Umanità e Arte
PIERO CIAMPI: HA TUTTE LE CARTE IN REGOLA PER ESSERE UN ARTISTA…

Omaggio a un artista che forse non ne vorrebbe, ricordando una bella serata al Nome della Rosa.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Lunedì, 21 Gennaio 2008 - Ore 11:00
Piero Ciampi
Nota Biografica di Giuseppe De Grassi contenuta nel doppio CD.

“ho trovato una nave che salpava ed ho chiesto dove andava. Nel porto delle illusioni, mi disse quel capitano ...”

Sono versi tratti da “Livorno”, una delle più belle canzoni di Piero Ciampi.
Versi amari e, al contempo, ironici. Come amara ed ironica è stata la vita stessa del poeta-cantautore livornese.
Piero Ciampi è stato un personaggio anomalo nel panorama della canzone d’autore italiana. Uomo singolare e al di fuori da ogni tecnica di sopravvivenza. Grande bevitore.
Soprattutto un poeta.

Ha cantato - con l’ironia propria di chi non ha nulla da perdere - il tragico quotidiano, ma sempre tingendolo di paradossale. Quel tragico che - come dirà Cesare G. Romana - “diventa motore dell’esistenza”. Sempre sostenuto da un largo sorriso: quello di chi può prendere a pugni la vita ben sapendo di non farsi comunque troppo male.
“Ha tutte le carte in regola per essere un artista. Ha un carattere melanconico, beve come un irlandese ...” scrive di se stesso in una delle sue canzoni più famose. E ancora, in una poesia pubblicata postuma: “amo gli ulivi perchè danno l’olio ed i vigneti perchè danno il vino. La ragione è questa:l’olio lo uso con i pomodori ed il pane ed il vino lo bevo... Ecco questo sì:ho solo la faccia di un uomo... Dove voglio arrivare? Ad essere in pace: Per questo e sia ben certo, il mio metro quadrato è sacro”.
Misconosciuto dal grosso pubblico, anche perchè volle sempre rimaner fuori da certi stritolanti meccanismi di mercato (la prima volta che arrivò in Rca, presentato da Gino Paoli, firmò il contratto, intascò l’anticipo e sparì per alcuni anni, forse a cercare una moglie irlandese, sposata troppo in fretta e troppo in fretta scappata con un figlio da quella vita troppo bohemienne).

Piero Ciampi è morto di un cancro alla gola il 19 gennaio 1980, fallendo in qualche modo - e forse è stata l’unica sconfitaa a cui non s’era preparato - la morte per cirrosi epatica a cui s’era scientificamente preparato, lasciando solo una manciata di canzoni che comunque entrano di diritto nella storia nobile della nostra canzone d’autore, e di cui questi CD vogliono essere fedele e commossa testimonianza.

Perchè Piero Ciampi ha lasciato anche, soprattutto in quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, un grande rimpianto: a suo modo è stato un protagonista della cultura romana degli anni settanta. Perché poi, tutto sommato, l’universo canzona a Ciampi stava molto stretto. Ad una domanda di Lia Agostini che gli chiedeva: “Ma cosa c’entra un tipo come lei con la canzone italiana?”, lui rispose: “Che cosa c’entra con me la canzone italiana, semmai”.

Beffardo, innocente, incredulo, veloce, magico, paterno (così almeno lo ricordano gli intimi), Piero è stato soprattutto un artista amico di artisti, un intellettuale spesso spesso e fuori luogo, ma di un assoluta vitalità. Ecco: sfatiamo subito il mito del Ciampi triste. L’uomo amava la burla, lo scherzo spesso pesante, lo sfottò tagliente di chi sa, comunque, di essere superiore. Tanto la vita è una cosa che prende, porta e spedisce.
Amico di Carmelo Bene, di Mario Ceroli (al quale dedicò una stupenda poesia: Se quella sega elettrica con la quale crei i miti attrae a sé come una calamita la mia carne ... penso che un giorno le affiderò il mio corpo), di pittori come Mario Schifano, Aldo Turchiaro e Giulio Turcato di scrittori come Giancarlo Fusco e Ugo Pirro, Ciampi riassume in sè tutte le inquitudini della generazione del dopo-guerra. Il suo è un canto amaro, dolentemente naif. E’ “jazzman di vita spesa in eccesso” (Rodolfo Di Giammarco), “uomo di lacerante genialità (Gino Castaldo): l’impronta di un uomo e del suo doppio.

