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Sabato, 20 Aprile 2024 - Ore 8:50 Fondatore e Direttore: Luca Maggitti.

Emanuele Di Nardo
Una volta fratelli: il basket e la crisi della Jugoslavia
MESSICO 1968: IL BOOM DEL BASKET JUGOSLAVO ALLE OLIMPIADI.
Ranko Zeravica, coach della Nazionale maschile di pallacanestro che alle Olimpiadi di Messico 1968 prevalse in semifinale contro la favorita Unione Sovietica (65-50) e perse con onore in finale contro il team USA.

Mate Parlov, pugile ex jugoslavo dalla carriera costellata di successi: unico pugile nella storia ad aver vinto tutti i titoli sia da dilettante sia da professionista nonché il primo pugile dei paesi socialisti a diventare campione del mondo. Venne eletto il più grande sportivo croato del XX secolo.

Le Olimpiadi di Messico 1968 rappresentarono una svolta per gli sportivi jugoslavi, capaci di catalizzare l'attenzione dei propri connazionali mentre la situazione politica interna viveva una fase non proprio rosea.

La tesi di laurea, a puntate, del giovane addetto stampa della Teate Basket Chieti. Puntata 2.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 14 Novembre 2019 - Ore 19:00

I.2: Fratellanza e unità

Unità e sport, due concetti per molti versi complementari, si dimostrarono fondamentali anche durante la lotta per la liberazione del popolo jugoslavo dal giogo nazista e fascista: per l’appunto i leader partigiani misero lo sport al servizio della guerra e della creazione della nuova nazione unita sotto il vessillo del PCJ. Ad esempio i membri dell’Hajduk Spalato (squadra di calcio della Dalmazia) furono tra i primi martiri partigiani catturati dai fascisti italiani e giustiziati nell’estate del 1941. Durante il periodo “italiano” a Spalato, furono esercitate forti pressioni per far includere nei campionato italiani le varie squadre spalatine. Per comprendere quanti furono gli sforzi profusi basti leggere il “San Marco”, quotidiano di Zara trasferito nel 1941 a Spalato. Il 29 aprile 1941 venne pubblicata la notizia relativa alla volontà della Federcalcio italiana di includere la squadra dell’Hajduk nel campionato italiano di Prima divisione. Si faceva notare che c’era pure parecchio tempo a disposizione per organizzarsi a puntino visto che il campionato doveva iniziare appena ad agosto. Alla fine l’iniziativa naufragò miseramente (1). I membri dell’Hajduk, pertanto, decisero di disertare il campionato e entrarono a far parte della resistenza. Per questo motivo furono tra i primi martiri partigiani catturati dai fascisti italiani e giustiziati nell’estate del 1941.

Nel nuovo Stato, gli atleti selezionati per la squadra nazionale venivano celebrati dalla stampa come “gli ambasciatori dello sport” della nazione ed il loro status sociale, nonostante le ristrettezze economiche del sistema socialista, prevedeva per loro una serie di benefici. Dragutin Šurbek, giocatore di tennis da tavolo jugoslavo e pluricampione della disciplina (due ori ai Campionati del Mondo e cinque ai Campionati Europei, oltre alle innumerevoli medaglie d’argento e di bronzo), dichiarò negli anni Sessanta che i migliori atleti della Jugoslavia comunista ricevevano il doppio del salario medio ed altri onori, tanto immobiliari (ville, appartamenti, licenze commerciali) quanto economici (prestiti e pensioni). I membri della squadra nazionale indossavano sulle loro divise lo stemma federale che simboleggiava il potere della sinergia multinazionale o anche il lavoro di squadra fraterno attraverso le sei torce accese (a testimoniare le Repubbliche federali) le cui fiamme convogliavano in un unico fuoco potente, la Federazione stessa (2).

