Cinema
CHRISTIAN IANSANTE: CONFESSIONI DI UNA VOCE PERICOLOSA.

Intervista senza filtri al doppiatore, speaker e attore, che si definisce operaio della parola e racconta i suoi inizi in Abruzzo, il suo lavoro, le sue convinzioni, i suoi affetti e i suoi progetti. In calce, un video.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Domenica, 01 Febbraio 2015 - Ore 14:00
Christian Iansante l’ho visto in TV, qualche anno fa, su un canale regionale abruzzese parlare della sua scuola di doppiaggio, aperta insieme a Roberto Pedicini. Parliamo di un attore, speaker e, soprattutto, doppiatore che ha dato la voce a gente come Bradley Cooper, Christian Bale, Joseph Fiennes, Ben Affleck, Ewan McGregor, Woody Harrelson, oltre ad essere la voce ufficiale del canale Fox e di Radio 24 e ad aver doppiato i protagonisti di notissime serie TV. Insomma, uno importante nel suo campo.
 
Poi, a Capodanno, sono andato a vedere “American Sniper”, godendomi il suo doppiaggio di Bradley Cooper che a mio avviso arricchisce il film in italiano. Decido quindi di proporre un profilo/intervista al Messaggero Abruzzo, giornale con il quale collaboro, conscio degli spazi che un quotidiano generalista può (o non può) dare. Contatto quindi, mediante Facebook, Christian Iansante, il quale mi risponde con il suo numero di telefono. Lo chiamo e mi dà la sua disponibilità a fare due chiacchiere. Telefono quindi al mio giornale, ottenendo il placet del mio Direttore, Andrea Taffi. Richiamo Christian, che dal primo saluto ha preteso il “tu”, e fissiamo l’intervista telefonica per sabato 10 gennaio 2015.
 
Il 10 gennaio ci sentiamo, ma quella che avrebbe dovuto essere una intervista di 10 minuti per 40 righe di pezzo si trasforma in una chiacchierata di oltre un’ora. In cui “Bradley Cooper” mi spara la sua vita con una tale precisione di date e ricordi e con una tale passione che deciso di segnarmi tutto, perché oltre al pezzo sul quotidiano una simile occasione non deve essere gettata al vento: merita un articolo approfondito.
 
Il pezzo sul Messaggero Abruzzo è uscito lo scorso 11 gennaio (questo il link per leggerlo su ROSETO.com: https://www.roseto.com/scheda_news.php?id=13232).
 
Questa è invece l’intervista. Grazie ancora a Christian della disponibilità.
 
Christian, per Wikipedia sei nato nel 1966, ma sul tuo profilo Facebook c’è scritto 1965. Immagino che l’enciclopedia del web debba essere aggiornata...
«Classe 1965, compirò 50 anni il prossimo 19 febbraio».
 
Le radici abruzzesi, invece, sono giuste?
«Nato in Svizzera, 4 anni in Friuli nel paese di mia madre, poi a 5 anni il trasferimento a Chieti Scalo, dove sono stato fino a 24 anni. Adesso, da 25 anni sono a Roma».
 
Hai già festeggiato un quarto di secolo di carriera?
«Ho compiuto 25 anni di carriera il 5 dicembre 2014, perché il 5 dicembre 1989 ebbi il mio primo turno di doppiaggio. La carriera inizia quando inizi a lavorare, non quando ottieni notorietà o successo».
 
Come mai decidesti di andartene dall’Abruzzo?
«Per la rottura di coglioni che ormai produceva Pescara. Io sono un inquieto, quindi dopo 4 anni bellissimi in televisione a TVQ e oltre 10 anni belli in varie radio, decisi di andarmene».
 
Oltre 10 anni di radio? Un precoce...
«Ho iniziato a 12 anni e mezzo, in radio. Conducevo programmi di musica a Radio Gamma di Chieti Scalo. Poi altre radio sempre nel chietino, prima di approdare nel 1983 a Radio Flash Abruzzo, gestita all’epoca da Gianfranco Valli ed Elia Iezzi. Le conoscenze di Elia e William Zola, voce di Radio Luna e all’epoca anima dello Spoltore Ensemble, mi hanno portato quasi naturalmente al doppiaggio, coniugando due cose per me fondamentali: l’idea di poter recitare e quella di farlo davanti a un microfono».
 
Fa impressione la precisione con la quale ti ricordi tutto...
«Pensa che un giorno mi ha scritto uno che si chiama Mirko Maloschi, dicendomi che mi faceva da fonico quando io lavoravo a Radio 100. Me lo avrà fatto 3 volte, ma io me lo ricordavo benissimo e lui si è sorpreso di questo».
 
