Musica
MICHELE TORPEDINE: TOUR MONDIALE E FICTION SUL VOLO NEL 2015!

Lunga chiacchierata con il ‘Papŕ’ del Volo, passando per Gino Paoli, Zucchero, Andrea Bocelli, Pino Daniele, Miles Davis e altri ancora. Ricordi imperdibili di un manager dalla carriera entusiasmante.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Martedě, 19 Agosto 2014 - Ore 16:45
Roseto degli Abruzzi, sabato 16 agosto 2014, primo pomeriggio. Il sole è strattonato da nuvole smorfiose, che non la faranno poi tanto lunga, e io pedalo spedito verso “Lo Spuntino”, ristorante quasi sul mare, per andare a intervistare Michele Torpedine, produttore e manager de “Il Volo”, che è a Roseto degli Abruzzi ed ha appena finito di pranzare insieme alla famiglia di Gianluca Ginoble.
 
Torpedine, a dispetto del suo esplosivo cognome, mi attende placido. Fluente chioma candida ed uguale profetica barba, sembra Musafa, il Re Leone. Gianluca Ginoble, con t-shirt dei Los Angeles Lakers, gli siede a fianco pungolandolo con occhi vivissimi: Simba morde il freno, perché stavolta non è lui al centro dell’attenzione.
 
Ma la ribalta concessa oggi all’uomo che di solito sta dietro le quinte è più che meritata, visto che Michele Torpedine, insieme a Tony Renis, ha costruito il fenomeno mondiale de “Il Volo”, trio composto dal rosetano (natio dell’antico borgo di Montepagano) Gianluca Ginoble e dai siciliani Ignazio Boschetto e Piero Barone. Di più: il 62enne con la faccia californiana e l’accento bolognese è quello che ha riscoperto Gino Paoli e poi lanciato Zucchero, Andrea Bocelli, Giorgia, oltre a produrre artisti del calibro di Pino Daniele e altri ancora. Insomma: un “Numero Uno” vero.
 
Questa è l’intervista con Michele Torpedine, che ha preteso gli dessi del tu prima di iniziare, nonostante ci fossimo conosciuti 5 minuti prima.
 
Partiamo dal Michele Torpedine batterista. Ti piaceva di più Gene Krupa o John “Bonzo” Bonham? Oppure avevi un altro, ulteriore, modello di riferimento fra tom tom e charleston?
«I miei modelli sono stati Buddy Rich, che considero il più grande batterista mai esistito, e subito dopo Jeff Porcaro dei Toto».
 
Dal Salento a Bologna, iniziando a suonare. Com’è successo?
«Dal Salento a Bologna lo ha deciso mio padre, quando io ero appena nato. Ed è stata la mia fortuna, perché Bologna è una città importante per la musica. All’inizio c’era molta miseria e io ho dovuto bloccare gli studi, visto che per riuscire a suonare dovevo lavorare. Poi ho avuto la fortuna di incontrare Lucio Dalla, quando non era ancora “Lucio Dalla” e iniziare a 16 anni a suonare la batteria con lui».
 
Il batterista è uno “che sta dietro”, quasi un anticipatore del dietro le quinte e, al tempo stesso, un suo difensore. È, poi, uno “che sostiene”, comandando la base ritmica. È stata l’evoluzione di questi due elementi a portarti naturalmente a passare da musicista a “talent scout”, produttore e manager, aiutando tanti artisti ad affermarsi?
«Il mio amico Andrea Mingardi, che era anche lui un batterista, afferma che in molti casi i “business men” che hanno successo nel mondo artistico sono ex batteristi. Lui sostiene che la rabbia accumulata stando sempre “dietro” al gruppo faccia sì che, appena puoi, tu prenda in mano la situazione».
 
Qual è stato il momento in cui hai cambiato la tua vita, passando da batterista a produttore discografico e manager?
«Una sera di circa 30 anni fa, è cambiato tutto grazie a Gino Paoli, di cui ero il batterista. In una osteria, a Bologna, gli dissi: “Gino, Ornella (Vanoni, n.d.r.) fa i soldi cantando le tue canzoni, possibile che a te non venga in mente di fare qualcosa insieme a lei? Lui mi rispose: “No, Michele. Mi sembra un fotoromanzo, una cosa da Novella 2000, un po’ melensa. Lasciamo stare”. Io invece andai a parlare con Ornella e, dopo qualche mese, facemmo Vanoni-Paoli: tour del 1985 “straesaurito” in tutta Italia. Ci cambiò la vita a tutti».
 
