È il cinema, bellezza! [La settima arte vista da Lorenzo Rastelli]
IL REGNO D’INVERNO: GLI EFFETTI DELL’IGNAVIA E DELLA NOIA SULL’ANIMA.

Lorenzo Rastelli, cinefilo classe 2000, continua la sua collaborazione con ROSETO.com recensendo ‘Winter Sleep’, film del 2014 del regista turco Nuri Bilge Ceylan, vincitore della Palma d’Oro al festival di Cannes.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Mercoledì, 21 Giugno 2017 - Ore 12:00

Dopo aver rivelato gioiosamente, nell’esordio su questo sito, la mia profonda ammirazione per il cinema del regista giapponese Yasujiro Ozu (1903-1963), cambio completamente rotta parlandovi di un film che reputo decisamente degno di attenzione anche se, essendo uscito solo tre anni fa senza ottenere quel clamoroso successo commerciale (e come poteva, aggiungerei fortunatamente!) che porta inevitabilmente alla notorietà planetaria, non può certo essere considerato un capolavoro conclamato della storia del cinema… ma forse, mi viene da pensare, quello che può essere interessante e trasversale in questa umile rubrica è proprio utilizzare una personalissima lente d’ingrandimento nei confronti di un prodotto cinematografico che ha provocato nel sottoscritto intense emozioni, a prescindere da quanto ha incassato… ok?

Fondamentalmente, la ragione primaria che mi ha spinto a parlare della pellicola IL REGNO D’INVERNO (NURI BLIGE CEYLAN – 2014) è semplicissima: per non “intimorire” i giovani come me appassionati della settima arte, vorrei dire la mia anche su film più recenti che quindi possano risultare più facilmente fruibili, anche se, nel caso specifico, parlare di facile fruizione per un film dalla durata di tre ore e un quarto e dai ritmi abbastanza dilatati può sembrare quantomeno un azzardo… ma adoro le sfide e quindi proviamo a vedere cosa salta fuori!

Il Regno D’inverno (titolo originale Winter Sleep) è una pellicola del 2014 girata dal regista turco Nuri Bilge Ceylan e premiata con la prestigiosa Palma d’oro al Festival di Cannes… tra l’altro, questo ambito riconoscimento era stato previsto da molti addetti ai lavori in quanto Ceylan è sempre stato un regista molto apprezzato dalla kermesse francese che non ha mai nascosto il proprio amore nei confronti di questo cineasta, ricompensandolo con numerosi riconoscimenti fin dai tempi di Uzak (2003 ), sua prima “creatura” ad avere una distribuzione in Europa.

Come di consueto, per analizzare al meglio un’opera occorre soffermarsi brevemente sul soggetto che sta alla base della suddetta…

Il film racconta le vicende inerenti ad Aydin, ex attore teatrale turco in pensione, profondamente frustrato per non aver sfondato nel mondo artistico che, oltre a gestire - insieme alla giovane ma, a dir poco, fredda moglie e alla sorella, divorziata da poco - un piccolo ma delizioso albergo (l’Othello, con evidente richiamo a Shakespeare) incastonato nelle montagne della Cappadocia, si occupa della amministrazione delle entrate economiche riguardanti le proprietà ereditate da suo padre, pignorando cinicamente, seppur non in prima persona, televisori e frigoriferi agli inquilini morosi, ed in costante procinto di scrivere un libro, sulla storia del teatro turco.

Chiariamo subito un dettaglio di fondamentale importanza: questo potrebbe essere definito un film-saggio; infatti, gli eventi che avvengono fungono da pretesto per indagare attraverso i dialoghi, spesso basati su un incalzante botta e risposta, le reazioni dei protagonisti e di conseguenza per condurci a scoprire, gradualmente ma inesorabilmente, le pieghe ma anche le… piaghe del loro animo.

Infatti, se dapprima i rapporti tra i protagonisti sembrano essere mediamente tranquilli - in un contesto che potremmo definire come la quiete prima della tempesta - con l’arrivo del glaciale inverno, che inevitabilmente li costringe a rimanere sempre più isolati in un luogo che, pur essendo confortevole, non è certo collocato in una posizione felice, antiche ruggini e insoddisfazioni, a mano a mano, riaffiorano dolorosamente e a farne le spese è proprio il nostro protagonista che ad un certo punto si troverà esiliato in casa sua…

Consapevole di tutto ciò, Aydin (magistralmente interpretato da Haluk Bilginer) decide di trascorrere alcuni giorni nella fattoria di un amico, dopo aver detto alla moglie che sarebbe partito per Istanbul con la finalità di trovare alcune fonti utili per iniziare a scrivere l’opera sulla storia del teatro turco…

Ciò che caratterizza questa pellicola, che senza dubbio si avvale di una minuziosa e impagabile sceneggiatura, è la capacità di offrire un ritratto disilluso su come la noia possa rendere l’uomo arido e ignavo e quindi sia in grado di compromettere, se non distruggere, i rapporti umani.