In Abruzzo, per quanto microcosmo, avevi raggiunto comunque una posizione di rilievo. Non ti bastava?
«Avevo già fatto tutto il fattibile in Abruzzo ed ero ancora molto giovane. Piuttosto che reuccio di provincia, ho preferito ricominciare da zero, nel 1989 a Roma. Città che non mi aspettava, lavorando in un ambiente che non aveva bisogno di me e che all’inizio non mi voleva. I primi anni sono stati davvero tosti ed è servita tutta la mia tenacia per resistere».
 
Poi la svolta, nel 1996, con “Trainspotting”...
«Metaforicamente, passai dall’essere un buon calciatore di Serie B direttamente in Nazionale, ma siccome conosco tanti doppiatori bravi come e più di me, dico che nella vita ci vuole anche fortuna. La mia fu incontrare Francesco Vairano, forse il più grande direttore del doppiaggio degli ultimi 20 anni, che mi aveva sentito in piccoli ruoli e mi fece doppiare Ewan McGregor».
 
Un lavoro che, sempre metaforicamente, è stato il tuo decollo professionale?
«Diciamo che ho iniziato con direttori del doppiaggio che mi consideravano zero per i ruoli importanti, quindi poi è andata molto meglio e non solo al cinema, ma anche con la televisione».
 
Che rapporto hai con i tuoi lavori: li ami tutti?
«No, è solo lavoro, senza implicazioni esterne. E cioè: va fatto al meglio, a prescindere se ti piaccia o no quel che stai doppiando».
 
Un esempio?
«La serie TV “The Walking Dead” (è la voce del protagonista Rick Grimes, interpretato da Andrew Lincoln, n.d.r.). Io non la guarderei».
 
E arriviamo ad “American Sniper”, per parlare del tuo essere ormai la voce italiana di Bradley Cooper...
«Credo di essere la sua voce ormai da 13 film. Ho doppiato alcuni fra i più grandi attori della mia generazione, ma ormai mi si identifica con Cooper».
 
Lui, a tuo avviso, è fra i più grandi attori? Ti piace?
«Non è questo mostro di recitazione. Perché se lui è un mostro, allora Jack Nicholson come dobbiamo chiamarlo? Comunque, essendone io la voce italiana, quando i suoi film vanno bene ne subiscono le conseguenze positive e magari un giornalista mi chiama per intervistarmi. È importante dare la voce a un attore che faccia cose che vedono in molti, per la propria carriera di doppiatore».
 
Già, un sorta di marchio...
«Prendi Ferruccio Amendola, che divenne famosissimo quando diede la voce a Sylvester Stallone nei film “Rocky”. E anche in quel caso, come per me con “Trainspotting”, fu una felice casualità. Ma, attenzione, Ferruccio diede la voce a Stallone da “Rocky 2” in poi e sai perché?».
 
Ammetto la mia ignoranza...
«Il primo Rocky aveva la voce di Gigi Proietti. Quando uscì il secondo film, Proietti era però in tournée e non poteva doppiarlo, così fu Amendola a prendere il suo posto, andando poi avanti. Ferruccio poteva decidere all’epoca, perché non era solo un doppiatore, ma anche il presidente di una delle poche società di doppiaggio. In quel caso lui fece “padrone e sotto”, oggi molte altre componenti incidono nella scelta di un doppiatore».
 
Quali?
«Se Steven Spielberg gira un film con Bradley Cooper protagonista e vuole sentire la voce italiana e io non gli sto bene, io non sarò la voce di Cooper. Una volta non c’erano i provini con i supervisor americani o i registi, c’era meno complessità, questo voglio dirti. Oggi c’è un mercato molto più aperto e complesso ed è più difficile lavorare. Per questo il fattore “culo” conta, come ti dicevo prima».
 
Ammetterai che l’immagine della fortuna stride un po’ con il concetto di preparazione e meritocrazia...
«Striderà, ma è bene che si sappia: nella vita non basta essere bravi, quello diciamo che dovrebbe essere scontato. Poi ci vuole anche culo. Io ti posso fare un elenco di doppiatori bravi come e più di me, o che io reputo straordinari, che non hanno avuto la mia fortuna».
 
Cos’altro conta, oltre alla preparazione e alla fortuna, nel tuo lavoro?
«Le relazioni sociali. Non parlo di relazioni sociali nei salotti, quella è fuffa. Parlo di relazioni sociali nelle sale in cui si lavora. Conta cioè molto la disponibilità e un carattere che sia improntato alla soluzione dei problemi, piuttosto che alla loro creazione».
 
