Uomini di Basket
GIAMPIERO PORZIO: COACH VALERIO BIANCHINI, IL SUO SCHEMA ‘QUATTRO’ E LA MIA VARIANTE ‘QUATTRO C’...

A Roseto degli Abruzzi, parlando di basket, tutto può accadere. Non ci credete? Leggete un po’...

Roseto degli Abruzzi (TE)
Lunedì, 08 Aprile 2013 - Ore 02:30
INTRODUZIONE
Sabato 6 aprile 2013, ore 11 del mattino, battigia del mare rosetano.
Mi godo il sole con Valerio Bianchini, che la sera prima ha deliziato con le sue riflessioni gli appassionati di basket accorsi al Nome della Rosa di Giulianova.
Squilla il mio cellulare, è Giampiero Porzio. Mi invita a pranzo, perché ha deciso di portare al mare sua moglie Silvia e suo figlio Carlo e sta partendo da L’Aquila. Restare nella città in cui vive, nel quarto anniversario del terremoto, lo fa star male e preferisce tornare nella sua alma mater Roseto.
Lo ringrazio, ma declino l’invito a pranzo, spiegandogli che sono con Valerio Bianchini e che il coach ha promesso a Mamma Liliana di fare pranzo in Via Seneca.
Giampiero, appurata la mia augusta compagnia, tuona: «Va bene, ma passa da Spizzico dopo pranzo e fammi stringere la mano a coach Bianchini, così gli disegno il suo schema “quattro” che faceva ai tempi della Stella Azzurra e la mia variante “quattro C”!».
Saluto Giampiero e riferisco a Valerio che un oncologo, che – a 20 anni – per due stagioni è stato coach del Roseto Basket in Serie B, lo vuole salutare e gli deve mostrare un suo schema, che si ricorda dagli Anni ‘70. Valerio annuisce e sorride, secondo me ritenendo improbabile che un oncologo, dopo una quarantina d’anni, si ricordi davvero un suo schema.
Dopo pranzo, prima di accompagnare Valerio alla stazione, dove salirà sul bus che lo riporterà a Roma, passiamo da Spizzico. Giampiero si fa trovare già in piedi, sventolando un involucro porta posate in carta, sul quale ha disegnato gli schemi.
Valerio non fa in tempo a dire: «Piacere di conoscerti», che Giampiero è già in contropiede a sparare il suo: «Ci siamo già conosciuti». Nel senso che Porzio aveva visto Bianchini allenare la Stella Azzurra in trasferta a Roseto, alla Palestra D’Annunzio, una quarantina di anni addietro. Appunto.
Valerio è presto travolto da una spiegazione serrata dello schema “quattro” – e della variante “quattro C” – che lo rapisce. Il coach che ha vinto tutto mi guarda, sorride e annuisce: lo schema è davvero il suo e la variante è plausibile.
Non ci resta che lasciare la macchina da Spizzico e accompagnare Valerio a piedi in Piazza della Libertà, camminando lungo Viale Roma, con palme e pini a benedire questa nuova amicizia, voluta dagli dei del basket.
Quando arriviamo alla stazione, Valerio e Giampiero si vogliono già bene e parlano del loro comune amico (un altro coach) Ettore Messina.
Io, che mi sono messo in tasca l’involucro porta posate in carta sul quale Giampiero  ha disegnato gli schemi, lo estraggo e ci scrivo sopra data e protagonisti, chiedendo la firma di convalida a coach Bianchini e il racconto esplicativo a coach Porzio.
La firma di Valerio arriva subito, il racconto di Giampiero – bellissimo, come tutti i suoi scritti – dopo poche ore.
Eccolo.
Luca Maggitti
 
 
SCHEMA “QUATTRO”
 
Quando, per grazia e volontà di Giovanni Giunco, cominciai la mia improbabile carriera di allenatore ero alla ricerca di un’identità.
Avevo vent’anni, poche certezze e molti sogni.
 
Erano gli Anni Settanta ed il ’68 aveva creato una generazione di finti rivoluzionari, superficiali e spensierati.
Bastava conoscere tre accordi ed eri un chitarrista, a seconda delle scarpe che indossavi eri un “compagno” oppure un “fascio”, una borsa di Tolfa trasformava una ragazza di famiglia in una femminista.
Si bivaccava tra “cineforum e dibattiti”, “vedendo gente, facendo cose”, in attesa di un’imminente rivoluzione, di cui nessuno comunicò mai la data d’inizio.
Le ideologie annebbiavano le intelligenze e alcuni imbecilli cominciarono pure a sparare.
 