Tutte le micro vicende che fanno da sfondo all’introspezione psicologica dei personaggi hanno un comune denominatore, ovverosia Aydin… proprio per questa ragione, ritengo che sia necessario articolare un’analisi ancora più dettagliata del personaggio, che potremmo definire senza possibilità di equivoco il vero protagonista, e, seppur in tono minore, delle altre figure che gli ruotano intorno.

Il primo interrogativo che mi sono posto dopo aver visto il film per la seconda volta è stato molto semplice: chi è Aydin?

La risposta a questa domanda, infatti, non ci viene abilmente agevolata dal regista visto che quest’ultimo non giudica il suo personaggio (che finezza artistica!) ma semplicemente ci pone di fronte alle sue mille contraddizioni, lasciando allo spettatore l’arduo compito di metabolizzare e trarre un bilancio da ciò che ha appena visto.

Aydin, che pronuncia la suggestiva frase “La vita è quella cosa che ti capita mentre fai progetti”, è sia un ricco e annoiato borghese sessantenne che nell’arco della propria esistenza non è riuscito a realizzare le elevate aspettative che erano state riposte su di lui e che ora gozzoviglia tutto il giorno, dispensando, dall’alto del suo consolidato status sociale, sentenze su chiunque gli capiti a tiro, sia, obiettivamente, un intellettuale che si sforza, seppur nell’ambito di un contesto ristretto, arido e socialmente chiuso, di mettere a nudo, con un accento spesso polemico, i problemi che affliggono la popolazione turca.

La maturazione del protagonista - che in un certo momento si vede crollare il mondo addosso anche per via dei suoi ripetuti affilati e sgradevoli giudizi - ricorda molto quella del vecchio professore Isak Borg, personaggio protagonista di uno dei tanti capolavori del regista svedese Ingmar Bergman (1918-2007), ovverosia Il posto delle fragole (1957), con il tema della incomunicabilità alla base dei rapporti umani…

Infatti, i due personaggi sono accomunati dal fatto che nell’apice della loro realizzazione professionale, che per il professore bergmaniano consiste nel ritirare un prestigioso premio mentre per Aydin nell’iniziare la stesura del suo primo fatidico libro, vengono messi di fronte ai loro problemi e sono costretti a scavare nella propria esistenza a causa della complicazione del rapporto con una figura femminile che fino a quel momento era stata fedelmente, in qualche modo, al loro fianco…

Le differenze tra le due pellicole, però, sono sensibilmente profonde: in primis, mentre il finale creato da Bergman per la sua opera è conciliante e rassicurante perché attraverso il sonno l’anziano professore, dopo essersi finalmente riappacificato con la nuora e il figlio, ricorda i momenti felici della sua infanzia, quello sceneggiato da Ceylan lascia gli eventi in sospeso, visto che Aydin viene sì riammesso in casa sua ma la narrazione non lascia spazio a nessuna forma di riappacificazione tra i protagonisti e questo fa tutta la differenza del mondo, anche se la sensazione è che l’ex attore in pensione (come la scena del cavallo selvaggio, prima catturato e poi liberato, suggerisce!) sia finalmente pronto per realizzare concretamente il benedetto libro sul teatro turco… in secondo luogo, bisogna ricordare che, tecnicamente, Bergman opera l’analisi dell’animo del protagonista attraverso una numerosa serie di flashback mentre Ceylan preferisce una narrazione più lineare ma non per questo meno incisiva.

