Roseto Basket Story
ROSETO-PALESTRINA: LA FINALE INVISIBILE (3/3).

Coach Piero Bianchi ci racconta in 3 puntate un pezzo di storia cestistica rosetana. Puntata 3 di 3.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Mercoledì, 14 Settembre 2011 - Ore 14:00
Puntata 1 di 3.
 
Puntata 2 di 3.
 
Il riscaldamento si svolse in un clima rovente, al limite dell’intimidazione fisica.
 
I dirigenti di Palestrina, correttissimi e preoccupati per quello che poteva accadere, avevano escogitato un sistema per stemperare gli animi: consegnarono ai nostri dei mazzi di fiori biancoazzurri (i nostri colori) legati con un nastro arancio-verde (i loro), per improvvisare una specie di gemellaggio. I nostri furono poi invitati ad andare a lanciare i fiori al pubblico, come segno di distensione. Una parola…
Ci provò coraggiosamente Di Biase, ma prima che riuscisse a lanciare il mazzo di fiori la gente dalla transenna per poco non gli saltava addosso. Esperimento fallito prima di cominciare.
 
Poi finalmente si giocò.
 
Non fatemi le solite domande che fanno di solito i giornalisti: qual è stata la carta vincente, qual è stato il momento della svolta. E’ passato tanto tempo.
 
Ricordo che Palestrina giocava molto il famoso “Attacco 5” di Bianchini per liberare un quarto di campo ai suoi esterni, ma gli uno contro uno di Tomassi e Barraco si infransero contro il muro dei nostri aiuti difensivi. Ricordo che dominammo a rimbalzo, con Sandro Fanna che resistette stoicamente al dolore per una caviglia gonfia come un melone. Ricordo che giocammo in attacco con una fluidità impressionante, altro che tensione da finale playoff. All’intervallo eravamo avanti di 8, all’inizio del secondo tempo (non c’erano ancora i quattro quarti) piazzammo un break terrificante e volammo a +17.
 
Feci quello che nessun vice allenatore dovrebbe mai fare: per qualche attimo persi il “contatto” mentale con la partita e mi sorpresi a contare i minuti sul tabellone, sperando che finisse presto. Ma tornai subito in me.
 
Il piano partita di Domenico Sorgentone era studiato nei minimi particolari. La squadra lo eseguì in modo perfetto. Palestrina era con le ginocchia a terra. Il pubblico schiumava rabbia. Realizzammo di aver vinto quando persino Aureli, lui che da fuori non segnava mai, mise una tripla. Mi sembrò persino di sentirlo sghignazzare: “La bomba…!”, col suo tipico accento pesarese.
 
Verso la fine Palestrina si riavvicinò, ma ormai era fatta. Mentre si giocavano gli ultimi, inutili spiccioli di partita pensavamo solo a come guadagnare gli spogliatoi. Intorno a noi centinaia di tifosi prenestini, in preda a furore cieco, erano in piedi a bordo campo, pronti all’invasione.
 
Palestrina segnò l’ultimo canestro, quello che fissava il punteggio finale sull’82-92 per noi, con un irreale 3 contro 0. La nostra metà campo difensiva era completamente vuota, perché noi già da qualche secondo stavamo raccogliendo tute e borse in panchina pronti a scattare verso il tunnel. Aureli mi urlava di tenere calmo Faraone. Al fischio finale, o forse qualche istante prima, sprintammo puntando gli spogliatoi.
 
E in quel preciso istante si scatenò l’inferno.
 
Vidi con la coda dell’occhio l’orda urlante che invadeva il campo. Misi la lavagnetta sulla testa e corsi più veloce che potevo. Sentii distintamente tre o quattro tonfi sordi sulla lavagna: in campo piovevano monete, accendini, persino bulloni. Di tutto.
 
I tifosi di Palestrina ci raggiunsero proprio all’ingresso del corridoio degli spogliatoi, scontrandosi coi carabinieri che proteggevano la ritirata. Qualcuno di noi era già dentro, altri no. Tra i ritardatari c’era Battista figlio, Dante, quasi circondato: lo salvò un ufficiale dell’Arma, strappandolo ai teppisti con una serie di mosse tipo arti marziali che non scorderò più finché campo. Mentre ero ormai nel corridoio vidi Matteo Fusco, il masseur, che era scivolato andando a sbattere sulla gabbia dei palloni. I prenestini gli erano già addosso per prenderlo a calci, tornai indietro e afferrai la sua mano tesa, trascinandolo via.
 
Fallito il primo assalto, un altro gruppo di tifosi tentò di raggiungere gli spogliatoi passando dall’ingresso opposto. Per fortuna la porticina era stretta, ci passava una sola persona per volta: l’incauto che provò a entrare per primo si trovò di fronte i 100 chili di muscoli di Maurizio Palermo, che gli sferrò un destro in pieno petto facendolo volare indietro. Con l’aiuto dei dirigenti di Palestrina ci barricammo dentro. Ci contammo. Eravamo tutti, tranne qualche graffio stavamo tutti bene.
 
Badammo a stare lontani dalle finestre, fuori quelli che avevano promesso sassate stavano mantenendo la parola. E ci abbracciammo, e urlammo, finalmente, pazzi di gioia.
 
