Il Critico Condotto
L’IRONIA DI COLOMBO È QUELLA DI TEOFRASTO

Simone Gambacorta e l’analisi del celeberrimo tenente televisivo, arrivando fino all’antica Grecia.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 06 Ottobre 2022 - Ore 15:30

La questione è il tenente Colombo, però il discorso funziona meglio in reverse: il tenente Colombo è il personaggio in questione. Il poliziotto «sornione e apparentemente scombinato» (Aldo Grasso), il finto tonto aduso a dire una cosa per non far capire agli altri che ne pensa una diversa (e azzeccata), è un soggetto sul quale può dirsi molto.

Me ne sono andato in accelerata: riduco, scalo al personale: c’è questo personaggio inventato, che non esiste, o meglio, che esiste nella sua qualità di personaggio inventato (scritto, recitato, trasmesso), che, almeno per me, diventa un mulino di argomenti.

Addirittura mi è successo di (avere l’impressione di) capire alcune pagine di Teofrasto grazie a lui; leggendo la traduzione che dei “Caratteri” ha offerta Giorgio Pasquali (edizione Bur), mi sono difatti accorto di una cosa e un’altra invece ne ho constatata, ma tutto insieme.

Il primo dei caratteri descritti nella tipologia dell’eresino è l’ironico ed è stato lì che mi sono accorto che mi veniva in mente Colombo; contestualmente ho constatato che, in effetti, la descrizione gli si addice parecchio, in quanto presenta un certo quale confarsi a quel suo modo di fingere di non aver capito nulla quando, in realtà, di un caso di omicidio su cui indaga, ha capito (o sta per capire) tutto.

Della versione pasqualiana dei “Caratteri” sarebbero per lo meno tre – direi – i passi che mi squillano come di molto acconci al collegamento (diciamo: a questa mia scombinata ermeneutica); allora li prendo e li adatto al mio discorsetto come ritagliandoli da quello d’origine (millanta volte più nobile, adesso non sto nemmeno lì a spendermi in moine di protocollo) con una certa libertà e spero con un minimo di senno.

Il primo, che reputerei il sostanziale, è quello dove si spiega essere «l’ironico un tale, che, venendo a contatto con i nemici, consente a conversare con loro, senza mostrar loro odio; e loda presenti quelli stessi ai quali sotto mano ha mosso guerra, e si conduole con loro, quando ne buscano» (e «ne buscano», annota Pasquali, «forse per opera sua»).

Cioè: l’ironico è schermato (anche da un impermeabile), finge di dormire e invece sta attaccando. È l’agire di Colombo, in pieno: quando intercetta il papabile reo, lo porta pian piano nella sua rete. Parla, loda, apprezza, si finge distratto e goffo, e però intanto sotto sotto «ha mosso guerra» al «nemico». La sua concentrazione è un labor double face: capire (da una parte) e far sì (dall’altra) che i suoi link inquirenti restino quanto più inavvertiti.

Sembra e vuole sembrare l’ultimo degli sprovveduti, «non confessa nulla di ciò che fa, ma asserisce che ci sta ancor pensando su» e «finge d’esser giunto proprio allora e che gli si è fatto tardi e che non si è sentito bene». Il suo è un continuo gioco delle tre carte: «Se ha udito qualcosa, finge di no, e, se ha visto, dice di non aver visto, e, se ha acconsentito, di non ricordarsene; e le une cose dice di volerle studiare, altre di non saperle, di altre che lo sorprendono molto, di altre ancora che anch’egli una volta concluse così».  Ecco gli altri due passi di Teofrasto che vanno bene per lui: non alla lettera vanno presi, bensì li si consideri nel passo d’insieme.

«Guerra» e «nemico» sono parole estranee al tenente, il quale, è vero, «non ha mai, o quasi mai, rancori verso i colpevoli, anche se questi lo disprezzano e lo trattano male» (Pietro Citati), ma aiutano a capire  quale sia il gioco del ruoli e anche quanto Colombo sia inesorabile nello scialare in finte per mettere a sedere gli alibi avversari.

Ogni volta che dà il la al «gioco teatrale» con cui porta gli altri a credere che «sia ingenuo come finge di essere» (Pietro Citati), Colombo determina una situazione precisa: la sua simulazione di ingenuità genera una recitazione delle persone di cui sospetta.

Non si tratta soltanto (sarebbe normale) di una simulazione che ne innesca un’altra; qui c’è qualcosa di diverso: ce n’è una che ne governa un’altra. «L’aspetto dimesso e l’approccio maldestro e umile nei riguardi degli altri personaggi coinvolti nella vicenda fanno sì che il colpevole cada nell’errore di sottovalutare l’investigatore» (Aldo Grasso). Mentre recita distrazione e mancanza di acume, Colombo induce il «nemico» a recitare e a ritenersi la parte più scaltra tra quelle in conflitto (con ciò lo riduce alla parodia di se stesso e lo comprime in un cliché: anche, ne umilia l’intelligenza).

Qualcosa di simile succede in un romanzo che forse potrebbe piacergli, se solo esistesse (il tenente, non il romanzo): vedasi Paolo Maurensig, “La variante di Lüneburg”, dove da qualche parte (non ricordo, era anni fa) si parla di come, in una partita di scacchi, a fingere inferiorità rinunciando volontariamente, e in modo manifesto, a un “pezzo”, possa di fatto porsi l’avversario in svantaggio, lasciando che l’illusione di superiorità lo sbilanci per eccesso di sicurezza.

Colombo fa sempre finta di avere un pezzo di meno (non di avervi rinunciato) e chi se lo trova di fronte pensa che la partita possa essere vinta, salvo infine capitolare e tardivamente accorgersi d’essere stato al centro, e da molto prima di quanto potesse eventualmente supporre, di una débâcle controllata.

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