Anche in questo caso: un esempio?
«Lavorare senza essere un rompipalle seriale. Se hai sempre qualche problema su orari, giorni, soldi, pian piano sarai tagliato fuori. Io cerco sempre la mediazione e questo, credimi, è importante».
 
Negli anni la concorrenza è cresciuta?
«Sì, perché la gente non ha più voglia di zappare la terra».
 
Sei durissimo...
«Perché, cosa ho detto di male? Dico che nessuno vuole più zappare, perché è faticoso. Tutti vogliono fare cose fighissime, in molti casi senza porsi il problema della reale competenza. Così cresce la concorrenza e scendono qualità  e compenso economico».
 
Beh, ma ci si campa ancora dignitosamente a fare il tuo lavoro, no?
«Un doppiatore, negli Anni ’70, si comprava una casa l’anno. Io oggi non mi compro un beneamato, ma vivo bene, consapevole che i tempi sono cambiati».
 
Hai dei miti, nel doppiaggio?
«All’inizio mi piacevano Pino Locchi e Giuseppe Rinaldi, poi Mario Cordova. Ecco, se proprio devo citarne uno al quale mi sono ispirato agli inizi, direi Cordova. È stato un punto di partenza, ma di miti direi che non ne esistono. Siamo tutti esseri umani, persone... non c’è nessun mito».
 
Prima hai parlato di Stallone/Rocky-Amendola. È quella l’accoppiata attore-voce di sempre in Italia, a tuo avviso?
«No, direi che è quella composta da Sean Connery/007 e Pino Locchi, anche perché Pino era piccino rispetto a Connery, fisicamente non c’entrava nulla, e quindi quello sposalizio fra corpo e voce era ancor più originale».
 
Negli anni la tua voce è cambiata?
«È diventata più adulta e pesante, ma non troppo visto che doppio attori che hanno 10 anni meno di me. Direi quindi che è rimasta fresca. Più che la voce, direi che negli anni è cambiata la mia consapevolezza».
 
Parliamo un po’ di “American Sniper”. Hai studiato il personaggio prima di doppiare Cooper? Ti sei portato a casa il copione?
«Macchè. Non serve a niente portarsi il lavoro a casa, perché il doppiaggio non prevede uno studio del personaggio, perché un attore lo ha già fatto prima di te e in un’altra lingua. Io sono solo un operaio della parola».
 
Operaio della parola è una immagine bella assai...
«Ed è anche la verità. Io faccio i turni: dalle 9 alle 12, dalle 13.30 alle 16.30 o dalle 16.30 alle 19.30. Ti può capitare, nella fabbrica della voce, un film, un documentario, un telefilm, un cartone animato, una pubblicità. Capisci? Non puoi portarti il lavoro a casa, non avresti tempo. Lavori quando sei in sala: vedi, discuti la scena, poi registri e se non va bene rifai».
 
Un operaio che completa un lavoro fatto da artisti. Dai che scherzo...
«Ma è così. Anzi, ti dirò di più: il doppiaggio io lo reputo un grande tradimento di un’opera. Perché tu puoi farlo benissimo, addirittura meglio dell’attore, ma non sei lui. Quindi sostituisci il sentimento di un altro con il tuo».
 
Parole grosse...
«Ma è la verità. È un tradimento, ma necessario. Parlando di cinema, necessario allo sbigliettamento nei botteghini, perché la stragrande maggioranza degli spettatori non andrebbe a vedere un film in lingua originale con i sottotitoli».
 
Quindi voi doppiatori, pur se strumenti del tradimento, siete utili all’opera...
«Utilissimi. E lo dico soprattutto rivolgendomi ai detrattori del nostro lavoro che non ne capiscono nulla e, nel 90% dei casi, sono dei rosiconi che vorrebbero stare al nostro posto. Quindi li comprendo e li perdono, anche se scrivono cose raccapriccianti rispetto alla realtà del doppiaggio. Gente rosicona, che vive male per via dell’invidia che non riesce a gestire: scrivilo questo!».
 
Prima hai parlato del cinema in lingua originale, ma anche in televisione le cose non andrebbero poi così bene senza doppiatori, suppongo...
«Se non ci fossero i doppiatori, tanta gente non percepirebbe lo stipendio, perché mancherebbero gli incassi. Parliamo di televisione: quando abbiamo, noi doppiatori, scioperato 3 settimane a luglio scorso, le serie in lingua originale sottotitolate su Fox hanno avuto un calo del 65% dei telespettatori. Ti rendi conto? Pensa a “Beautiful” in lingua originale, con le casalinghe che lo “guardano sentendolo”, mentre fanno le pulizie. Come fai con l’originale sottotitolato? Le TV non farebbero un euro di pubblicità... e poi chi pagherebbe gli stipendi?».
 
