Il Critico Condotto – Simone Gambacorta
LETTURE DI POESIA

Tra Robertetti e il marziano di Flaiano, le letture di poesia che vivono in noi.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedě, 18 Dicembre 2025 - Ore 14:45

“Parlo del vizio di leggere o di recitare ad altri i componimenti propri: il quale, essendo antichissimo, pure nei secoli addietro fu una miseria tollerabile, perché rara; ma oggi, che il comporre è di tutti, e che la cosa più difficile è il trovare uno che non sia autore, è divenuto un flagello, una calamità pubblica, e una nuova tribolazione della vita umana”.

(Leopardi, Pensieri, XX)


Il problema non sono le letture di poesia in sé, ci mancherebbe altro, se mi capita di poter ascoltare un poeta leggere le sue cose lo ascolto ben volentieri e mi sento anche fortunato nel poterlo fare. 

Mi è capitato con nomi alti, De Angelis, Baìno, Conte, Anedda, Ottonieri, Bre, D'Elia, Ceni, Grunbein (mi limito a questi) e ho ringraziato il cielo, in verità ho chiesto anche che Dio li benedicesse per come con quelle loro parole rassodavano la mia presenza nel mondo. 

Il problema, come dice Leopardi, che però lo diceva già parecchio tempo fa, quindi figuriamoci come siamo messi oggigiorno, tanto più che lui era Leopardi (altrimenti detto "il" Leopardi), è che "il comporre è di tutti", il che sta a significare che il primo che al mattino si sveglia con un piglio vagamente più lirico del solito si mette lì ed evacua.

Questo fenomeno si propaga ed è un letame che non concima nulla e purtroppo da quando ci sono i social è diventato un nuovo modello di conformismo. Nei casi più smielati, per nulla radi, si dà come un emporio del nobile sentire, o di un sentire che ostenta la nobiltà in saldo dell'affanno: quanto di peggio esista.

Siamo, leopardianamente, proprio a “un flagello, una calamità pubblica, e una nuova tribolazione della vita umana”.

Il problema allora è uno: capire se si considera la poesia una cosa importante oppure un passatempo. 

La cosa è stata stigmatizzata in “Un marziano a Roma” da Flaiano col suo modo sornione e salace. 

Nella commedia, a un certo punto Adriano si mostra affranto da un cruccio che lo affligge: lamenta di non riuscire a scrivere dei racconti, cosa che invece molto gli aggraderebbe se solo alla prova del nove gliene venissero fuori di potabili; al che Anna, di rimando (per rinfrancarlo, per sollevarlo d'animo), gli fa una domanda che sibila come un’esortazione e che credo racchiuda un mondo: “Perché non tenta la poesia?”.

Senza saperlo, Anna è andata a meta: la poesia serenamente ridotta a ripiego, a seconda possibilità. La battuta ha molto a che fare con i nostri tempi, in particolare con quell'atteggiamento in base al quale il verseggiare diventa un’opzione del velleitarismo di chi anela a un qualche appagamento di facciata.

Oggi, nei sottoboschi di certo poeticume, questo succede ahimè a livello di vertigine inflattiva. 

Si sono creati tanti antri, tante anse, tante aree di risulta, ciascuna delle quali funziona come una specie di piccolo mercato unico del baratto, cioè si sta lì, ci si legittima a vicenda (perché si è riconosciuti nel proprio status in quanto si riconosce l’altrui) e ci si appaga vicendevolmente con lo scambio della monetina dell’ascolto, dell’applauso, della considerazione, complici magari un’insalata di riso, un tramezzino, uno spumantino.

È tutto un cin-cin di portentose e formidabili voci, con il paradigma della riunione condominiale che diventa buono anche per chi solo il giorno prima ha scoperto la febbre del cosiddetto fare cultura ovvero ha riscoperto la propria indole sensibilissima e faconda.

Non si tratta solo di situazioni che abbiano a che fare con le letture petulanti, ma anche con i premi, le presentazioni di libri e così via per le tante altre possibilità circensi (con rispetto per il circo). 

A quanto apprendiamo da Leopardi l’andazzo - variante più variante meno - è risalente, non è cosa della sola nostra epoca. Amen.

In un suo libro (ora non ricordo quale) Marco Lodoli racconta che da insegnante una volta gli capitò una situazione alla Orfeo. Aveva una classe di molto baccano e il solo modo per placarne gli scalmanati puledri era che  leggesse loro ad alta voce poesie di grandi autori. 

È una delle testimonianze più importanti che possano addursi a illustrazione di cosa sia la poesia. Se il dilettantismo di molti reading et similia non è un reato, essere Brunello Robertetti è un altro paio di maniche. 

Credo che tra i molti geniali parti della satira di Guzzanti, la figura di Robertetti  sia fra quelle più anticipatrici e diagnosticamente precise. 

Robertetti è un sedicente poeta, inascoltabile e imbecille (per quanto, in certa maniera, simpatico), ma quello che è importante dire è che con la sua caricatura Guzzanti ha denunciato comicamente l’avvento del primato dell'immagine anche nell’ambito della poesia. 

Non è un caso che questo pupazzo umano esista nella dimensione della maschera televisiva: attraverso lui, l’immagine di un medium parla di una nuova forma dell’immagine sociale: quella del poetoide.

Non va dimenticato che, televisivamente parlando, Robertetti è figlio di quella “parodia sulla tv” di cui, a proposito del precedente “Pippo Kennedy Show”, parla Aldo Grasso nella “Storia critica della della televisione italiana”. 

Con i social abbiamo assistito e assistiamo alla moltiplicazione dei Robertetti: il poetoide è un tipo dotato di una sua specificità e la sua non-voce è una delle “neolingue” della simil-poesia odierna.

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