Musica
MALIKA AYANE: NESSUNA CERTEZZA, MILIONI DI POSSIBILITÀ...

Intervista alla cantante che ha aperto il suo tour al club Pin Up di Mosciano Sant’Angelo. E che sottolinea l’importanza di due cose: studio e cultura.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 01 Novembre 2018 - Ore 23:45

Malika Ayane, com’è essere un’artista nell’Italia del 2018?
«Bellissimo, perché non avere alcun tipo di certezza permette di avere milioni di possibilità. In questo periodo storico ti dicono che i dischi non si vendono, che devi andare in televisione se vuoi fare delle cose... ma questo, secondo me, vuole anche dire avere massima libertà di trovare la propria strada perché, non essendoci regole, niente è sbagliato».

Una provocazione legata ai tempi. Prova a immaginare la musica legata al sovranismo, o al nazionalismo se preferisci. Cosa ne uscirebbe?
«Ussignùr! C’era un bellissimo libro, “Balzac e la Piccola Sarta cinese” (scritto da Dai Sijie, pubblicato in Italia da Adelphi nel 2011, n.d.r.) in cui c’è un passo molto divertente, diciamo così. Ci sono dei ragazzi in Cina, mandati ai campi di lavoro, e uno sta suonando con il violino una sonata di Mozart. Allora le guardie, che erano lì a controllare che i lavoratori non facessero alcunché di occidentale, ascoltano e si chiedono cosa sarà mai questa sonata e chi sarà mai questo Mozart. Quindi chiedono al violinista: “Non sarà mica roba occidentale?”. E il povero violinista risponde: “No, Mozart quando componeva pensava al presidente Mao!”. Tutto questo per dire che... troverei una scappatoia alla musica sovranista!».

Fra le cose che hai fatto, c’è un brano scritto a 4 mani con David Foster, che ha lavorato con i più grandi della musica mondiale come Michael Jackson, Al Jarreau e Barbra Streisand, per citarne solo tre . Com’è stato lavorare per un “mostro” come lui?
«Meraviglioso. È tutto molto semplice quando le persone sanno lavorare. La cosa che mi affascina molto, quando collabori con autori e artisti di fama internazionale, è che sono dei lavoratori. Che tu sia un autista di autobus o un artista, secondo me al lavoro bisogna approcciarsi sempre nello stesso modo e cioè con serietà e diligenza. E così è stato con David Foster. Mi ha stupita la semplicità dell’operazione, che ricordo con gioia perché quel brano è stato un successo».

Un artista, fra quelli con i quali hai lavorato, che ti ha colpita in particolar modo?
«Paolo Conte. Quando arrivi nel paese in cui fa le prove, la signora del bar ti dice: “Ah, ma devi andare dal ragazzo che suona?”. E quindi, ancora oggi, dopo tanti anni di carriera, Paolo Conte è il ragazzo che fa le prove in un paesino di provincia dell’astigiano».

Proprio Paolo Conte ha definito la tua voce di color arancio, amara e rara. Tu, invece, cosa diresti della tua voce?
«Sai che non ne ho la minima idea? La mia voce è il più grande vettore che ho per esprimere il mio linguaggio. Poi, a pensarci troppo, si rischia di rovinare tutto. Io sono anche la mia voce».

Se non avessi cantato, un’altra arte che ti affascina e che avresti praticato?
«La fotografia».

Hai invece un artista che è per te un modello di riferimento?
«Elvis Costello».

Al Festival di Sanremo hai vinto due volte il Premio della Critica, per non dire dell’Orchestra che, in segno di solidarietà verso una tua canzone eliminata, lanciò sul palco gli spartiti. Cosa ti ha dato il “Festival dei Fiori” e quanto è importante per arrivare alla gente?
«È stato fondamentale. Non sarei qui senza Sanremo, ma sarei una di quelle persone che se le cantano e suonano e poi magari si dicono fra loro: “Quanto siamo bravi”... e non servirebbe a nulla, perché le canzoni devono arrivare alla gente».

Che rapporto hai con i social media?
«Ho assunto un’agenzia per suggerirmi una strategia di comunicazione, ma faccio fatica. Quando mi dicono: “Se sei a cena con i tuoi amici, perché non pubblichi una foto?”, io rispondo: “Perché sono a cena con i miei amici!”. Diciamo che sono ancora un po’ analogica, ma pure che mi inquieta un po’ creare una vetrina della mia vita».

A 11 anni sei entrata nel coro di voci bianche della Scala di Milano, a 13 anni Riccardo Muti ti ha scelto come solista per un ruolo nel Macbeth con, tra gli altri, Renato Bruson. Eri una predestinata, volevi ciò che hai ottenuto, è stata tutta una casualità o cosa?
«Io non ho mai cercato niente. Quando avevo 7 anni volevo fare Cindy Lauper, che aveva i capelli color polenta e un cappello a cilindro, ma non avevo e non ho mai avuto l’ossessione per il successo. Vengo da una famiglia di lavoratori e i miei genitori mi hanno sempre invitato a trovarmi un lavoro. Così, sia quando facevo la cameriera sia quando ero in un call center, ho sempre trattato tutto come la più grande opportunità della mia vita. L’ultimo lavoro prima di intraprendere la carriera musicale è stato quello di fare ricerca per spot musicali: mi pagavano per ascoltare musica, ti rendi conto? Ero la ragazza più felice del mondo e pensavo di fare il lavoro più bello del mondo, che invece è quello che faccio adesso. Sarà anche per questo che non ho mai atteso nulla con fare famelico».

Da novembre 2016 a gennaio 2017, sei stata la protagonista del musical “Evita”. Addirittura 70 repliche. Che esperienza è stata?
«Intensissima e bellissima. Ho interpretato una donna eccezionale, oltre a una parte considerata la più difficile che sia mai stata scritta per una donna e che terrorizzò pure Madonna. E io, dopo 70 repliche, la capisco!».

Hai avuto una formazione musicale classica, tetragona. Quanto ti è servita?
«È stata fondamentale. Se non capisci il contrappunto, non puoi neanche capire la musica techno o le strutture ritmiche...  Bach è dappertutto, in ogni cosa. E soprattutto mi ha dato disciplina. Di belle voci, di persone che hanno qualcosa da dire ce ne sono tante, ma bisogna conoscere molto bene e a fondo la materia di cui ci si vuole occupare. Due cose sono importanti: lo studio e la cultura. Insomma: conoscere per esprimere il tuo pensiero. Quando facevo jazz è stata la prima cosa che mi hanno insegnato».

Cantare: dillo con un altro verbo...
«Esprimere. Ce lo insegna Billie Holiday».





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