Torniamo ad “American Sniper”, che è un film tratto da una storia vera. Cosa ti ha affascinato e cosa ti ha ripugnato del personaggio?
«Diciamo che psicologicamente ho trovato il personaggio abbastanza debole: non mi pare che ci sia questa analisi così profonda. Aggiungo poi, personalmente, che sono stufo della retorica americana. Se fai il poliziotto in giro per il mondo, per di più andando solo dove hai interessi economici, devi aspettarti che qualcuno torni morto o amputato. Però, dopo 20 anni di film sul Vietnam, a occhio e croce adesso ci aspettano 20 anni di film su Iraq e Medio Oriente. Tutto sommato, è un film godibile, ma da qui a parlare di Oscar, come sento in giro, direi che ce ne passa». 
 
Continua a farti onore questa schiettezza, che è uno degli aspetti più belli di certa (rara) abruzzesità...
«Ogni lavoro devi farlo al massimo, come se stessi gareggiando per una medaglia d’oro alle Olimpiadi, a prescindere da quanto ti piaccia. Direi che è professionalità. Io sono sincero e non riesco a dirti cazzate. Alcuni colleghi fanno discorsi complicati sul loro lavoro, ma a me sembra che raccontino la vita di altri. Io sono sincero e ti dico quel che penso. Poi, sul concetto di lavorare bene a prescindere dal tuo gradimento, siamo pieni di esempi, che ci provengono dalle più diverse categorie di lavoratori. Credi che tutti i minatori amino la miniera? Che tutti i gelatai amino tutti i gusti che producono? Che tutti i violinisti che suonano al Festival di Sanremo amino tutte le canzoni che interpretano?». 
 
Non fa una grinza...
«Io faccio un lavoro e credo di farlo bene, è tutto qui. Ti dico la verità e racconto la mia di vita, non mi invento niente. Ma sono conscio di vivere in un Paese di ipocriti – scrivilo questo! – in cui non si può dire “Mio Dio” su Rai Uno per paura che telefoni un prelato a lamentarsi, ma poi l’Italia è piena di gente che si fa le pippe. I dati dicono che SKY si regge sul calcio e sulla fica, capisci? Significa che la gente vive facendosi le seghe, mentali e non». 
 
Italia paese di poeti, santi navigatori e... onanisti?
«Paese in cui, se hai un briciolo di successo per ciò che fai, sono più quelli che ti invidiano e rosicano rispetto a quelli che ti fanno i complimenti».
 
Mi sto facendo l’idea di un doppiatore di successo, ma poco appassionato di cinema...
«Sono appassionato di cinema? No. Tu potresti dire: “Ma come, se lo fai?”. E che c’entra? Io sono appassionato di me. Sono appassionato di Christian quando recita e, credimi, non c’è passione migliore di quella per se stessi, perché non c’è cosa migliore di essere se stessi e volersi bene. Cominciando dalle piccole cose: chi ha detto che se ceni da solo ti devi fare un panino triste? Io mi compro il vino migliore e mi preparo una cena come si deve. Così faccio quando lavoro: qualsiasi cosa sia, io la faccio al meglio. È un modo di essere e di vivere».
 
In tutti i tuoi lavori dai il massimo, d’accordo, ma ci sarà qualche film al quale hai lavorato che hai amato più degli altri...
«Un film che ho amato molto, ma credo abbiano visto in pochi, è “Blackout”, diretto dal grande Abel Ferrara. Sono la voce di Matty, il protagonista, interpretato da Matthew Modine, che lì recita in modo straordinario. È un film strepitoso, in cui il protagonista alterna momenti contrapposti passando dall’euforia al down. Un altro film che ho amato si chiama “Cogan”, e ha come protagonista Brad Pitt. Lì ho doppiato Ben Mendelsohn, che non è il protagonista, ma che ha un ruolo straordinario e penso sia molto più bravo di tanti suoi colleghi superstar, sempre per tornare al concetto che nella vita ci vuole anche culo...».
 
C’è un attore che ammiri per come recita?
«Edward Norton, uno che non ho mai doppiato e non doppierò mai, perché lo fanno già due colleghi bravissimi come Massimo De Ambrosis e Massimiliano Manfredi».
 
