Sports Around The World
LUCA LIXI: QUANDO LA FINANZA FA CANESTRO IN AFRICA.

Intervista all’imprenditore under 40, che racconta come ha conosciuto la onlus, cosa pensa della beneficenza, quanto i valori del basket lo hanno aiutato e chi sono il campione preferito e un modello al quale ispirarsi.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Venerdì, 12 Marzo 2021 - Ore 22:15
Qualche settimana fa, intervistando Francesco Infante, ho sentito nominare Luca Lixi, giovane imprenditore finanziario che ha dato una grossa (ma davvero grossa) mano alla onlus Sports Around The World, della quale Infante è Managing Director.

Quando Francesco mi ha detto che Luca, 36 anni, aveva acquistato la canotta di Melli per 5.000 euro e aveva donato oltre 7.600 euro per costruire un campo di basket in Congo, a oltre due ore di macchina dal primo centro abitato, incuriosito gli ho chiesto amicizia e proposto un’intervista, per conoscerlo meglio. Ecco la nostra chiacchierata.

Luca Lixi, non hai esitato a fare un’offerta stratosferica per acquistare la canottiera NBA di Niccolò Melli, supportando la Sports Around The World. Come hai conosciuto questa onlus?
«Ho conosciuto Sports Around The World (d’ora in poi SATW, n.d.r.) tramite un’altra associazione, Basketball for Africa, di cui conoscevo i fondatori e sostenitori Antonio e Michele Valleriani. Loro avevano già dato una mano a SATW con qualche iniziativa di beneficenza e supporto, e sono subito rimasto piacevolmente colpito dal modo di affrontare un contesto così delicato».
 
Prima della canotta di Melli hai fatto di più, finanziando una struttura sportiva in mezzo al nulla, in Congo, sempre per Sports Around The World. La tragica scomparsa dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci insieme al loro autista, avvenuta nei giorni scorsi, è un terribile richiamo alle nostre coscienze circa la necessità del mondo intero di interessarsi ai problemi del pianeta. Il tuo modo di esercitare una “cittadinanza mondiale consapevole” è anche agire sostenendo e finanziando questi importanti progetti?
«Sono un sostenitore delle soluzioni individuali. E penso che si possa fare tanto individualmente, anche con delle semplici donazioni ad associazioni virtuose come SATW, che aiutano persone in oggettiva difficoltà a crearsi un futuro migliore. Il rischio di predicare e richiedere soluzioni collettive (ad esempio: “lo Stato deve fare qualcosa, le organizzazioni politiche internazionali devono fare qualcosa” e così via), è quello di deresponsabilizzare l’individuo a compiere azioni che in realtà possono aiutare davvero. Iniziare ad agire individualmente (non a parlare, ad agire), ognuno per quanto può e per quanto si sente, può essere l’inizio di una nuova forma di attenzione e di cura verso gli altri individui. Soprattutto quelli che hanno meno opportunità, o affrontano oggettive difficoltà».
 
Secondo alcuni, bisogna fare beneficenza in silenzio. Io, da oltre 25 anni, faccio il contrario perché credo invece che bisogna essere di esempio. Quanto è importante il concetto di “role model” anche in questo settore?
«È un argomento controverso. Per la cultura italiana, chiaramente influenzata pesantemente dalle radici cattoliche, è proprio sconveniente e inopportuno condividere le proprie iniziative di beneficenza. Posso essere d’accordo sul fatto che sia inopportuno vantarsi o ostentare eccessivamente questo, ma di certo non c’è nulla di male nel parlare di ciò che si fa in modo trasparente e senza secondi fini. Questo è invece socialmente accettato nelle nazioni di cultura anglosassone (USA e UK, in primis), dove è giustamente all’ordine del giorno pubblicare le proprie iniziative di beneficenza e filantropia, stimolare gare di solidarietà e raccolta fondi, o semplicemente ricordare l'importanza sociale di “dare indietro, restituire” (give back) una parte di ciò che si è ottenuto. Chiaramente, questa restituzione o redistribuzione deve essere stimolata su base volontaria, altrimenti non si chiama beneficenza, ma si chiama esproprio e furto».
 
Sei un grande appassionato di basket, vero? Quali valori ti ha dato lo sport della palla a spicchi?
«Assolutamente sì! Ho iniziato a giocare a basket a 5 anni, e da bambino e ragazzino il basket era davvero tutta la mia vita. Penso di aver consumato le videocassette delle finali NBA degli anni ‘90 a furia di guardare e riguardarle, per poi andare al campetto a cercare di imitare (con scarsi risultati, oggettivamente...) i movimenti migliori! Come valori, penso mi abbia aiutato a sviluppare un corretto spirito agonistico e competitivo (senza eccessi che non hanno nulla a che vedere con lo sport, ovviamente), e mi abbia sensibilizzato a quanto sia importante lavorare duro per ottenere dei risultati».
 