Rimanemmo dentro alla palestra, assediati, per più di tre ore. Per i giocatori la doccia fu inutile, tra vapore e finestre chiuse la temperatura nello spogliatoio era equatoriale. I dirigenti ospiti ci fecero salire al piano di sopra, dove avevano la sede. E lì aspettammo che arrivassero i rinforzi per consentirci di uscire. Il problema era rintracciare Giovanni l’autista, che prudentemente aveva portato il pullman chissà dove. Con noi c’erano anche gli arbitri. Uno dei due, Garsia di Modena, aveva una smorfia di dolore sul volto e zoppicava. Non era scappato abbastanza velocemente.
 
L’allenatore di casa, Beniamino Scarinci, era affranto. Non solo per il risultato, anche per l’invasione di campo, l’aggressione ad arbitri e squadra ospite e l’assedio, che avrebbero avuto conseguenze gravissime sul piano disciplinare. Ma lealmente si complimentava con noi. Ho saputo qualche tempo fa che è morto prematuramente. Era un grande gentleman.
 
Finalmente arrivò altra forza pubblica. Ormai era buio pesto, ma i tifosi più esagitati erano ancora là fuori ad aspettarci per regolare i conti. Ci dissero di scendere. Fuori c’erano tre cellulari dei carabinieri che ci avrebbero portati via. Protetti da un’intera squadra in assetto antisommossa salimmo in fretta sui furgoni, mentre gli assedianti ci urlavano che non finiva lì e che ci avrebbero inseguiti fino in capo al mondo.
 
I cellulari imboccarono sgommando una stradina sterrata. La percorremmo a tutta velocità, rischiando di schiantarci a ogni curva. Sarebbe stato il colmo se ci fossimo procurati in un incidente quello che avevamo evitato al campo di gioco. Capimmo che i carabinieri volevano far perdere le nostre tracce, per non far intuire ad eventuali inseguitori dove eravamo diretti.
 
Ci portarono alla stazione dei carabinieri di San Cesàreo, paese a una decina di chilometri da Palestrina. Lì avevano scortato anche il pullman e l’autista. Ritrovammo Gianni Vincenti, che all’arrivo ovviamente aveva evitato di entrare in palestra insieme alla squadra. Si era presentato da solo e aveva guardato la partita indisturbato, nessuno lo aveva associato a noi.
 
In caserma cominciarono ad arrivare le telefonate da Roseto (in Italia non esistevano ancora i telefonini cellulari). Romano Chiappini e Vittorio Fossataro, trepidanti, si informavano sulle nostre condizioni di salute. Il risultato lo conoscevano. Aureli da Capitano andò a parlare al telefono con i dirigenti. Tornò nella stanza (senza sedie) dove eravamo accampati e riferì: “Mi ha detto Fossataro che è giù da noi è un tripudio, cortei di auto a clacson spiegati, bandiere, Roseto sembra Rio de Janeiro”. I ragazzi si guardarono: reduci da una fuga avventurosa per le campagne laziali, stanchi, sudati, sdraiati per terra con le borse come cuscino, ancora senza cena. Altro che carnevale.
 
A notte fonda potemmo finalmente riprendere la via di casa. Ma i carabinieri ritenevano che il pericolo di inseguimenti e agguati al pullman non fosse del tutto scongiurato. Così ci scortarono fino al casello e anche per un tratto di autostrada. Sapevamo che i nostri tifosi ci avrebbero atteso all’arrivo, per festeggiare. Così la mente diabolica di Antimo Di Biase escogitò uno scherzo micidiale, che trovò subito la complicità di Matteo Fusco. Il buon masseur tirò fuori fasce e cerotti e… ci truccò tutti da reduci del Vietnam: chi col braccio al collo, chi con le bende in testa, chi coi cerotti in faccia, mancavano solo le stampelle. Sembrava che ci avessero suonati come le zampogne.
 
I tifosi, generosissimi, invece di aspettare a Roseto ci vennero incontro fino all’uscita dell’autostrada a Val Vomano, portando pizza e birra per rifocillarci. All’arrivo del pullman esplosero in un boato. Ma l’urlo “Ro-se-to” gli si strozzò in gola. Il primo a scendere fu Willy Battistoni, tutto bendato e zoppicante. Poi lentamente tutti gli altri, fasciati e incerottati. “Madonna - mormorarono gli ultrà, quasi sotto shock - li hanno massacrati…”.
 
Lo scherzo durò giusto qualche secondo. In un lampo bende e cerotti volarono in aria tra l’ilarità generale… I 10 eroi che avevano fatto l’impresa si concessero all’abbraccio della gente, ridendo e cantando. Poi si lanciarono sulle pizze.
 
A Roseto i festeggiamenti durarono settimane, tra cene ufficiali, partite celebrative, premiazioni da parte di Comune, Provincia e Regione. Le formalità non finivano mai. Però l’abbraccio coi tifosi che ci avevano portato da mangiare all’uscita dell’autostrada rimase il momento più bello e più autentico.
 
Le celebrazioni ufficiali e le medaglie ricordo non ci facevano dimenticare com’eravamo partiti nove mesi e mezzo prima: in ritiro a Isola del Gran Sasso con la squadra ancora incompleta, circondati da scetticismo e indifferenza, col solo Giovanni Giunco che credeva fermamente nel suo progetto.
 
La “finale invisibile”, oltre a portare Roseto in B1, ebbe anche un altro effetto: unì strettamente tutti noi che l’avevamo vissuta in una sorta di magia destinata a durare per sempre.
 
Anni dopo Raffaele Battista, orgogliosamente, ancora mi diceva: “Ricordati Pietro, noi siamo quelli di Palestrina”. 






Stampato il 04-19-2024 15:06:23 su www.roseto.com