen.

Mario Giunco strappava all’arbitro il pallone per chiedere un autografo a Marzoli, dicendo che era una vecchia tradizione rosetana.

Mio padre tentava invano di mantenere un minimo di ordine pubblico.

Io, seduto sulla panchina, pensavo che un’epoca si chiudeva.

L’epoca di Romano Nardi, di Emidio Testoni, di Troskot, di Grant, di tutti quelli che in quella piccola palestra avevano segnato la storia della città.

Quanto a me, come per i ragazzi di “Un mercoledì da leoni” la grande mareggiata rappresentava la fine della giovinezza, quella partita chiudeva il periodo più bello e spensierato della mia vita.

Soprattutto, sentivo che niente sarebbe più stato lo stesso.

Finiva il basket romantico e cominciava l’evoluzione verso il professionismo che avrebbe portato a stravolgere l’essenza stessa di Roseto e del suo sport.

Era finito il tempo dei falchi. Arrivavano le cornacchie con il loro seguito di procuratori, di maneggioni e di donne dei box.

La serata finì con la solita “Pizza Mulligan” all’Hercules, con i racconti di Giovanni Giunco e le micidiali pacche sulla spalla di Nino Di Sabatino.

Mai avrei più provato tanta felicità e tanta malinconia insieme.

Giampiero Porzio
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