Nonostante alcune manifestazioni nazionaliste nelle arene sportive da parte di gruppi etnici che disprezzavano il sistema comunitario, la struttura multietnica della squadra nazionale federale ed i trionfi internazionali hanno sostenuto il nazionalismo ufficiale che enfatizzava la potente sinergia delle popolazioni jugoslave. Utile per comprendere quanto l’orgoglio patriottico jugoslavo fosse permeato nel cuore degli sportivi, riporto le parole di uno dei massimi rappresentati delle eccellenze sportive jugoslave ovvero Mate Parlov, ex campione olimpico, mondiale ed europeo di pugilato al punto da essere stato premiato come il più grande sportivo croato del XX secolo:

Almeno una dozzina di volte ho avuto il privilegio di posare con fierezza di fronte al mondo, rappresentando il mio Paese dato che l’inno nazionale jugoslavo veniva eseguito in onore della Jugoslavia e del mio trionfo sul ring. Come jugoslavo, ho battuto i russi, gli statunitensi e tutti gli altri ed il mondo intero ne è stato testimone. Quando stavo ascoltando “Hey Slavi” in piedi sul podio del campione, i miei occhi erano sempre pieni di lacrime. Quei momenti resteranno per sempre scolpiti nel mio cuore (3).

Ci si pone subito un quesito: per quale motivo il sistema sportivo jugoslavo ha prodotto una coscienza comune così radicata tra gli atleti delle varie Repubbliche, favorendo un’integrazione che, al contrario, non trova riscontro tra le rappresentative sovietiche dello stesso periodo storico? Il successo del programma socialista di Tito va rintracciato nel principio basilare della sua nuova ideologia patriottica, l’idea di “fratellanza e unità”. Nel mondo sovietico, sebbene la storia abbia celebrato a lungo i trionfi della nazionale di pallacanestro, in realtà la componente propriamente russa cercò di imporre il proprio controllo e la propria supremazia su un gruppo estremamente eterogeneo e dominato tecnicamente e sportivamente dagli atleti delle repubbliche baltiche, in modo particolare della Lituania. Non si trattò di una fusione dei vari elementi bensì di una convivenza non sempre pacifica, dettata solo dal desiderio della vittoria. In occasione delle Olimpiadi di Mosca 1980, i cronisti sportivi riportavano la notizia secondo la quale la nazionale sovietica, nel corso degli allenamenti in vista della competizione, evidenziava con cinica chiarezza delle divisioni interne con i giocatori lituani e ucraini che si allenavano separatamente dai russi (4).

Al contrario l’idea titina riuniva i serbi, i croati, gli sloveni, i musulmani bosniaci, i montenegrini ed i macedoni i quali erano riconosciuti come gruppi etnicamente distinti ma che venivano chiamati a superare le loro differenze linguistiche, religiose e culturali per il bene comune. Tito infatti non inaugurò una nuova nazionalità sovranazionale jugoslava che avrebbe dovuto sopprimere senza remora le singole libertà; anzi il Partito Comunista ha combattuto il nazionalismo etnico e, in particolar modo, il grande nazionalismo serbo. In contrasto con l’ideologia del regno jugoslavo che, nel periodo compreso tra le due guerre, minacciò di fondere le diverse nazioni distinte in un’unica nazione pan-serba, lo “Jugoslavismo” socialista enfatizzava la diversità e la specificità dei singoli gruppi etnici pur esortando il popolo a trasmettere un’educazione patriottica secondo la quale l’unità garantiva libertà, orgoglio e prosperità in opposizione al conflitto etnico che gettava tutti i gruppi nella povertà e nell’umiliazione. Questa coscienza nazionale ha reso le persone e, di conseguenza, gli atleti consapevoli che la divisione sarebbe stata un tragico errore perché il nucleo del Paese non poteva essere suddiviso senza causare immani distruzioni e sofferenze, come l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale aveva tristemente dimostrato.

I.3: Il “boom” del 1968

Alla luce di quanto visto finora, è chiaro che la pallacanestro in Jugoslavia acquisì una maggiore organizzazione solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il primo campionato si disputò nel 1945 con un torneo di quattro squadre e venne vinto da una selezione dell’Esercito. Subito dopo ci fu un lungo predominio della gloriosa Crvena Zvezda (o Stella Rossa) di Belgrado, che vinse gli undici campionati successivi fino al 1955. La polisportiva belgradese nacque proprio nel 1945 sulle ceneri del FK Jugoslavija ad opera di alcuni studenti dell’università di Belgrado facenti parte della Gioventù Antifascista Serba: a tal proposito il nome societario richiama al comunismo e all’anima antifascista, sebbene i sostenitori della Stella Rossa furono spesso in contrasto aperto nei confronti della politica del governo centrale, come avremo modo di vedere più avanti (5).