Parliamo un po’ della “Accademia del doppiaggio”, che hai messo su con un altro abruzzese mostro sacro del mestiere: Roberto Pedicini...
«Diciamo che la nostra scuola è un grande orgoglio. Ormai ha 12 anni e sinceramente non ci aspettavamo il successo che ha avuto. Partita da Pescara, è arrivata a Roma, Milano e Firenze. Con noi c’è anche lo straordinario attore e doppiatore Franco Mannella, altro abruzzese. È la scuola in cui investiamo i nostri fine settimana, turnandoci per avere anche qualche giorno di libertà e credo che sia, in assoluto, una delle migliori accademie in cui imparare il mestiere in Italia, prova ne sia che quelli che poi entrano nel mondo del lavoro, da circa 7 anni a questa parte, sono quasi tutti usciti da noi. E ho le prove».
 
Fuori almeno un nome...
«Niccolò Guidi, nostro allievo al corso di Firenze, che dopo l’accademia è venuto a Roma ed ha prestato la voce al protagonista di “Vita di Pi”, film che nel 2013 ha vinto 4 Oscar, oltre a Golden Globe e Bafta. Non so se mi spiego...».
 
La soddisfazione più grande in carriera, finora?
«È un po’ lunga, ma te la voglio raccontare anche perché non l’ho mai detta a nessun giornalista prima. Avevo un amico, un fratello con cui avevo fatto radio, si chiamava Giampaolo Ferrante ed è scomparso tre anni fa, a 48 anni e 3 giorni. Lui e io amavamo tantissimo i Pooh, anche se non avevamo mai avuto l’opportunità di incontrarli, salvo che per una intervista al solo Roby Facchinetti. Dopo la scomparsa di Giampaolo, avviene una cosa magica: entro in contatto con i Pooh e divento la loro voce nel monologo iniziale che apre il loro concerto “Opera Seconda”. Nel 2013 scompare Valerio Negrini, paroliere storico dei Pooh: un artista in grado di scrivere canzoni che in 50 anni hanno venduto 52 milioni di dischi. Mi viene in mente una idea e comincio a registrare tutto con la mia voce. Poi scelgo 28 brani di Valerio Negrini, li faccio recitare a 46 fra i più grandi doppiatori italiani e ne faccio un doppio CD, che dura 1 ora e 40 minuti: nasce “Voci per Valerio”. I Pooh apprezzano e lo inseriscono nel “Pooh Box”, insieme al doppio DVD e il doppio CD del loro concerto “Opera Seconda in Tour” e a “POOHdiSEGNI”, un libro a fumetti di oltre 200 pagine. Ecco, “Voci per Valerio” è la mia più grande soddisfazione professionale, perché dedicata al mio amico Giampaolo Ferrante, che non c’è più e insieme al quale sognavamo di salire sul palco in un concerto dei Pooh. Un sogno che, in un certo modo, si è comunque avverato in questa storia che ha dell’incredibile...».
 
A questo punto, raccontamela fino alla fine...
«Dovevo incontrare i Pooh, che erano in tournée, per il progetto “Voci per Valerio”. Avrei potuto incontrarli in decine di città in Italia. Invece l’unico momento in cui erano liberi è stato a Lanciano, nel mio Abruzzo. E sai in che giorno Facchinetti mi diede l’appuntamento? Esattamente un anno dopo la mia presenza a Lanciano, per andare a prendere il mio amico Giampaolo che era morto lì, in ospedale. Facchinetti non poteva saperlo. Di più: quando sono salito sul palco l’ultima volta per ricordare Valerio Negrini, durante un concerto dei Pooh, è stato a Milano, il 17 maggio 2014. Il giorno in cui Giampaolo avrebbe compiuto 50 anni. E anche questa non è stata una cosa decisa in alcun modo. Se ci penso, mi si gela il sangue ancora adesso».
 
Dovremmo chiuderla qui, dopo quel che mi hai detto, ma voglio chiederti ancora due cose. La prima: hai qualche progetto nel cassetto?
«Ho scritto la sceneggiatura di un film, insieme a 3 amici. Si chiama “Incontro a Teano” ed è una pellicola che, nonostante il titolo, coinvolgerà l’Abruzzo e il Veneto e cioè le mie due anime. Voglio realizzare il film nel giro di un paio di anni».
 
Seconda e ultimissima: cos’hai conservato del tuo essere abruzzese?
«La testardaggine. Si dice abruzzese capatosta? È proprio così».
 
Christian Iansante
SHOWREEL
 






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