Essere il produttore di un artista – o il suo talent scout o ancora il suo manager – è più essergli un padre, un fratello maggiore, un insegnante, un padrone o cos’altro? Ad esempio, per Gianluca Ginoble, che è qui seduto al tuo fianco, e per Il Volo, cosa sei?
«Per Gianluca Ginoble sono il nonno, che però sembra più giovane del padre (ride, scambiando uno sguardo d’intesa con Ercole Ginoble, n.d.r.). Invece Gianluca, Piero e Ignazio per me sono stati una meravigliosa boccata d’ossigeno, che mi ha rigenerato. Io vengo fuori da un momento non facile quanto a rapporti personali nel mio lavoro, vedi Zucchero, vedi Eros, vedi Pino Daniele... senza fare nomi che non è carino (sorride, n.d.r.). Umanamente, il nostro non è un ambiente meraviglioso. Invece “Il Volo” è un’esperienza per me rigenerante».
 
Hai suonato con Lucio Dalla, Orietta Berti, Iva Zanicchi, Gino Paoli e altri. L’artista con cui ti divertiva di più esibirsi come batterista?
«Zucchero, sicuramente».
 
Zucchero. Quindi eri nella band che si chiamava “Adelmo e i suoi Sorapis”?
«Sì. Quella band è nata a Cortina, perché andavamo tutti in vacanza lì. Eravamo io, Maurizio Vandelli dell’Equipe 84, Dody Battaglia dei Pooh, Zucchero, il produttore Fio Zanotti e Umbi Maggi, il creatore dei Nomadi. Ritrovandoci tutti lì ed essendo vecchi orchestrali, abbiamo deciso di mettere su un gruppo per passare l’ultimo dell’anno insieme in allegria. Invece è nata una band che è durata anni».
 
Hai sostenuto, in altre interviste, di avere un debito umano e morale di riconoscenza verso Gino Paoli, ma prima mi hai detto che sei stato tu a ideare la fortunata tournée con la Vanoni. Dunque, perché senti questo debito?
«Devo tutto a Gino Paoli, perché è lui che per primo mi ha dato fiducia. Io ero il suo batterista, e non avevo una lira. Il rischio di tutta la tournée Vanoni-Paoli del 1985 era, all’epoca, di un miliardo e 80 milioni. Io non avevo né il miliardo né gli 80 milioni. Non avevo nulla, perciò se andava male mi sarebbero venuti a prendere. Avevo solo i soldi per un biglietto per il Brasile, se le cose fossero andate storte. Invece Gino Paoli mi prestò addirittura i soldi per il tour; soldi che non ha mai rivoluto indietro. Meglio di così!».
 
Era il 1992 e tu avevi 40 anni quando, sul “Corriere della Sera”, Matteo Persivale ti definì così: «È diventato il manager di Zucchero quando il cantante emiliano, semisconosciuto, rischiava che gli ipotecassero la casa. Ha portato al successo Luca Carboni, ex commesso di un negozio di scarpe. Ha rilanciato un Gino Paoli finito nel dimenticatoio. Ha prodotto i dischi che hanno reso famoso Pino Daniele. Michele Torpedine è considerato il “re Mida” della canzone italiana. Ma è quasi sconosciuto. Per lui, maniaco della privacy, la presenza di Zucchero al megaconcerto di Wembley che domani ricorderà Freddy Mercury, leader dei Queen, è un premio sufficiente». 22 anni dopo, lavori  ancora 18 ore al giorno, come scrisse Persivale nel resto dell’articolo?
«Direi che lavoro molto, anche se 18 ore al giorno è forse una cifra un po’ gonfiata. Oggi poi non sono credibile, perché mi becchi a Roseto in un periodo di assoluto relax. Sono in questo bel posto, abitato da bella gente e mi sto riposando. Forse non ho mai passato un periodo così rilassato».
 
Questo è uno spot per Roseto degli Abruzzi...
«Dici? Allora approfitto per aggiungere che l’altra sera mi è capitato di passare per una terrazza meravigliosa a Montepagano (il Belvedere, n.d.r.), che trovo sia un po’ trascurata. Lasciami dire che un luogo del genere, in Romagna, sarebbe vissuto e sfruttato in maniera diversa, perché è un posto che quando ci arrivi dal borgo e passi quell’arco, ti regala un panorama meraviglioso».
 
