Storie di Basket
ISABEL HERNANDEZ PEPE: MAI ARRENDERSI.

Tre infortuni al ginocchio nei primi 17 anni non l’hanno fermata. Oggi gioca in A2, dopo il college e la laurea in America, e pensa a un futuro nella cooperazione internazionale. La nostra intervista.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Sabato, 21 Novembre 2020 - Ore 21:45

Nel 2013, ero l’addetto stampa (oggi si direbbe social media manager) delle Finali Nazionali Femminili Under 17 che si giocarono a Mosciano Sant’Angelo, in Abruzzo. Creai alcune pagine Facebook che, grazie ai fotografi Mimmo e Andrea Cusano e Cristian Palmieri, fecero incetta di visualizzazioni e like. Decine di migliaia di persone gradirono il servizio che non si limitava a dare i risultati, ma mostrava in tutta la loro bellezza le giovani atlete impegnate nelle partite. Parliamo ormai di 7 anni fa e non era così normale che giovanissime giocatrici avessero ritratti della qualità di quelli realizzati da Cristian, Mimmo e Andrea.

A fine manifestazione, pubblicai un post dedicato a tutte le atlete infortunate nel corso di quei giorni, citando per tutte proprio la più sfortunata di tutte: Isabel Hernandez Pepe, che in quei giorni incappò nel terzo serio infortunio al ginocchio a soli 17 anni.

In quei giorni chiesi pure l’amicizia a Isabel e da allora ne seguo i passi fatti nel mondo del basket e degli studi. La classe 1996, che gioca ala, è stata un esempio davvero eccezionale: riuscendo a risalire l’ennesima china nel quale un destino davvero perfido l’aveva fatta ruzzolare ancora una volta.

Isabel non solo è tornata a giocare, ma ha fatto di più, portando avanti con grinta e abnegazione i suoi progetti.

In questa intervista provo a raccontarvi, con le sue parole, la storia di Isabel, affinché sia di ispirazione a tutti i giovani atleti.


Isabel, dal quel 2013, quando giocasti le Finali Under 17 a Mosciano Sant’Angelo infortunandoti, è passata molta acqua sotto i ponti. Come sei uscita da quell’ennesimo infortunio?
«Era la prima finale nazionale in cui  giocavo finalmente con la mia annata e infortunarmi, al decimo minuto della prima partita, fu una bella batosta. Ero molto dispiaciuta per la mia squadra che aveva ambizioni e naturalmente per me, perché sapevo quello che mi aspettava: un nuovo intervento e sei mesi di riabilitazione. Ma ero anche sicura che sarei tornata in campo!».

Quali valori e quali desideri ti hanno consentito di non mollare?
«La verità è che non ho pensato neanche per un  secondo di arrendermi e smettere di giocare. Probabilmente perché sapevo di aver lasciato molte cose in sospeso, di avere ancora molto da dare… e anche che la pallacanestro poteva ancora darmi molto in termini di soddisfazioni e lezioni di vita».

Dopo le giovanili, il college in America, prima a Orono, nel Maine e poi ad Austin, Texas. È stata una scelta principalmente legata al basket, oppure dovuta anche al tuo percorso di studi?
«È stata una scelta in gran parte condizionata dalla mia famiglia. Quando stavo per iniziare l’ultimo anno del liceo, il mio percorso universitario a Roma era già più o meno programmato, con i miei amici di sempre e la mia famiglia accanto. Insomma, sarei rimasta nella mia “comfort zone”.  Poi mia sorella Sara (più grande di 3 anni), che stava finendo il suo percorso di studi a Portland, in Oregon, mi disse che, nonostante le difficoltà avute all’inizio, andare a giocare e studiare in America era stata la scelta migliore della sua vita. In più, mia madre e mio padre, che da giovani hanno studiato all’estero, mi hanno spiegato l’importanza di fare nuove esperienze. E così ad agosto  del 2015 sono partita per il Maine!».

Cosa puoi dire della tua esperienza in NCAA?
«Dal punto di vista cestistico, l’NCAA è forse il campionato che ti può offrire di più in tutti i sensi: coach disponibili a fare allenamenti individuali anche alle 5 di mattina, sala pesi sempre a disposizione, allenamenti super intensi (anche di 3 ore) che ti fanno sicuramente crescere come giocatrice, ma anche come persona. Dal punto di vista invece dello studio, è stato importante  poter imparare l’inglese alla perfezione e seguire le lezioni del mio corso in Relazioni Internazionali. Nella NCAA lo studio e lo sport sono ugualmente importanti. E uno studente-atleta viene aiutato a dare il meglio in entrambi i campi».

