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Uno scritto di Mario Giunco, pubblicato su Koinč, che racconta del fuorilegge Horst Fantazzini e di don Mario Setta.
Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedė, 20 Novembre 2025 - Ore 10:30
È quasi rimosso dall’immaginario collettivo il nome di Horst Fantazzini (1939-2001), definito “il rapinatore gentile”.
Affabile nel tratto e nel linguaggio, non era violento, usava una pistola giocattolo. Diceva che il padre, anarchico di vecchio stampo, non lo avrebbe mai perdonato: non per le rapine in banca, ma perché spendeva il denaro, invece di bruciarlo.
L’altra sua passione erano le evasioni dal carcere, appariscenti quanto inutili, se non per sollevare un po’ di fumo mediatico.
Si può vedere il film di Enzo Monteleone, “Ormai è fatta!” (1999), con Stefano Accorsi, Francesco Guccini, Alessandro Haber. Grazie al successo della pellicola, Fantazzini, che aveva famiglia, era laureato, scriveva poesie ed era un genio in informatica, riusciva a ottenere periodi di semilibertà (aveva accumulato condanne fino al 2019).
Compì l’ultima rapina a Bologna. Fuggito in bicicletta si sentì male e morì in una caserma dei carabinieri.
Fra le numerose prigioni frequentate non mancava quella di Sulmona, dove, il 9 maggio 1974, mise in atto la sua seconda evasione (dopo Fossano). Saltò un muro alto cinque metri e, con un piede fratturato e il busto ingessato, si trascinò fino alla chiesa più vicina.
Era parroco don Mario Setta, un prete considerato scomodo, perché, tra l’altro, si era pronunciato per il “no” nel referendum sul divorzio di quei giorni.
Su una parete della canonica aveva scritto un brano dei “Miserabili” di Victor Hugo: “Questa casa non è mia, ma di Gesù Cristo, e la sua porta non domanda mai il nome a chi la varca, ma se ha un dolore. Voi soffrite, avete fame, freddo, siate dunque il benvenuto. E non mi ringraziate e non ditemi nemmeno che vi ho ricevuto in casa mia, perché nessuno, all’infuori di colui che ha bisogno, può dire di essere davvero in casa propria. Sicché voi, che siete di passaggio, siete qui in casa vostra più di me stesso e tutto ciò che vi si trova è vostro. Che bisogno ho io di sapere il vostro nome? Prima ancora che me lo diceste, ne avevate già uno che io conoscevo. Vi chiamate mio fratello”.
L’evaso scongiurò don Mario di trovargli un rifugio e di non tradirlo. Il sacerdote lo nascose in soffitta per brevissimo tempo. La chiesa era circondata, erano arrivati i tiratori scelti. Si temeva una tragedia. Lo stesso papa Paolo VI era tenuto al corrente della situazione. Poche ore dopo vi sarebbe stato un altro tentativo di evasione dal carcere di Alessandria, che si concluse con sette morti (cinque ostaggi e due detenuti) e sedici feriti.
A Sulmona si evitò lo spargimento di sangue. L’evaso cedette solo alle parole del parroco e si arrese. Passò più di un anno. Alla fine del 1975, il procuratore della Repubblica di Sulmona (che divenne poi pretore di Atri e Notaresco) rinviò don Mario a giudizio per violazione dell’articolo 378 del Codice penale (favoreggiamento).
Fantazzini scrisse al sacerdote e gli offrì il suo avvocato, ne aveva uno di riserva: “Il mio è un amico e sarebbe sicuramente felice di difendere te piuttosto che me in questo processo. Sono certo che gli interesserebbe moltissimo sviluppare innanzi ai giudici il concetto della lotta fra dovere morale e dovere civile. Le nostre leggi vengono applicate con principi meccanici, che scattano senza tenere in considerazione le motivazioni umane, che sono all’origine di azioni ritenute reati. Il procuratore, che ha condotto l’istruttoria, non ha voluto confrontare la fredda realtà di un articolo del Codice con la calda presenza del problema di coscienza improntato a umanità, preferendo rinviare la decisione a un tribunale. Ho di te un ricordo bellissimo e io, che non sono credente, vorrei che ce ne fossero tanti di preti come te, che, più che per la bellezza dell’aldilà, sono disposti a battersi, affinché il contenuto sociale presente nell’insegnamento del Cristo possa realizzarsi nell’esistenza terrena di ogni creatura umana”.
Il processo a don Mario iniziò il 15 gennaio 1976 e si concluse lo stesso giorno. Con un non luogo a procedere.
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