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Libriamoci [invito alla lettura]
ROSETO, DOVE ANCHE I SASSI HANNO UN’ANIMA.
La copertina del libro di Italo di Antonio, intitolato ‘Na scafàtt d’ pallun e pubblicato nel 2004.

Italo Di Antonio, nel 2006.

Annullo filatelico dedicato nel 2015 a Remo Maggetti.

Il contributo di Enrico Campana al libro del compianto Italo Di Antonio intitolato ‘Na scafàtt d’ pallun e pubblicato nel 2004. Si parla di Remo Maggetti, Italo Di Antonio e... dell’anima dei cutarule.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Lunedì, 16 Settembre 2019 - Ore 17:00

[Pagine 8, 9, 10, 11.]

L’ANIMA DEI “CUTARULE”
La fortuna dei rosetani è di avere l’anima a domicilio, e di vivere secondo un destino da Cincinnato in ogniquasivoglia attività. Vanno, vengono, rivanno ma alla fine tornano sempre a casa, scaricando sulla loro bella spiaggia il loro vissuto ma senza boria.
Questione di radici, di cultura etnica, che li fanno assomigliare a bergamaschi di mare. Capaci di tirar fuori col lavoro e l’ostinazione un fiore (la rosa, appunto) anche dai sassi.
Esploratori, navigatori, conquistatori capaci di andare e fare fortuna oltre le Colonne d’Ercole per tornare e vestire i panni umili dei pescatori, o del contadino che toglie l’erbacce, rassoda la terra, coltiva l’orto. Insomma, quel che si dice il saper vivere una vita semplice e onesta.
Ne parlo – avrete capito – forse più con amore che con cognizione di causa, e per rispetto e ammirazione di alcuni personaggi rosetani che si sono intrecciati nella mia carriera giornalistica e vi hanno lasciato un segno, un ricordo, un esempio. Queste mie poche righe le dedico a loro, con gratitudine.
La prima dedica è per Remo Maggetti, irsuto folletto della prima Ignis, quella di Giovanni Borghi “Anni Sessanta”.
Avevo poco più di 15 anni, scrivevo articoletti per il giornale varesino che sarebbe diventato il mio trampolino di lancio verso la Gazzetta dello Sport. Arrivavo agli allenamenti 10 minuti prima dell’inizio, per cercare di diventare il beniamino del gruppo. Il riscaldamento era tutto lazzi e frizzi... I giocatori “gialloblù” scendevano dalle scale della palestra dei Vigili del Fuoco rumorosamente. Il primo a sbucare dalla porta a vetri era sempre il Remo. Mi si parava di fronte con le sue sopracciglia cespugliose fingendo, ogni volta di minacciarmi. Ripeteva sempre, in slang, “chettescriv? Attint!...”. Non potevo fare a meno, capita l’umanità del soggetto, di trattenere il sorriso.
Successivamente ho conosciuto, in uno dei miei viaggi di inviato della rosea a Rieti, Italo Di Antonio.
Accettava di buon grado d’essere la fidata spalla a Elio Pentassuglia, uno dei grandi istrioni del basket. Sulla scia di Rubini, colui che si definiva “o principe o padrino”, costruì la sua fortuna sulla conoscenza della persona, l’intuito, il senso pratico, i fondamentali e non sugli schemi, le alchimie, l’appartenenza ai clan. Ma anche sulla bravura e l’onestà dei collaboratori. Se aveva un vice schiappa, o infedele, il Penta incappava in un’annata storta, se il vice era di valore poteva fare la ruota...
Italo era uno spilungone educato e un po’ timido, con gli occhi liquidi, che parlava, seppur più erudito, l’abruzzese colorito del vecchio Remo. Mi raccontavano che Brunamonti e Zampolini li aveva costruiti lui, che passava al penta i giochi vincenti per la partita di domenica. Terminata la partita, desideravo scambiare quattro chiacchiere per conoscerlo meglio in quanto portava nel basket una ventata di moderno tecnicismo,  di nuova cultura, ahimé così distante dalla generazione successiva, quella degli anni 90, dei coaches (non più allenatori) iconoclasti (che hanno fatto sloggiare Bianchini in libreria, Peterson al wrestling e così via...).