Ciampi è soprattutto un giocatore: ama i cavalli il vino e le donne. Vive una vita spericolata quando, questa, non era ancora di moda. Ad ogni cosa amata donerà dei versi, una fetta di vita. Molliche di pane su quella strada che, come dirà Francesco de Gregori, “porta ad una spianata da cui, con un po’ di fortuna, si possono vedere le stelle”.

Nato a Livorno, Ciampi non amò mai troppo la sua città, e probabilmente non ne fu amato, pur cantandola spesso, in una sorta di rapporto quasi edipico. Divene “marinaio” e la prima tappa fu logicamente Parigi dove, narra la leggenda, scriveva poesie sulle tovaglie di carta dei bistrò, frequentava Celine e cantava in tre locali a sera, a duemila franchi per locale. Si merita in breve l’appellativo di Piero L’italianò, pseudonimo che continuò ad usare, italianizzandolo, per le sue prime incisioni italiane.

A Parigi vive gli ultimi sgoccioli della mitica città degli anni ‘50, si stufa ben presto e ritorna in Italia, non senza aver fatto prima un largo giro europeo. Alla canzone ci arriva quasi per caso, frequentando qualche soffitta milanese (e sono deliranti storie di amori, di notti in bianco, di ettolitri di vino e sigarette spente sulla pelle nuda), diventando amico-nemico di Paoli e quasi fratello di Tenco. Chi lo trascinerà per i capelli nell’industria discografica sarà Gianfranco Reverberi, ex commilitone. Così nel 1960 incide il suo primo 45 a cui seguirà, tre anni dopo, il primo album.

“Conphiteor” e “Piero Litaliano” i rispettivi titoli. In mezzo alcuni singoli, fra i quali le quattro canzoni che aprono la nostra raccolta.
Il lancio di Piero Litaliano comunque fallisce ed il nostro preferirà vagabondare ancora un po’ dietro “le sue navi”.

Fallito il primo matrimonio, con relativo figlio; fallita la seconda unione, con relativa figlia; Ciampi risposerà definitivamente ed incondizionatamente la causa del vino, fino a celebrarlo pubblicamente nella canzone omonima. La donna diventerà una specie di rivale-amante-amata-odiata; razza pericolosissima, ma necessaria. Sarà buffa ed assomigliante ad un purosangue che non ha mai perso una corsa, regina avida ed incontentabile in “Te lo faccio vedere chi sono io”, altro se stesso in “Mia moglie”.

L’amore, per Ciampi, è quasi sempre una sconfitta, cosa da “palazzo di giustizia”. A volte esiste pure una parvenza di voglia di ricomiciare (ho chiamato una carozza che si porti via il passato), spesso è il gioco della pietà (tu no, tu non puoi andare via ... io non so più che fare, non capisco questa vita ... ) o della noia (uffa che noia la sera che cade, mi sembra uno squalo fra due margherite ...).

Nulla è codificato: Ciampi acceta e canta fino in fondo il “vizio di vivere”, ben sapendo di non avere alcuna chance. E’, lo dicevamo prima, un giocatore. Punta le sue fiches spesso sul cavallo sbagliato, altre volte straccia la ricevuta prima ancora di assicurarsi del risultato finale.
“Il giocatore è un mostro”, dirà ubriaco al Tenco ‘76, probabilmente la sua ultima apparizione in pubblico. “Gioca al mattino, al pomeriggio, alla sera: perde sempre, eppure ha sempre i soldi per giocare. Perchè ha sempre se stesso”. E ancora: “Io darei una pensione al giocatore, perchè è l’unico che ha capito come metterla in culo al denaro”.