Torniamo a te. Ma come facesti, nel 1990, a far arrivare Zucchero addirittura al Cremlino, primo artista in assoluto ad esibirsi in quel luogo che è un simbolo della politica e del potere, ma non certo della musica?
«Ricordo che Gorbaciov stava parlando in una sala del Cremlino e noi eravamo in diretta con Rai Due. Eravamo con l’Ater-Scambi, quelli che organizzarono il concerto di Luciano Pavarotti al teatro Bolshoi, e ci ritrovammo lì dentro. Ancora oggi non so come abbia fatto Zucchero ad entrare lì ed essere il primo artista a cantare al Cremlino».
 
Dal fenomeno Zucchero in Unione Sovietica al fenomeno Il Volo in America. Come si fa a lanciare un gruppo, composto da tre giovani, senza neanche sfiorare la dimensione provinciale, ma iniziando subito con le grandi platee e il mercato americano?
«Dici bene, il successo del Volo è partito dall’America, grazie alla stima che quel pubblico ha per il bel canto italiano. Direi che bisogna avere talento e preparazione, altrimenti non duri. In quanti sono usciti come Il Volo dalle trasmissioni televisive negli ultimi anni? Centinaia di nomi, che però non durano. Gianluca, Piero e Ignazio durano e anzi crescono, perché sono bravi. Credo che basti questo a spiegare la loro forza».
 
Quali sono le 3 cose che bisogna assolutamente avere per fare il suo lavoro?
«Primo, un gran “culo” (fortuna, nd.r.). Che aiuta sempre, ma non basta. L’altra sera ero a cena con Ercole Ginoble e uno continuava a ripetermi che avevo un culo pazzesco perché avevo riscoperto, scoperto o gestito artisti come Paoli, Zucchero, Bocelli, Giorgia. Sai, quando ne azzecchi uno solo in tutta la carriera puoi dire che è “culo”, ma se poi infili una serie di successi, direi che è anche intuito e competenza. Quindi direi fortuna, intuito e competenza, visto che sono stato musicista per tanti anni e ho ascoltato tantissima musica, sempre internazionale, per fare al meglio il mio lavoro».
 
Esistono degli ingredienti, delle componenti fisse, per fare musica che incontri il successo popolare? Oppure dipende da troppi fattori e quindi una ricetta di base non c’è?
«Non c’è una ricetta. Anzi, a volte i successi maggiori possono accadere in modo assolutamente inaspettato e imprevedibile».
 
Un esempio?
«“Con te partirò”. Era il 1995 e portai sia Andrea Bocelli sia Giorgia al Festival di Sanremo. Giorgia vinse con “Come saprei”, mentre Andrea arrivò quarto cantando “Con te partirò”. Sai come esplose quella canzone? Grazie a un incontro di boxe in Germania! Era il 1995 e combatteva Henry Maske, amatissimo campione di pugilato tedesco. Il match fu terribile, gli spettatori delle prime file avevano addosso schizzi di sangue e il beniamino ne prese tantissime anche lui, pur riuscendo a vincere (lo sfidante era Graciano Rocchigiani, n.d.r.). Quando Andrea Bocelli e Sara Brightman salirono sul ring per cantare, c’era una tensione talmente alta che la canzone fu una specie di colonna sonora di quel momento sportivo, così potente a livello emozionale. Ti dico solo che i tedeschi furono così colpiti che l’allora Polygram lavorò anche di notte per stampare il disco. Solo in Germania vendemmo oltre 4 milioni di copie, stracciando il precedente record di Vangelis che era di 1,3 milioni di copie. Ti rendi conto?».
 
Dovresti scrivere un libro dei tuoi ricordi, se non lo hai già fatto. Questa è pura letteratura...
«Dici che son così bravo?».
 
Che mondo è il mondo della musica, commercialmente parlando, da quando tutto viaggia sul web e sui telefonini e non esistono più i 45 e gli LP? I soldi si fanno soprattutto con le tournée?
«Internet ha rivoluzionato il mercato discografico. Oggi l’unica vera fonte di guadagno è quella del live, a patto di essere credibili, avere un repertorio e reggere un tipo di spettacolo.».
 