Erano e sono i tecnici che dominavano la scena, quelli “geneticamente modificati”, bravi copisti o scopiazzatori delle pubblicazioni americane che Valerio Bianchini, il Vate, definitva umoristicamente i Gremlins, piccoletti brutti e cattivi capaci di infilarsi nello scarico del w.c.
[...]
A fianco di Italo, paziente, bravo ad ascoltare, mi sono provato a recitare la parte della firma di una volta, ho costruito tesi ardite, mi sono inventato visioni ad arte per cercare di essere al suo pari, o di scalfire la sua natura di saggio.
Non ha bisogno di essere incensato, ho sempre detto a tutti, e confessato e ripetuto più volte anche a lui personalmente che “negli Usa un personaggio del calibro di Di Antonio sarebbe stato fra i 10 migliori allenatori di college, con uno stipendio da un milione di dollari all’anno, e non un dirigente CONI”.
Spero di non averlo ferito, non volevo con queste parole dargli del fallito, poiché al tempo stesso un fallito sarei anch’io.
Nel scrivere queste cose, dalla finestra del mio studio solatìo rivolto a Est, arriva un refolo salmastro. Arriva probabilmente proprio da Roseto, e nel capo si mettono a girare vorticosamente i ricordi delle belle pagine scritte da Aldo Giordani sulla favola rosetana, sul colonnello Anastasi, su Giunco, su D’Ilario, sui tornei estivi, gli americani di Jim McGregor. Rivedo il campo delle Quattro Palme, l’Italia di Primo che batte gli imbattibili sovietici, capisco perché Roseto sia stata e semrpe sarà l’isola felice del nostro basket (o la Neverland?).
Non sapevo che Italo, mezzo architetto e mezzo coach, avesse deciso di trasformarsi anche nella memoria storica della sua città. Il computer mi impedisce di decrittare tutti i megabytes del suo libro, forse è meglio così. Leggerò il libro quando andrà alle stampe, sicuro che avrà fatto capire al colto e all’inclita il fenomeno sociologico derivante dalle imprese degli eroi della palla a spicchi.
Mi permetto di dare un piccolo disinteressato consiglio per la razza padrona del basket, quella che scambia per cultura il più piccolo passaggio TV, a non considerare questo libro puramente d’interesse locale, ma come un recupero storico. Esercizio utile a tutti, a cominciare magari proprio da loro visto in quanto nel basket sono apparsi come marziani.
Leggendo la storia di Roseto, poi, forse a qualche piccolo centro verrà voglia di imitare il suo modo d’essere, partecipativo, culturale, sociale, attraverso il balletto della cosiddetta palla a spicchi da mano all’altra. Sia bianca che nera.
Se mi inviteranno all’uscita del libro, passerò volentieri i Sibillini non senza infilarmi nelle tasche, per scagliarli contro gli insensibili, alcuni di quei sassi somiglianti a sculture – ovuli, punte di lancia, biscotti, pagnottelle – e che la spiaggia di Roseto di regala appena sorge il sole assieme a una distesa di conchiglie.
Li ho raccolti nel mio ultimo giorno di lavoro per il tennis, avvenuto proprio a Roseto, in un’alba incantata di dicembre del ’99. “Da oggi cambio vita – mi dissi – spero mi insegnino a vivere rosetanamente, senza rimpianti per la ribalta, con i valori delle cose semplici”.
Quelle pietre sono disseminate un po’ qua e un po’ là, nel mio giardino in Toscana. Servono per farmi ricordare Roseto, dove anche i sassi hanno un’anima.

Enrico Campana


Italo Di Antonio
‘NA SCAFÀTT D’ PALLUN
(Un cesto di palloni)
Brevi episodi di una lunga storia di pallacanestro a Roseto degli Abruzzi
L&V Abruzzo Editoria 2000 – Giugno 2004 – Pagine 160.

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