La Jugoslavia partecipò al primo Campionato del Mondo in Argentina, a Buenos Aires, nel 1950 e, per una strana e alquanto interessante casualità, avrebbe giocato il suo ultimo mondiale sempre in terra argentina quarant’anni dopo, nell’estate del 1990, con un risultato nettamente migliore. Infatti la compagine jugoslava perse contro le modeste rappresentative del Perù, del Cile e dell’Ecuador chiudendo all’ultimo posto essendosi rifiutata d’incontrare, nell’ultima partita, la Spagna in segno di protesta contro il regime franchista. Quattro anni più tardi, nei successivi Mondiali organizzati in Brasile, il tentativo fu migliore solo perché riuscì finalmente a vincere una partita, di due punti contro il Perù. Tuttavia il popolo avrebbe dovuto attendere ancora diversi anni prima di iniziare a festeggiare i primi successi: a metà degli anni Sessanta avvenne il vero boom del basket in Jugoslavia, in quanto i successi della nazionale e l’esposizione mediatica dovuta alla partita del sabato in televisione crearono l’interesse per questo sport anche in luoghi dove fino a quel momento era quasi totalmente sconosciuto: iniziarono a fiorire i primi germogli nelle Repubbliche della Bosnia-Erzegovina e della Macedonia (6). Nel 1965 l’Unione Sovietica si aggiudicò l’organizzazione dei Campionati Europei e, nonostante la netta superiorità della compagine ospitante che vinse la medaglia d’oro, la Jugoslavia si rivelò molto coriacea qualificandosi per la finale e ottenendo un secondo piazzamento che lasciò intravedere un futuro prossimo roseo.

Il primo grande successo arriva nel 1968, anno olimpico nella storia dello sport e uno turbolento nella storia politica. I XIX Giochi Olimpici Estivi si svolsero a Città del Messico in un clima internazionale per nulla disteso dovuto alla guerra del Vietnam, all’assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy, alle proteste studentesche nei campus universitari e all’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Nella Federazione jugoslava, il 1968 fu probabilmente il secondo anno più tumultuoso della storia del Paese, dopo il 1948, quando la Jugoslavia lasciò il Cominform (7) dominato dai sovietici. Infatti nel ’68 Tito sfidò nuovamente Mosca condannando pubblicamente l’aggressione subita dalla Cecoslovacchia. A peggiorare le cose, la Jugoslavia fu colpita dalla più grave crisi dei rapporti interetnici dalla sua fondazione e, mentre le Repubbliche litigavano per le politiche economiche e culturali, gli albanesi del Kosovo scesero in piazza per protesta contro le discriminazioni a cui erano esposti dal governo chiedendo di staccarsi dalla Serbia e di acquistare all’interno della Federazione lo status che avrebbe permesso loro l’autodeterminazione. Ritenuta alquanto pericolosa perché avrebbe potuto innescare nell’ambito serbo un’ondata nazionalistica, la questione albanese venne risolta dai vertici “liberali” attraverso la concessione non dello status di Repubblica ma dell’autonomia a livello culturale e amministrativo per la quale la lingua albanese venne equiparata come lingua ufficiale a quella serba (8). Nella primavera dello stesso anno scoppiarono anche delle rivolte studentesche a Belgrado, Zagabria, Lubiana e negli altri centri universitari della Jugoslavia.

Se la Federazione riuscì a superare la crisi interna fu grazie all’intervento di due efficienti forze di mitigazione nel conflitto. La prima era il culto quasi religioso del padre fondatore del Paese, dell’eroe della resistenza antifascista della Seconda Guerra Mondiale, del vincitore sui nazionalismi etnici ovvero Jozip Broz Tito la cui popolarità era la reale forza unificante della Jugoslavia. Il secondo strumento utilizzato per mitigare il conflitto fu lo sport jugoslavo. Mentre gli atleti jugoslavi combattevano per la gloria nel lontano Messico, la nazione era unita nel tifare la sua squadra nazionale di fronte alla televisione statale che trasmetteva quasi tutti gli eventi olimpici. Ad esempio la nuotatrice croata Đurđa “Đurđica" Bjedov vinse la medaglia d’oro nei 100 metri e d’argento nei 200 metri stile rana così come il ginnasta sloveno Miroslav Cerar che si aggiudicò la medaglia aurea nella disciplina del cavallo con maniglie senza considerare i trionfi nelle discipline di squadra: la pallanuoto festeggiò il primo posto mentre la pallacanestro maschile sfiorò l’impresa contro gli inarrivabili Stati Uniti d’America.

