Cinema
LA DOLCE VITA DI FELLINI: UN FILM CHE HA FATTO SCANDALO.

Uno scritto di Mario Giunco, pubblicato su Koinč, parla di uno dei capolavori di Fellini e di come fu accolto a Roseto degli Abruzzi, al Supercinema.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Mercoledė, 30 Luglio 2025 - Ore 12:15

Dal 1960 al 1965 il cinema italiano ha espresso tre capolavori insuperati: “La dolce vita” (1960) di Federico Fellini, “Il sorpasso” (1962) di Dino Risi, “Io la conoscevo bene” (1965) di Antonio Pietrangeli. 

All’epoca hanno riscosso notevole successo di pubblico e critica. Non erano opere consolatorie o di evasione. 

Adriana (Stefania Sandrelli), la provinciale di umili origini, protagonista del film di Pietrangeli, cerca di farsi strada a Roma nel mondo dello spettacolo (uno dei falsi miti dell’epoca) e si uccide. Roberto (Jean-Louis Trintignant), che Risi presenta come un giovane della media borghesia, dotato di solidi principi, è attratto dal suo “alter ego”, l’amico fanfarone (Vittorio Gassman), che lo trascina fino a farlo precipitare in un burrone, con l’auto simbolica (l’Aurelia B24). 

Negli anni del nascente “boom” economico gli artisti intuiscono e descrivono momenti di frizione, drammi nascosti dietro un velo di allegria e di ipocrisia, che si dissolve al primo soffio. Ennio Flaiano - insieme a Tullio Pinelli, Brunello Rondi, Pier Paolo Pasolini, non accreditato - collaborò alla stesura de “La dolce vita”. A lui si deve una rappresentazione disincantata dell’esistenza, che confina con il cinismo. 

Fellini inventava sul set. Girò per circa novantaduemila metri, ridotti a meno di cinquemila, nella edizione definitiva (174 minuti), dall’abile montatore Leo Catozzo. Fece preparare ottanta set dall’Oscar ai costumi 1962, Piero Gherardi. La trama era imperniata su una dozzina di storie collegate a un aspirante scrittore, un “viveur” frustrato e insoddisfatto, Marcello Rubini (Marcello Mastroianni). “Mi serve una faccia come la sua – diceva Fellini - di poca espressione, quasi banale”.

 Il protagonista si aggira  negli ambienti raffinati e decadenti della Roma bene alla ricerca di fatti scandalistici, in compagnia del fido Paparazzo, un nome che divenne famoso per indicare il fotografo alla ricerca dell’effetto, come la maglia chiamata “dolcevita”. 

Una delle figure emblematiche è Enrico Steiner (Alain Cuny), l’intellettuale che suona l’organo, discute dei massimi sistemi e si suicida, dopo aver ucciso i figli. Italo Calvino bollò l’episodio come “privo di qualsiasi verità e sensibilità, frutto di astratta faziosità”. 

Il divieto ai minori di sedici anni fu motivato da alcune scene di sesso, da uno “striptease” della ballerina turca Aiché Nana, da qualche “brutta parola” e dalla fugace comparsa fra gli attori – eliminata e poi ripristinata – di Giò Stajano (all’anagrafe Gioacchino Stajano, nipote del gerarca fascista Achille Starace, diventato suor Maria Gioacchina in un convento di monache di Betania. E’ stato ristampato di recente il suo romanzo “Roma capovolta”, una delle fonti letterarie felliniane, uscito nel 1959, sequestrato per oscenità, messo all’Indice e bruciato in piazza). Gli attacchi al film non mancarono. 

La Dc se la prese per alcuni riferimenti al caso di Wilma Montesi, la giovane trovata morta sul litorale romano, che, in un giro di droga e orge, coinvolse politici di rango. La creatura marina, che compare spiaggiata, evocherebbe l’omicidio. 

Il futuro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, tuonò su  “L’Osservatore Romano”: “La sconcia vita” e “Basta!”. Critica fu la Chiesa ufficiale, mentre il gesuita Angelo Arpa definì il film “la più bella predica ascoltata”. Per Pasolini era “il più alto e assoluto prodotto del cattolicesimo”.  

Vi furono interrogazioni parlamentari, che contribuirono a far lievitare gli incassi del film. Dopo quindici giorni di proiezioni erano state coperte le spese dei produttori Angelo Rizzoli e Giuseppe Amato. 

File di spettatori si accalcavano anche al botteghino del Supercinema di Roseto. I racconti dei villeggianti romani avevano amplificato la fama. Per i ragazzi, nati nel dopoguerra e al limite dei sedici anni, assistere a uno spettacolo, considerato proibito, era una sorta di rito di passaggio fra gli adulti, come la prima sigaretta. 

La maschera del locale, il “tedesco”, ne sapeva più dell’anagrafe comunale e respingeva chi cercava di barare con gli anni. Salvo ravvedersi, quando il film era iniziato. Qualcuno cedeva al sonno e alle quasi tre ore di rappresentazione. Diceva di non aver capito niente e se ne tornava a casa mogio mogio, sperando di non essere stato scoperto dai suoi. 
 



Stampato il 08-23-2025 07:33:33 su www.roseto.com