Quante delle cose apprese in un campo di basket sei riuscito a usare nel tuo lavoro?
«Penso che una squadra di basket, o comunque di uno sport di squadra, sia assolutamente di grande insegnamento per la vita adulta. A tutto il mio team in azienda faccio spesso esempi e metafore legate al mondo del basket. Un’azienda, in fin dei conti, è come una squadra. C’è l'allenatore, c’è il capitano, ci sono i vari ruoli in campo, ci sono i giovani gregari e i veterani. Chiunque abbia giocato sa bene cosa può fare un gruppo coeso e ben assortito, rispetto a un gruppo di personalità magari di talento, ma completamente scollegate e senza una guida. Non è un caso, peraltro, che i grandi allenatori di basket siano proprio dei mentori per i loro giocatori.  Penso a John Wooden di UCLA per Jabbar, Phil Jackson per Jordan e Bryant, Popovich per Duncan e gli Spurs. Nella nostra piccola realtà aziendale, cerco di creare una “cultura aziendale” che aiuti a sentirsi parte di un progetto, di una missione che va anche oltre i risultati o e soddisfazioni economiche. Certi insegnamenti sono “bigger than basketball”, come si usa dire oggi negli States. Sono più grandi del basket stesso. Ecco, certi insegnamenti sono anche “bigger than business”».
 
Il campione di sempre, nel basket, e perché lui?
«Mi sono sempre appassionato dei giocatori più sottovalutati, magari cresciuti lontano dai riflettori, o non dotati di mezzi fisici pazzeschi rispetto agli altri. Il mio idolo d’infanzia era quindi Reggie Miller degli Indiana Pacers, che con un fisico esile (ma un carattere di ferro), andava al Madison Square Garden di NYC a sparare una bomba dietro l'altra (e zittire Spike Lee in tribuna), o a competere a muso duro e nello stesso ruolo con Michael Jordan, il miglior giocatore di tutti i tempi».
 
Qualcuno che ti ispira, non necessariamente nel mondo dello sport, e perché?
«Sono sempre ispirato dai grandi investitori, o in generale dalle grandi personalità nel mondo degli investimenti e della finanza. Ne potrei citare tanti, ma penso che tra coloro che più mi ispirano ci sia Charlie Munger. È il socio e amico di una vita di Warren Buffett, che tutti magari conoscono come grande investitore, e penso sia tra le persone più sagge dei giorni nostri».
 
Sei italiano, hai operato in molti posti del Bel Paese, oggi vivi a Malta, hai una società in Estonia, lavori con collaboratori sparsi in ogni paese del mondo. Sei un archetipo di come sarà il cittadino del futuro prossimo, o ritieni che i rigurgiti di sovranismo e nazionalismo impediranno questa evoluzione?
«È una domanda bella tosta e scivolosa. Io sono estremamente legato alle mie radici (sono sardo, se c’è un popolo orgoglioso di questo siamo noi), ma non per questo penso che patriottismo, nazionalismo e sovranismo siano dei valori in sé. Anzi, penso l’esatto contrario: hanno sempre fomentato odio, divisione, ignoranza. Rispettare la propria cultura di origine, certamente, ma rispettare anche le altre culture e puntare a farsi arricchire da esse (volontariamente, torno a questo concetto perché altrimenti non è contaminazione culturale, bensì invasione). Non siamo alberi: abbiamo la fortuna che le nostre amate radici possiamo portarcele dietro in qualunque posto del mondo dove vogliamo vivere e prosperare. Siamo nati uomini liberi, e non ci deve essere niente e nessuno che impedisce questo. Di vivere in un’altra nazione, aprire aziende in un’altra ancora, assumere in tutto il mondo, fare affari dall’altra parte del globo. Purtroppo, e lo vedo anche dal mio caso, l’analfabeta medio pensa che la gente si trasferisca all’estero per evadere le tasse (come se all'estero non esistessero, e non fosse l’Italia la nazione col record di evasori), o perché stai cercando di fare qualche giro losco.  “Vive a Malta, la sua società è in Estonia? Mhhhh chissà che cosa starà combinando. Questa cosa mi puzza”. Ma nulla, vivo a Malta per il clima mediterraneo, la lingua inglese e la multiculturalità, e la mia azienda (al 100% digitale) è in Estonia perché è il paese europeo più avanzato da un punto di vista digitale. Sono un uomo libero, nessuno può dirmi dove devo vivere o dove devo fare affari».

Nel tuo lavoro investi e aiuti la gente a essere felice e libera grazie ai propri investimenti, parlando anche di educazione finanziaria. Il concetto di educazione è basilare, sempre?
«Sempre. E ancora prima dell’educazione, è importante l’alfabetizzazione. Pensa ai ragazzi che aiutiamo con SATW. Prima di insegnargli qualcosa in più sul gioco del basket in sé (educazione) c’è proprio da partire da zero con le basi del movimento, le regole, stare in gruppo, non picchiare il compagno, stare attenti al coach e così via. Questa è alfabetizzazione. Una persona non alfabetizzata (nei vari campi possibili, non solo finanza) è una persona che non conosce appunto l’alfabeto necessario per capire gli altri, e per far capire le proprie esigenze.  E sarà una persona debole, una persona vulnerabile, una persona credulona, una persona manipolabile. Offrire questa possibilità penso sia un altro esempio di “give back”, di offrire il proprio contributo per il miglioramento altrui».







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