L’inizio non poteva essere dei migliori… arrivo all’aeroporto di Nairobi, ore 6 del mattino, mi affaccio all’uscita nel tentativo di orientarmi, ma una gazzella mi azzanna la mappa che stavo minuziosamente scrutando per cercare un dolce rifugio durante i miei primi momenti di acclimatazione in terra straniera.
E va bene… non fa niente… mi è sempre piaciuto giocare al buio… e poi sono troppo incosciente per impressionarmi di fronte a queste piccolezze.
Per usare una metafora tanto cara al buon vecchio Tony, mi sento come una farfalla a cui il secondo volo appare già banale. Lo stacco lessicale è minimo… ma non è paradossale dire che nonostante certe situazioni border-line non mi spaventino, devo riconoscere che mi emozionano ancora.
Ed ho scoperto che la voglia di vivere nuove esperienze fuori casa, in contesti completamente sconosciuti, in condizioni a volte anche estremamente difficili che richiedono grande capacità di adattamento, non viene dall’insoddisfazione di quello che si ha già. In fin dei conti sono fortunato: ho una famiglia che mi ama e mi supporta, ho una salute di ferro e veri amici che mi vogliono bene.
E’ una sorta di sindrome di Madame Bovary… però non si può chiamare noia questa forza che mi spinge a partire per sponde ignote... piuttosto credo sia inquietudine. Si, una continua ricerca di me stesso sotto diverse sfaccettature, perché nonostante la diversità che si può incontrare al di fuori di noi stessi, è proprio in questi casi che viene allo scoperto una parte di noi che finora avevamo ignorato.
Rendersi conto di riuscire a sopravvivere anche in situazioni difficili è necessità vitale. Scrollarmi di dosso l’Italia per me è come strapparmi la pelle per ascoltare da vicino il battito del mio cuore e sentirmi ancora vivo.
E poi c’è da dire che il destino è beffardo ma curioso, e merita di essere seguito ciecamente, perché sa stupire.
Ad esempio, mai avrei immaginato di trovarmi a giocare una partitella di basket ed essere l’unico bianco.
Eravamo 10.
Playground nel campus delle Nazioni Unite. 6 kenyoti, 2 somali, 1 guadaloupeno (si dice cosi?) e 1 italiano, perlomeno così è scritto sul mio passaporto.
Ci troviamo lì per caso, per loro è un luogo di aggregazione dove incontrarsi e chiacchierare, nei lunghi pomeriggi di non-lavoro, io invece ero di passaggio quasi forzato. Vi spiego.
Nonostante in Kenya vi siano annualmente due stagioni delle piogge con abbondanti precipitazioni e la vegetazione sia rigogliosa, le infrastrutture idrauliche sono carenti e nei rubinetti domestici l’acqua c’è a giorni alterni (a volte manca anche per settimane). Anche nella casa dove alloggio tuttora c’è questo problema che ho imparato a superare con una facile scappatoia: vado nella palestra ONU, lì hanno il loro pozzo, l’acqua non manca mai (e ti pare che le organizzazioni politiche si fanno mai mancare qualcosa…). Vado a farmi la doccia lì ed è così che mi sono trovato a passare davanti al campetto da basket e il mio vecchio sangue parquettaro si è rimesso in circolo… partitella e poi doccia? Of course!
Pronti, via.
5 contro 5 a tutto campo.
Botte da orbi… tento un tiro da fuori, ma il vento me la spazza via, tiro da sotto, ma il tabellone risponde male e non riesco a calibrare. Che cavolo… vabbé, allora impegnamoci in difesa, dopotutto, tecnicamente noi italiani dovremmo essere superiori. Si, però fisicamente questi qui ci mangiano in testa. I ragazzi sono incontenibili. Cerco di rifarmi, provo un passo incrociato e penetrazione fulminea, ma la terra rossa portata sul campo dal vento bastardo di prima mi fa scivolare e perdo palla.
Che disastro...
I miei compagni di squadra si cominciano a stizzire…. e piano piano mi emarginano. Rubo palla e mi lancio in contropiede, ma quando vado per appoggiare da sotto uno di questi balordi mi frana addosso nel tentativo di stopparmi. “Fallo” - dico io - ma nessuno mi presta ascolto, continuano a giocare, come se io non ci fossi.
Ecco come ci si sente ad essere emarginati, ad essere vittima del razzismo. Per me è durato solo un pomeriggio, ma sfiorare la sensazione di essere considerato invisibile, alieno, estraneo, cosi forte, pungente e frustrante non l’avevo provata mai.
Anyway… quello che non ci ammazza ci fortifica.
Dopotutto, è durato soltanto il tempo di una sudata; anche perchè dopo le prime due partitelle mi sono ripreso e ho fatto una discreta figura riguadagnandomi la “dignità” di Mzungu (uomo bianco, in lingua Swahili).
Finita la partita eravamo tutti amici.
Vi dico solo che ci siamo ritrovati in un vecchio e squallido salone di un centro ricreativo, diciamo una sorta di dopolavoro ferroviario, dove all’interno c’è una macelleria notturna (?) desolata, con un paio di bestie scuoiate e appese al gancio. E fra quell’odore pungente di sangue e polvere rossa che si insinua ovunque abbiamo passato tutta la serata a rimembrare le gesta dei nostri idoli sportivi preferiti.
Punto d’incontro, la NBA. È stato stupendo vedere come persone cosi lontane e apparentemente diverse da me abbiano in comune le stesse mie esperienze. Anche George, come me, si svegliava di notte per vedere Gara 6 di Chicago-Utah nel 1998, con tiro finale di Michael Jordan, e anche Cliff tradisce un po’ di nostalgia quando si nomina Larry Bird.
Ed è allora che ti senti parte dello stesso destino, dello stesso disegno. Siamo tutti pixel della stessa fotografia, ognuno con la sua storia, ognuno con la sua cultura, ognuno che con il suo colore rende la fotografia estremamente affascinante.
Ed è allora che inizio ad odiare l’indifferenza.
Devo sentirmi utile, partecipe, solo così riesco a percepire il pulsare del sangue nelle mie vene.
L’indifferenza è il peso morto della storia
Hell’s gate, Kenya 3 ottobre 2009
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CARLITO CORAZON GITANO
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PER TUTTI QUELLI CHE HANNO GLI OCCHI ED UN CUORE CHE NON BASTA AGLI OCCHI…
Carlo Tacconelli ci racconta la storia del suo viaggio nel deserto del Sahara.
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VENEZUELA: PANNELLI SOLARI E FRAGOLE ANDINE.
Carlo Tacconelli in Venezuela, nel 2008, per un laboratorio di autocostruzione con i contadini delle Ande.