In quegli anni – certo non formidabili – a me, in fondo, interessavano solo due cose: il basket e le ragazze.
Fingevo di studiare biochimica ed istologia; in realtà, leggevo tutto ciò che avesse anche lontanamente a che fare con il basket. Mio Padre – che Dio l’abbia in gloria – fingeva di non accorgersene.
 
All’epoca gli allenatori erano tutti ex-giocatori. Nessuno considerava che il basket potesse avere un sapere specifico e, pertanto, l’esperienza di un ex-giocatore era considerata più che sufficiente per allenare una squadra.
 
Le partite, soprattutto in Serie B, erano una litania di tiri da fuori per battere zoppicanti zonette 2-3. Quando una squadra stava perdendo, si passava a uomo. Qualche contropiede rianimava chi, come me, sognava gli States ed il “run and shot”, che avevo letto sui “Giganti” e sognato nelle notti a spicchi.
 
In questo universo indefinito, fra la rivoluzione “de noantri” e una pallacanestro che non sapeva diventare basket, Valerio Bianchini era il mio guru.
 
Giocava un basket diverso dal “raddoppio” e dal “dai e vai”. Soprattutto, sparigliava il “già visto”: non era stato un giocatore, era giovane e dei giovani aveva la spavalderia e l’incoscienza. Era il modello giusto per sognare un futuro da coach.
Sapevo quasi tutto di lui e delle sue squadre, che cercavo di andare a vedere più che potevo. A volte, chiamavo Barbara - mia amica di Roma e, in seguito, moglie di Enrico Gilardi - per sapere com’era andata l’ultima partita, non accontentandomi delle cronache del “Corriere dello Sport.”
 
Mi innamorai subito dello schema “quattro”.
Schema di ingegno tipicamente mediterraneo, a metà strada fra la furbizia di Ulisse ed il pragmatismo di Machiavelli.
Ma, attenzione, il “quattro” aveva in sé un pizzico di etica calvinista: la squadra lavorava per mettere un giocatore nella migliore delle situazioni; se sbagliava, la colpa era solo sua, non poteva appellarsi al governo ladro o al destino cinico e baro.
Grande lezione in quest’Italia di geni incompresi dalla Storia, in cui “il problema è un altro” e la colpa è sempre di quelli che c’erano prima.
Il “quattro”, inoltre, può essere considerato la perfetta applicazione della teoria matematica dei “passaggi minimi”, ovvero come arrivare alla soluzione di un problema con il minor numero di operazioni. Praticamente, il contrario della burocrazia italiota.
 
Tornando al 26x14: il “quattro” faceva credere ai difensori di voler cercare un tiro dall’angolo con un classico doppio blocco e invece mandava un giocatore dall’altra parte ad attaccare uno-contro-uno, con metà campo completamente a disposizione.
Fu Massimo Moizo – a Roseto per un corso allenatori – a spiegarmelo nei dettagli, nel caldo infernale della “D’Annunzio”.
Lo schema era perfetto per il modo di intendere il basket a Roseto: due passaggi e via a canestro.
 
Insuperato interprete di questo schema fu Tonino Olivieri. “Il Toro” – a Rieti lo chiamavano così – era giocatore di rara velocità, capace di battere in partenza qualunque avversario. Con il “quattro” andava a canestro regolarmente, soprattutto quando il difensore era appena più lento o gravato di falli.
Rispetto all’originale di Valerio, introdussi una variante, che, con eleganza tutta rosetana, chiamavamo “quattro cazzo”.
La variante si rivelò particolarmente efficace, quando operata da Micky Morello e Gianni Rosa, lunghi capaci di giocare molto bene anche faccia a canestro.
 
Il “quattro” fu il “mio” schema, nei due fantastici anni passati sulla panchina del Roseto.
Anni vissuti in overdose di sensazioni, mai compresi fino in fondo, eppure mai dimenticati.
 
POST SCRIPTUM
Qualche anno fa, vivendo ormai in una città di rugby, andai a vedere gli All Blacks contro l’Italia.
A metà del primo tempo, i neozelandesi rinunciarono ad un calcio per giocare una punizione alla mano. Una quindicina di metri dalla linea di meta italiana, lato destro del campo: Carlos Spencer toccò la palla e aprì per gli avanti, fingendo un’azione di forza con la mischia. Una moltitudine di maglie azzurre abboccò all’esca; rapido cambio di fronte e palla a Tana Umaga, libero di uccellare uno-contro-uno lo sventurato difensore italiano, rimasto solo a proteggere la linea di meta.
«Ma quello è lo schema “quattro” di Bianchini!» urlai.
Mauro Zaffiri rassicurò i perplessi spettatori ovali, che, ovviamente, non avevano capito: «Tranquilli, è la birra!».
 






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