Dopo aver illustrato, spero in maniera chiara, questo doveroso collegamento nonché omaggio ad uno dei massimi maestri di tutta la settima arte, appunto Ingmar Bergman, vorrei sottolineare, per concludere questa disamina sul protagonista Aydin, che egli si trova a scontrarsi con le varie “anime del popolo“ incarnate alla perfezione da Andì, il quale rappresenta la parte di proletariato più conscia dei rapporti di forza che lo legano al suo affittuario e più disposta quindi ad essere servile tanto da far baciare a suo figlio una mano tanto odiata da lui pur di conservare quella lurida topaia in cui dimorano, e dal fratello Ismail, il quale invece si può identificare in un personaggio schivo, all’occasione violento e marcatamente anti diplomatico che, pur di non rinunciare agli scampoli del proprio orgoglio, addirittura brucia i soldi che garantirebbero a lui e alla sua famiglia un futuro quantomeno dignitoso.

Prima di concludere, vorrei dare una mia interpretazione relativamente alle due figure femminili che rappresentano comunque momenti fondamentali per cogliere appieno quell’atmosfera di turbamento e contraddizione che caratterizza la lunga ma non certo noiosa pellicola…

Prima di tutto, occorre parlare di Nihal e cioè la giovane moglie di Aydin, figura alquanto incoerente e ricca di sfaccettature, come del resto tutti i personaggi di questo saggio su schermo… infatti, Nihal è sempre in bilico tra l’ideale di filantropa e la vita di una ragazza ricca e tremendamente annoiata che compie i gesti di beneficenza solo per colmare l’enorme vuoto del suo inquieto animo… la profonda insoddisfazione si tramuterà in un’esplosione di rabbia, giustificata solo a tratti, nei confronti del marito reo, ovviamente a suo dire, di averle “tarpato le ali“, strappandola alla giovinezza tramite un matrimonio a cui non è stata obbligata a sottostare ma dal quale non è mai riuscita a liberarsi, probabilmente anche per una serie di comodità materiali per lei irrinunciabili, altro che chiacchiere!

Una riprova di tutto ciò è esplicitata proprio da una scena di cui abbiamo già parlato, cioè quella in cui Nihal riesce, all’insaputa del marito, a far pervenire al focoso Ismail il denaro necessario per risanare il debito della famiglia dell’Imam… nel frangente in cui il fratello di Andì, come radicale risposta a questo gesto eseguito dalla donna solo per mettersi a posto con la propria coscienza, decide di dare fuoco al “vile denaro”, lo spettatore realizza tutta l’inadeguatezza della ragazza, che mai e poi mai avrebbe pensato ad un simile scatto di dignità e di riscatto sociale, abituata da sempre a vivere nel mondo dove l’apparenza e la comodità delle cose materiali ricoprono un ruolo primario.

In conclusione, Nihal è una figura che, non a caso come il suo coniuge, resta sempre a metà tra l’ideale teorico di un costante aiuto al prossimo e l’incapacità di rinunciare ai propri lussi e di confrontarsi con una realtà sociale così profondamente differente da quella a cui lei appartiene, nel bene e nel male.

L’ultimo personaggio che riveste un ruolo non meno interessante nel film è Necla, sorella di Aydin, la cui personalità emerge in due dialoghi che fungono da preludio ad eventi che verranno mostrati successivamente…

Nel primo dialogo, Necla avvia una discussione su come fronteggiare chi compie deliberatamente del male, lasciando trasparire tutta la sua vena idealista polemica e spesso distante dalla realtà, in quanto asserisce che bisogna combattere il male rimanendo inermi davanti ad esso mentre nel secondo commenta, con una vena estremamente polemica, gli articoli del fratello che sono accusati di essere troppo pomposi e spesso inerenti ad argomenti che, a suo insindacabile parere, Aydin conosce solo superficialmente.

Sul piano registico, Nuri Blige Ceylan (1959), a differenza dei suoi film precedenti, riduce notevolmente le inquadrature e i tempi rarefatti, optando per stacchi di montaggio più frequenti, riuscendo ugualmente a mettere in primo piano la bellezza dei paesaggi che rendono abbagliante, in particolare, la maestosità delle montagne turche o la peculiarità di abitazioni letteralmente scavate nella roccia…

In conclusione, reputo “Il regno d’inverno” davvero un ottimo lavoro… certo, a volte il suo essere prolisso e verboso può infastidire, magari poteva durare qualche minuto in meno ma questa pellicola, ripeto, pur non essendo un capolavoro da classica isola deserta, rappresenta una perla rara nel panorama cinematografico odierno, in cui la norma è rappresentata da ritmi isterici che non consentono alcun tipo d’introspezione psicologica mentre, appunto, questo film, con i suoi moltissimi dialoghi che scrutano progressivamente l’anima dei personaggi, rappresenta un unicum molto originale e interessante.

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