Com’è nato “Il Volo”?
«Durante telefonate notturne tra me e Tony Renis. Guardavo la televisione ed ero casualmente sulla Rai, quando vidi questi ragazzini che ricordavano i tre tenori, così telefonai a Tony e gli dissi del terzetto. Ignazio aveva una figura molto simile a Luciano Pavarotti, Gianluca poteva ricordare Carreras per eleganza e raffinatezza, Piero aveva già una voce possente. Pensai che erano potenzialmente pazzeschi e che gli americani avrebbero potuto apprezzare. Io avevo appena finito il mio rapporto con Andrea Bocelli e con me Tony, che però aveva collaborato a un solo disco, quindi avevo la volontà di fare ancora qualcosa. Ecco, li vidi e pensai: “Sono forti” e, ti confesso, pensai anche che potevano essere un progetto da “una botta e via” e cioè tre fenomeni che fanno un disco e poi “ciao”. Poi invece, conoscendoli e stando insieme, apprezzando per intero il loro potenziale, abbiamo capito che erano tre fenomeni veri, destinati a durare».
 
Charlie Chaplin ha detto: “Il requisito fondamentale per un grande attore è che si piaccia quando recita”. Gianluca Ginoble, quando canta, si piace?
«Gianluca si piace tutto, non solo quando canta, ma ha le possibilità per farlo. La bravura, l’eleganza, come sta sul palco, la bellezza. E, comunque, al di là di tutto quel che appare, poi viene fuori la cosa più importante che ha: la voce. E questo fa la differenza. Io trovo bello e anzi doveroso che lui si piaccia, perché un artista ha dei doveri verso il pubblico».
 
Come si fa ad entrare nelle grazie di mostri sacri come Quincy Jones o Miles Davis? È solo questione di soldi o c’è dell’altro?
«Non è solo un fatto di soldi, anche se servono, ma ci vuole bravura e un pizzico della solita fortuna. Ti racconto questa, che riguarda Zucchero: perché quando si merita i complimenti bisogna farglieli. Andai alla “Bussola” di Forte dei Marmi  per portare il disco di Pino Daniele a Miles Davis, per una collaborazione. Miles, che era in macchina con me, seduto al posto del passeggero, tirò fuori il CD di Pino dal lettore e lo gettò letteralmente fuori dal finestrino. A questo punto, andiamo a cena a “La griglia del mare” che, caso volle, aveva la filodiffusione e dopo un po’, quando eravamo seduti, propose “Dune mosse” di Zucchero. Miles, che stava mangiando di fronte a me, si fermò e disse: “Great voice, beautiful sound”. Insomma, no Pino Daniele, ma nacque il duetto fra Zucchero e Miles Davis. Ogni tanto ci ripenso e dico: ma se non ci fosse stata la filodiffusione? E se non avessero dato in quel momento “Dune mosse”? Certo, sia chiaro: poi ci sono voluti anche 100.000 dollari per una suonata di tromba (sorride, n.d.r.)».
 
Il prossimo obiettivo del Volo?
«Ci attendono molte cose. Intanto, nuova casa discografica. Il prossimo album sarà Sony e uscirà in 53 paesi del mondo. Poi nel 2015 ci aspetta un tour mondiale e una fiction, dedicata ai tre ragazzi, che si stanno litigando Rai e Mediaset. Insomma, ci aspettano un sacco di cose buone, perciò speriamo che l’80% di tutto questo vada a buon fine».
 
Michele, chi ha cambiato la musica a livello mondiale, nell’ultimo secolo, secondo te?
«Troppo complicato. Ti dico tre nomi a mio avviso fondamentali e determinanti per il progresso della musica. Il primo è Elvis Presley, poi ci sono i Beatles e, in Italia, Lucio Battisti. Io amo molto la musica e poco i testi, essendo musicista. Certo, non posso non ammirare Fabrizio De André, ma poi non mi piacciono i cantautori come Francesco Guccini. Vuoi scrivere? Non cantare, scrivi un libro».
 
Tu sei un manager simbolo di una parte d’Italia che funziona e fa utili. Se fossi un presidente del consiglio, saresti la trasposizione maschile e tricolore di Angela Merkel. Quali sono, dal suo punto di vista, i problemi dell’Italia, che rischiano di farla affondare definitivamente?
«Puoi cambiare Letta con Renzi, puoi persino mettere il mio amico Ercole Ginoble come Presidente del Consiglio, ma secondo me non risolvi nulla. Perché la cosa che non va, in Italia, sono gli italiani».
 






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