Anche i suoi concerti sono una scommessa: spesso non si presenta proprio, altre volte finisce goliardicamente in una scazzottata. Comunque, in un modo o nell’altro, con l’inizio degli anni ‘70 sembra darsi una regolata, soprattutto dal punto di vista discografico. Fondamentalmente è l’incontro con Gianni Marchetti. “L’intesa artistica ed umana che ne nasce è incantata” scrive il critico Enrico De Angelis, “di quelle alla Chiosso-Buscaglione o Calabrese-Bindi, per non dire di Prevert-Kosma”.

“Gianni Marchetti ed io ci siamo conosciuti per uno strumento” dirà in una delle rare trasmissioni televisive a cui partecipò. “Se non ci fosse stato il pianoforte, questo pomeriggio, questa sera bellissima ... Avevamo bevuto una bottiglia di champagne, io e lui, tac tac, e non c’era nessuno. Ma se non ci fosse stato il pianoforte, non saremmo stati con voi”.

“Marchetti” dice ancora De Angelis, “rincorre con la musica le parole o gli accenni di Piero, oppure è Piero a inventare direttamente su una melodia che gli ha appena rubato”.

Ciampi si fa aiutare anche dal fratello Roberto e da Pino Pavone, ma è solo con Marchetti che trova la sua massima espressione. Gianni ricopre le parole di Piero con melodie soffuse, inserimenti jazzati, spazzole e rullante o liquide note di pianoforte, ma non disdegna i pieni orchestrali, gli andamenti a colonna sonora che lasciano immaginare quello che Ciampi non canta più. Prendiamo “A mia moglie”. All’inizio la musica è quasi inesistente, appena punteggiata dal pianoforte. Vi si narra di un abbandono e di un reincontro. Poi, alla fine, quando loro torneranno a casa assieme, la melodia diventa ampia, maestosa, quasi classica: ritornano alla mente gli echi e gli odori di una strada di Livorno - e chi conosce un po\' la città labronica sa che vogliamo dire. O si prenda ancora “Momento poetico”, brevi poesie recitate sulla musica di Marchetti.

Musica che è jazz: delicata come una brezza estiva. In tutto questo, la voce di Ciampi. La voce, si badi bene, non il canto. Ciampi vive le sue canzoni, non le interpreta. A volte è sussurro, a volte sarcasmo. Sempre brivido. “Subito dalla voce” ha scritto Paolo Conte, “si capiva che era un uomo magro, probabilmente alto, di una razza non tanto facile da decifrare, di una stazza di centro iItalia non del tutto definita e codificata, di gente scomoda e comunque senza quartiere, gente sparata sui litorali e altre confusioni ...”.

Quando fa il sarcastico, Ciampi lo fa in maniera possente. La sua voce di carta-vetrata sfrigola ancora di più, come quando canta l’inno dei “senzastoria” come in “Andare camminare lavorare”, la sua canzone forse più politica. Oppure quando celebra il suo “Adius” (una delle canzoni inedite di quest’album), dove l’amore che non lo vuole più è mandato cortesemente “affanculo” assieme agli intellettuali ed ai pirati. Del resto con gli intellettuali - quelli paludati - ce l’avrà sempre. Disprezza Moravia e si considera un grande poeta. Anzi: il Poeta.

Irascibile, violento, polemico, non è mai riuscito ad integrarsi in qualche ruolo. Figuriamoci in quello del cantante. Anche i suoi pochi dischi sono da attribuirsi più a Marchetti che a lui.
Eppure la Rca, nel 1970, lo mette in condizione per una grande lancio: un album di stampo trionfalistico, accompagnato da un volume di grande formato con testi, poesie e 21 tempere di un pittore calabrese suo amico: Aldo Turchiaro.

Continua a frequentare gli artisti: spesso mangiano cibo per gatti; molte volte bevono soltanto. Di Giulio Turcato dirà che è “uno degli orgogli della nostra cultura”. Con Carmelo Bene si impegnerà in interminabili partite a dama che sfoceranno inevitabilmente in grandi scazzottate.