Rientrata in Italia, hai continuato a giocare a basket e pure approfondito gli studi. Quanto è faticoso, se lo è, conciliare le due cose?
«Una volta rientrata in Italia, ho iniziato un Master di Secondo Livello in International Public Affairs alla Luiss e ho firmato un contratto con l’Athena Roma, per giocare in A2. Purtroppo sappiamo entrambi come è andata a finire con l’Athena, e quindi a dicembre, pur avendo ricevuto proposte da diverse squadre di A1 e A2, non potendomi muovere da Roma ho deciso di continuare la stagione in serie  B con la Stella Azzurra. Quest’anno gioco alla Spezia e continuo a studiare e a lavorare da remoto. In Italia, conciliare lo sport con lo studio è difficile, ma con tanta forza di volontà e soprattutto con tanto “time-management” è fattibile. Spesso sono dovuta correre ad allenamento dopo 8 ore di lezione,  ma la passione e  il divertimento che ti regala il campo da basket rendono tutto meno faticoso».

Tua madre è giornalista a Radio Rai 1 e ha seguito la recente campagna elettorale nella quale si sono sfidati Trump e Biden. Che Stati Uniti hai percepito, negli anni in cui ci hai vissuto e nei quali Trump  era il Presidente?
«Mia madre segue gli Stati Uniti da molti anni e nel 2016 aveva seguito la campagna e l’elezione di Donald Trump. Personalmente, non dimenticherò mai l’atmosfera che si respirava nella mensa dell’università del Maine, la mattina dopo le elezioni vinte da Trump: alcuni gruppi di ragazzi e ragazze festeggiavano, altri facevano colazione a testa china, come se fossero stati in lutto. Una  parola che può riassumere molto bene i miei tre anni negli Stati Uniti con Trump come POTUS (acronimo di President Of The United States) è “polarizzazione”: la stessa parola che viene usata nei giornali per descrivere la società americana attuale. Ho visto spesso anche episodi di razzismo nei confronti di alcuni colleghi o altri studenti-atleti.  Una volta hanno detto anche a me di tornarmene in Messico, perché mio padre è messicano e io ho la doppia cittadinanza. Non a caso, tutto questo è successo dopo l’elezione di Trump».

Cosa hai studiato e stai studiando alla Luiss e cosa vuoi fare da grande?
«In questo momento sto finendo di scrivere la tesi sulle relazioni tra Spagna, Messico e Unione Europea, per concludere il Master che ho seguito l’anno scorso. Sono stata anche fortunata, perché ho un contratto come Research Assistant del Dipartimento di Scienze Politiche, sempre alla Luiss. Mi piacerebbe lavorare come cooperante internazionale in America Latina, ma sto anche valutando la possibilità di fare un dottorato. Vedremo!».

Qual è, finora, la più bella soddisfazione ottenuta su un campo di basket?
«La più grande soddisfazione per me è stata tornare a giocare dopo gli infortuni al ginocchio. Per quanto riguarda i risultati veri, a 13 anni il terzo posto con Athena alle Finali Nazionali Under 15 di Cagliari 2009. Poi, anche se abbiamo perso di un soffio, la finale del Trofeo delle Regioni a Torino e la Finale Scudetto Under 20 con Battipaglia, l’anno prima di andare negli States. Se devo scegliere invece la più bella soddisfazione personale, è stata nel mio ultimo anno a St Edward’s, in Texas. Nella  partita contro Newman University, ho battuto il record dell’Università segnando 8 tiri da tre su 10 tentativi e il mio record personale di punti, segnandone 39. Con mamma e papà sugli spalti!».

E qual è, invece, la soddisfazione più bella ottenuta nel tuo percorso di studi?
«Riuscire a laurearmi con “Summa cum Laude”, il massimo dei voti, nonostante passassi più della metà della mia giornata in palestra. Ma anche la pubblicazione di un mio breve saggio storico sul Massacro di Addis Abeba del 1937, in una rivista dell’Università».

Hai idee o proposte per rilanciare il basket, quando questa pandemia da Covid-19 sarà finita e si riapriranno le porte dei palasport?
«Credo che la cosa più importante sia proprio riportare il pubblico alle partite. Ovviamente, seguendo scrupolosamente tutte le norme anti Covid-19. Giocare senza spettatori è davvero  triste. Il basket – ma più in generale lo sport – avrà bisogno di molto supporto, a tutti i livelli, per continuare a svolgere il suo ruolo fondamentale nella società».







Stampato il 04-19-2024 19:42:32 su www.roseto.com