Carlito Corazon Gitano
CUBA: YES, WEEKEND.

Carlo Tacconelli nell’isola di Cuba, nel 2012, con la sindrome del viaggiatore eterno.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Sabato, 23 Marzo 2013 - Ore 08:00
“Ma sì, me ne vado qualche giorno a Cuba!”.
 
E una mia amica mi chiedeva: “Ma non sei stanco di viaggiare, di galleggiare continuamente nella tua vita, quando pensi di mettere radici?”.
 
Per farne una bio-analogia, io le radici le ho piantate il 30 luglio 1985 e per 18 anni sono cresciute fino a saldarsi nel suolo rosetano. Nella fertile terra delle colline di Valle Vignale. Ma un albero non è fatto di sole radici, e i rami fioriscono verso l’alto, sempre più lontano dalle radici. Le radici garantiscono solidità affinché la pianta continui a poter crescere e tendere verso il sole.
A meno che io non sia una bella patata (e dalle foto si vede chiaramente che non lo sono), che cresce sottoterra.
 
Tante cose si dicono di Cuba, tanti racconti e diari di viaggio, pertanto vista la concorrenza di Hemingway & soci, mi limito a descrivere le mie aspettative e sensazioni prima di arrivare nel paese della Revolucion Permanente. Questa Cuba ormai un po’ gringa, che si sta disinCastrando.
 
“Sbrigati che a breve li cambierà tutto” mi dicevano. E siccome la bellezza a volte è fragile ed effimera, va colta nell’attimo stesso in cui viene immaginata.
 
Qui, nel mio appartamento di Tegucigalpa, ad ogni temporale va via la luce e non posso usare il PC, quindi non mi resta altro da fare se non mettermi a pensare. Non essendovi abituato, questo mi causa spesso dei gravi problemi di sovraccarico cerebrale ed emicrania persistente.
 
Non mi intendo di politica, la lascio umilmente agli attivisti, i militanti e tutti coloro che nutrono grande passione verso i popoli e la loro amministrazione. Mi limito a cercare di valutare ciò che sia più o meno giusto per la mia persona, nel rispetto per la libertà altrui (sapor di qualunquismo) e l’impatto delle mie azioni verso chi mi sta intorno. Però mi sento di dire basta allo slogan strumentalizzato: “Siamo tutti uguali!”, troppo manipolato e soggiogato ad antichi paradigmi. Siamo si, tutti uguali, ma solo perciò che concerne i diritti civili. Quello che in realtà è il nostro patrimonio più grande è proprio la diversità, la variegata eleganza che ognuno di noi può rappresentare, in un universo multi cromatico.
 
Finora non sono mai stato cosi vicino agli Stati Uniti. Di fronte a me, a 150 miglia da L’Avana, ci sarà Miami. Il paese tanto sognato e maniacalmente cercato da piccolo fan dell’NBA e ora, qui, paradossalmente seduto sul lato sbagliato dell’altalena, nel luogo storicamente più odiato dagli USA. Il paese delle contraddizioni, del socialismo strappato coi denti e adesso bucherellato dalle crisi internazionali. Cuba, isolata dai mercati mondiali a causa dell’embargo americano, fa ancora paura.
 
Ma davvero gli USA pensano ancora di potersi annettere quest’isola? Ma non era finito il neocolonialismo?
E vorrebbero assoggettarla al più sfrenato consumismo. Lavorare, alienarsi dalla società per più di 10 ore al giorno per poi cercare rifugio nella televisione?
 
L’uomo non è nato per vivere da solo, è un animale sociale e per questo vive in grandi branchi. Dovunque sia. Una cosa che trovo difficile da spiegare a qualcuno che ha sempre vissuto nello stesso luogo, è il sentimento di appartenenza ad ogni luogo che ti permette di sviluppare un’empatia per gli altri. Ma è anche una specie di ansia, che non ti fai mai sentire a casa, come se mancasse sempre qualcosa. E’ la "sindrome del viaggiatore eterno", perché una volta che punge non c’è più modo di curarla. Gli esperti lo chiamano "shock culturale inverso" (e ha un quadro di sintomi che vi risparmio). Nella sua forma più semplice, sarebbe qualcosa di questo genere: quando si va via da una città, la memoria di quella città rimane legata a quel momento e resta invariata per sempre. Trasferendosi in un nuovo posto, si sentirà sempre una certa mancanza di casa, tendendo ad idealizzarne il ricordo.
 
Bene, la consapevolezza di soffrire della sindrome si verifica proprio quando si ritorna, ed è per questo motivo che questa malattia è così crudele, quando ci rendiamo conto che il luogo idealizzato nella nostra memoria ha continuato ad evolversi senza di noi e non abbiamo più la familiarità che pensavamo. E così ci si entra in una spirale in cui nessun luogo è casa. Ci si ritrova a vivere in una città che è un collage di ricordi, esperienze e persone. Una miscela di stili architettonici, gastronomia, ecc. a ricordo delle caratteristiche di tutte le città che abbiamo amato. Ma in realtà questo luogo non esiste.
 
Di recente ho letto un articolo che ha spiegato benissimo questa dinamica. Una delle cose che ha detto l\'autore è che si ha la sensazione di voler sempre ritornare al “nido”, ma quando si torna si ha voglia di andarsene nuovamente. Ovviamente conoscere nuove culture ci cambia per sempre, e nonostante ci sia il rischio di non trovare mai una "casa" , cogliere l’opportunità di viaggiare nuovamente è più forte di tale rischio.
 
Quello che si perde in conoscenza della propria città, lo si guadagna in esperienza internazionale, si diventa più attenti a comprendere i principi fondamentali della cultura in cui ci si trova ed è più facile adattarvisi.
 
Che sia Cuba, USA, Honduras o Italia fondamentalmente dovrei smettere di chiedermi se mai mi sentirò a casa un giorno (o meglio, da qualche parte) e cercare di scoprire di cosa ho bisogno per sentirmi a casa ora, dove sono adesso.
 
Ma alla fine si sa che sono poche le cose e le persone che possono farci sentire a casa, ovunque andiamo. E se avrò la fortuna di avere al mio fianco la persona che dico io, allora “casa” sarà ovunque.
 
Nel frattempo è finito il temporale, toh,  è tornata la luce… vi saluto.
 
 
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