Non sopporta i suoi colleghi e da loro è ricambiato. Al Club Tenco, dopo anni in cui la sua partecipazione consisteva in un laconico telegramma (quando si ricordava di spedirlo) in cui si dispiaceva di non poterci essere, minaccia una mezza rivoluzione perchè non vuole assolutamente esibirsi prima di Roberto Vecchioni. “Io sono un grande”, ripete spesso.

Sale sul palco a base già partita, evidentemente ubriaco e lascia agli increduli testimoni una grande lezione di arte. Improvvisa le parole, ma non esce mai dall’inciso musicale. Qualcuno lo fischia: lui gli consiglia di comperarsi un sassofono. Continuano i fischi e lui invita il “merlo” a salire sul palco e ad avere rispetto: “Perchè io rischio e tu no”. Poi sorride e lo invita a non prendersela.

Gli ultimi anni li vive completamente avulso da ogni contesto di lavoro. Vive in una casa senza luce, né gas, né acqua, né telefono, preferendo comunque e sempre l’osteria, dove incontra il suo pubblico vero. Ormai sa di non avere più nulla da perdere. Sa d’essere arrivato al capolinea, anche se non è proprio quello che lui voleva. “La morte mi fa rabbia perchè non la posso fregare” ripeteva spesso, e un tumore sconfisse anche la leggenda del suo “Non Dio, decido io”.

Il fratello Roberto lo ricordò con queste parole: “Quando cantò non ebbe incertezze. Vivendo non ebbe dubbi. Prima di lasciarci chiese un fiore ed un bicchiere di vino fresco”.

Noi con questo CD, sperando possa servire a rompere quel “silenzio che non fa onore a nessuno” e che possa ancora insegnare a qualcuno, come fece con Pino Pavone, che “la Calabria è un’isola, l’Irlanda un paradiso, l’America non c’è più, le donne sono dei cavallini e un poeta va spesso a cena sulle stelle”.

Crediamo sia il modo migliore per ricordalo e per raggiungerlo, proprio là, su quella spianata da dove si possono vedere le stelle.


Piero Ciampi
Versi

E l’amore che cos’è? L’amore viene
dal basso, dalle stature. Per questo
canto i miei figli. Quanti ne ho? Non lo
so. Per me sono tutti uguali. Amo tutti
voi, tutti. Canto l’innocenza.


Solenne
la sera
mi scoprì
furenteproteso
a sverginare
una stella


Il mare
al tramonto
salì
sulla luna
e senza appuntamento
dopo uno sguardo
dietro tendine di stelle
se la chiavò.


Che cosa
non è possibile
ad un poeta?
Non dico
al poeta.
Ad un poeta.
Così
tutti gli altri
sono un poeta.
E posso riposare.


quanta gente
d’intorno
che non ci ama.
Gianni
quanta gente
che ci ama
e non può
raggiungerci.
(Lettera a Gianni Marchetti)


Piero Ciampi
Nota al doppio CD dell’opera omnia

“L’assenza è un assedio”. Quanto più vero di questa frase, specialmente pensando a Piero Ciampi.
Piero Ciampi canta perchè si sente braccato. Scrive poesie perchè deve sopravvivere anche alla sua autodistruzione. Ama il vino, le donne e i cavalli. Gioca con la sua vita come se ogni puntata fosse l’ultima e odia la morte perchè sa che è l’unica cosa che non può fregare.
Quando se ne andò a cenare su qualche stella - il 19 gennaio 1980 - lasciò un sorriso dentro l’anima di chi lo conobbe e una manciata di canzoni.
Alcune di queste si trovano in quest’album fatto, crediamo, con amore e una punta di dolce rimpianto. La scelta - come tutte le scelte - è estremamente soggettiva. Ci perdoni chi si sentirà in qualche modo defraudato per qualche mancanza.
Pensi soltando che “l’assenza è un assedio”. Anche per noi.


Stampato il 12-03-2025 03:06:03 su www.roseto.com