Memore della catastrofe agli Europei del 1967 ad Helsinki a causa della giovane età del suo gruppo, il coach serbo Ranko Žeravica pensò bene di assemblare una squadra con il giusto mix tra le forze nuove ed i veterani. Dopo aver superato il girone come seconda classificata, la Jugoslavia affrontò in semifinale l’Unione Sovietica in una sfida che valeva certamente molto di più di una semplice partita di pallacanestro. I cronisti sportivi erano concordi nel dire quanto quella partita fosse stata giocata con uno spirito d’abnegazione ammirevole da parte degli atleti jugoslavi i quali vollero sfatare anche il mito dell’invincibilità sovietica nelle partite decisive. Ottenuto il successo (63-62), in finale per l’appunto il tabellone mise sul cammino dei “plavi” (9) proprio gli Stati Uniti i quali s’imposero con un punteggio netto (65-50) causato tanto dalla maggiore potenzialità degli americani quanto dalla stanchezza degli atleti di coach Žeravica, rei di aver passato le ultime ore notturne in un clima di festeggiamenti per la vittoria sull’URSS. La medaglia d’argento del basket ebbe un’eco enorme e suscitò un entusiasmo incontenibile al punto che si può dire che fu proprio l’argento in Messico ’68 a decretare definitivamente il boom della pallacanestro in Jugoslavia (10).

L’entusiasmo ebbe nella Federazione una conseguenza che al momento non si percepì, ma fu decisiva, vista a posteriori. Il basket cominciò a prendere piede sul tutto il territorio e in tutte le Repubbliche. Ricordando sempre che la Jugoslavia era uno Stato comunista, i soldi per mantenere un’attività sportiva di vertice erano distribuiti dalle strutture politiche, nel senso che gli sponsor intanto di soldi ne davano pochi e poi comunque li davano a chi i capi politici decidevano che dovessero andare. Il resto erano tutte dotazioni tratte direttamente dai budget repubblicani riservati alla cultura, alla scuola e allo sport, per cui nelle Repubbliche di marcato stampo calcistico, come la Bosnia-Erzegovina e la Macedonia, la massima parte delle finanze andava al calcio. Pian piano però anche in queste Repubbliche si fece largo l’idea che la pallacanestro fosse un veicolo importante d’immagine e di prestigio. Morale della favola: sul basket cominciarono a convergere sempre più soldi, la politica iniziò ad interessarsene, insomma la pallacanestro iniziò il suo lento decollo (11).

NOTE
(1)  “Il lento ed inesorabile declino del calcio a Zara” su La Voce del Popolo, 14 marzo 2009.
(2) Ivi.
(3) Perica, United they stood, divided they fell, cit.
(4) “When we were Kings”, approfondimento del giornalista sportivo Federico Buffa sulla Lituania cestistica (https://www.youtube.com/watch?v=6cB7cHSBtec).
(5) Danilo Crepaldi, Footballslavia, StreetLib Write, 2017, pag. 18-19.
(6) Tavčar, La Jugoslavia, il basket e un telecronista, cit, pag. 25.
(7) Ufficio d'informazione dei partiti comunisti e operai.
(8) Pirjevec, Le guerre jugoslave, cit, pag.24.
(9) Plavi (“blu”) è il soprannome della nazionale jugoslava in virtù del colore blu della propria casacca, tanto nella pallacanestro quanto nel calcio. Per quanto concerne questa seconda disciplina, nel corso degli anni Ottanta venne coniato anche il soprannome di “Brasile d’Europa” in virtù del gioco spettacolare e fantasioso della nazionale di calcio.
(10) Tavčar, La Jugoslavia, il basket e un telecronista, cit, pag. 33-34.
(11) Ivi.


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