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PALLONATE AMARCORD: GIOVANNI GALEONE, IL PROFETA.

Profilo biografico e intervista all’allenatore di calcio che a Pescara è leggenda, pubblicati su IL TEMPO Abruzzo il 2 aprile 2002.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Sabato, 04 Luglio 2015 - Ore 11:30
GIOVANNI GALEONE
 
Giovanni Galeone nasce a Napoli, il 25 gennaio 1941 da papà Corrado, abruzzese di Pescina, e mamma Dorina, emiliana di Reggio. Nel 1948 la famiglia si trasferisce al nord. Giovanni si diploma al liceo classico e si iscrive all’università, facoltà di lettere con indirizzo in storia del cinema. La sua carriera di calciatore inizia nel Ponziana, prosegue a Monza, Avellino, Arezzo e finisce all’Udinese, dove rimane per 8 anni consecutivi, chiudendo la carriera a 32 anni, dopo aver promesso di smettere se la sua squadra fosse uscita sconfitta (e perse 2-0) da uno spareggio per salire in B. Appese le scarpe al chiodo, inizia ad allenare nelle giovanili dell’Udinese, per poi andare in quarta serie, prima col Pordenone e poi con l’Adriese. Dopo aver frequentato il supercorso di Coverciano va a Cremona in serie C1, nel 1979. Scende in C2, prima nella Sangiovannese e poi nel Grosseto, prima di tornare a Udine, per due stagioni nelle giovanili. Torna ad allenare in prima squadra alla Spal, nel 1983-1984, dove rimane per 3 stagioni, prima di firmare con il Pescara, che lo chiama nella stagione 1986-1987 per gestire il team che si ritrova in serie B, ripescato al posto del Palermo. E’ la squadra di Rebonato e di Gatta, che vince il campionato. A Pescara rimane altre due stagioni di A, che finiscono nella retrocessione in cadetteria. Se ne va e firma a Como per una breve parentesi, ma torna a Pescara, per gettare le basi della seconda promozione, che avviene nella stagione 1991-1992, con la squadra di Allegri e Massara. Dopo Pescara, Galeone vince la B ancora due volte: prima a Udine, nella stagione 1994-1995 e poi a Perugia, nella stagione successiva. Firma in A, a Napoli, per poi tornare per la terza volta a Pescara. Anticonformista e spirito libero per eccellenza, Giovanni Galeone è stato uno dei primi allenatori ad applicare la zona nel calcio. Persona colta, amante della vita e lontano dai clichè dell’allenatore tutto casa e stadio, Galeone è tutto in una frase a lui attribuita: “Il quarto passaggio è monotonia”. Uomo allegro e aperto, rifugge i luoghi comuni e il calcio dei cloni che non escono dal seminato. Prendendo in prestito una celebre pennellata del cantautore Paolo Conte, dedicata a Bartali, Giovanni Galeone ha: “Il naso triste come una salita e gli occhi allegri da italiano in gita”.
 
INTERVISTA
 
Giovanni, sei un profeta della zona. Sei finito in croce come ogni profeta che si rispetti?
«Ma sai, non è detto che uno debba stare in croce a lungo. Oggi il gioco è piatto e di un profeta ogni tanto c’è bisogno. Hanno anche rivalutato Zeman».
 
C’è bisogno, ma intanto tu non alleni. Perché?
«Perché ho rifiutato tante offerte e perché non rubo soldi. Voglio un progetto, non fare parte di un circo».
 
Potresti rientrare in A, magari grazie a un procuratore influente, ma non mi sembri il tipo da inchini.
«Se dovessi rientrare, sarà senza procuratori amici e con il piacere di non aver chiesto niente a nessuno».
 
Luciano Moggi è il capo del calcio italiano?
«Sì, da 10-15 anni. Ha preso il posto di Allodi».
 
Chi sono i veri padri del gioco a zona?
«Dobbiamo cercarli prima di me: Amaral, Liedholm, Eriksonn. Poi però ci sono io con Sacchi, Orrico e Catuzzi. Oggi il 99,99% delle squadre fanno la zona».
 
Tu sei schietto e sembri una bestia rara. Chi ti piace, fra gli allenatori, per la sua schiettezza?
«Da ragazzo mi piaceva l’ironia di Liedholm, che veniva colta da pochi. Poi c’erano Orrico e Bagnoli. Oggi la prassi è parlare per luoghi comuni».
 
Se si vince è merito dell’intensità. Se si perde è colpa di episodi negativi. Se si chiede un giudizio non si parla dei singoli. A sentire i mister in TV, non hanno clonato soltanto la pecora Dolly, vero Giovanni?
«E’ il segno dei tempi. Una volta sentivi Liedholm, Bagnoli, Radice, Sacchi. Tutti avevano uno stile. Oggi è tutta maniera. Sti ragazzetti sono tutti uguali e il movimento si appiattisce sempre di più».
 
La vittoria più bella della carriera?
«La serie A con il Pescara e il debutto a San Siro, battendo 2-0 l’Inter».
 
Pescara: tema libero.
«Appena sono arrivato mi ha conquistato immediatamente. Un attaccamento da amante. Sono stato attirato dal modo di vivere, dal caos. Dal caos è nata la vita e io ho amato subito Pescara, rifacendomi a questa verità. Probabilmente è per questo che io e Pescara ci siamo sposati, perché non c’era tempo per la monotonia. Amo Pescara, caotica ma viva».
 
Il giocatore più forte che hai allenato?
«Baka Sliskovic. Lo so che Leo Junior, vero modello di professionalità, si incazzerebbe se mi sentisse, ma Leo stesso diceva: “Mister, se avessi il talento di Baka …”».
 
Molti dicono che i presidenti vogliono fare la squadra. A te è mai capitato di subire ingerenze?
«In 30 anni di carriera ho avuto presidenti anche molto carismatici. Gli amici mi dicevano di stare in guardia, di stare attento alle loro intromissioni, ma io ti posso dire, anzi ti posso mettere per iscritto, che nessuno si è mai azzardato a intromettersi nel mio lavoro, nemmeno per chiedermi la formazione».
 
Quali sono i tuoi svaghi e le tue passioni?
«La pesca, stare in mare. Quando ero più giovane e riuscivo a fare tante altre cose, riuscivo anche a leggere molto».
 
E’ vero che hai portato in panchina anche un libro di poesie di Prévert?
«Assolutamente no. La voce è nata da un’intervista interpretata male. Non ho mai portato un libro di Prévert in panchina, anche perché Prévert è triste. Preferisco portare 2 pacchetti di Marlboro».
 
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