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Emanuele Di Nardo
Una volta fratelli: il basket e la crisi della Jugoslavia
IL VENTO DEL CAMBIAMENTO
Slobodan Milosevic, esponente del PCJ serbo che, nel 1986, lesse con estremo acume strategico l’insofferenza politica della Federazione jugoslava, facendosi portavoce delle recriminazioni nazionaliste serbe.

Ivan Stambolic, presidente della Serbia dal 1986, fu il mentore politico di Milosevic, favorendone l'ascesa ai vertici del Partito Comunista e affidandogli l’intricata questione del Kosovo (1987).

La tesi di laurea, a puntate, del giovane addetto stampa della Teate Basket Chieti. Puntata 5.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 05 Dicembre 2019 - Ore 14:45

II.3: Il vento del cambiamento

La scomparsa di Tito lasciò la Jugoslavia in una crisi ideologica, essendo venuta a mancare la forza coesiva del Partito Comunista. Il gruppo dirigente si rivelò assai modesto a livello politico ed immischiato in affari di corto respiro che provocarono diversi scandali (1). La scintilla che diede il via ad una serie di rivendicazioni territoriali fu la seconda rivolta degli albanesi del Kosovo nel marzo 1981 i quali, sebbene avessero assistito ad un miglioramento della loro condizione nell’ultimo decennio, comunque si sentivano frustrati per non essersi visti riconoscere lo status di una repubblica federata anziché di una provincia autonoma e per essere ancora discriminati rispetto alla minoranza serbo-montenegrina. La dura repressione (serba) attraverso la quale venne sedata la rivolta, bollata come atto “controrivoluzionario”, allarmò gli altri popoli della Federazione, sloveni e croati su tutti, mettendo in dubbio la legittimità della politica sempre più improntata su un nazionalismo aggressivo.

Ad alimentare il baratro silenzioso nel quale il Paese sprofondò fu anche una situazione di grave crisi economica. Rispetto al passato, alla fine degli anni Ottanta il reddito generale crollò e gli stipendi furono congelati per anni. L’inflazione era giunta a percentuali da Paese centrafricano e la disoccupazione superò il 30%. Tra i vari problemi che si stavano affacciando all’orizzonte, quello dell’odio etnico fu il più drammatico: senza più il polso fermo del Maresciallo Tito, per le strade cominciarono a riecheggiare liberamente frasi che, fino a pochi mesi prima, sarebbero state punite con il carcere duro. Tutto quel caos rappresentò il terreno ideale per la nascita e la progressiva affermazione di associazioni mafiose locali che, nel corso degli anni, diventarono sempre più potenti e sempre meno controllabili dalle forze dell’ordine (2).

Emersero tensioni di carattere etnico tra le diverse nazioni sulla riorganizzazione della società jugoslava, in particolar modo evidenti tra la Slovenia ed il governo centrale, sempre più di stampo serbo. Le recriminazioni slovene affondano le radici già nel 1969 con la “questione dell’autostrada”: la Banca Internazionale predispose un prestito di 35 milioni per la costruzione di nuove strade nel territorio sloveno al fine di collegare Lubiana con le frontiere italiana e croata. Ma il governo federale decise di devolvere i finanziamenti nel sud del Paese, provocando la rivolta dei vertici della Slovenia bollati come elementi pericolosi di disturbo (3). A questa spaccatura andrebbe aggiunta anche la querelle sulle Olimpiadi Invernali del 1984 che, come abbiamo visto nel precedente capitolo, nonostante la candidatura slovena, vennero assegnate a Sarajevo, acuendo la crisi interna. La Slovenia, nello scacchiere jugoslavo, rappresentava la realtà più avanzata a livello socio-economico grazie anche alla posizione strategica che favorì gli scambi con l’Europa occidentale, a partire dalla stessa Italia. Ma la Federazione, dopo la morte di Tito, faticò a trovare un equilibrio interno che potesse continuare a funzionare: gli sloveni avrebbero voluto una società jugoslava più decentralizzata e aperta all’Europa al contrario di Belgrado che propose la riaffermazione del ruolo centrale dello Stato e del PCJ come unica soluzione per evitare una crisi inarrestabile.

La situazione degenerò quando il parlamento federale richiese alla Slovenia la restituzione alla Banca centrale delle proprie competenze finanziarie, come stabilito dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) (4): tale richiesta venne percepita dai vertici sloveni come un attacco alla propria sovranità economica e come il ripristino di un forte “jugocentrismo” a vantaggio della Serbia (5). La gioventù slovena diede i primi segni di rottura confermandosi favorevole, in occasione del XII Congresso della Gioventù socialista (1986), alle istanze di rinnovamento. Nonostante le intimidazioni e le pressioni della Lega dei comunisti e dell’Armata Popolare, i giovani sloveni continuarono la loro lotta attraverso anche l’arma dell’ironia dissacrante.

In questo stesso periodo vennero pubblicati due documenti che esprimevano il malessere patito tanto dalla Slovenia (Contributi per un programma nazionale sloveno, 1987) quanto dalla Serbia (Memorandum, 1986) e che rimarcavano gli interessi nazionalisti contro l’idea jugoslava. Nello specifico, nel Memorandum, formulato dagli esponenti dell’Accademia delle Scienze e delle Arti serba, furono esaminati i problemi attuali della nazione e si proposero vie d’uscita da una situazione che appariva fallimentare. Il documento, dal carattere confidenziale, fu sottratto ad uno dei suoi autori e pubblicato il 24 ottobre 1986, destando scalpore: in esso si diceva che il popolo serbo nella sua storia plurisecolare era stato costretto sempre a sacrificarsi per gli altri ma, nonostante questo, era stato sempre derubato dei frutti delle proprie vittorie. “A nessun popolo della Jugoslavia viene negata in maniera massiccia la sua identità culturale e spirituale come a quello serbo”. Per ovviare a questa situazione, il Memorandum richiedeva il ripristino della piena sovranità di Belgrado su tutto il territorio repubblicano (in pratica l’abolizione dell’autonomia della Vojvodina e del Kosovo), nonché “l’instaurazione della piena integrità nazionale e culturale serba, a prescindere dalla Repubblica o dalla Provincia in cui vive” (6). Successivamente alla diffusione del documento, si registrò una mobilitazione di centinaia di migliaia di persone in Serbia, pronte a scendere in campo per manifestare la propria insoddisfazione, guidate da Slobodan Milošević il quale, con un espediente abilmente architettato, riuscì ad impossessarsi delle leve del potere nel Partito comunista serbo (7). Egli seppe leggere al meglio gli sviluppi storici che si sarebbero verificati di lì a pochi mesi nella Jugoslavia facendo leva sul sentimento nazionale serbo ferito.

Come, ad esempio, il 27 aprile 1987, nel Kosovo. In quel momento, il Kosovo era al 90% d’etnia albanese: dunque i serbi rappresentavano una sparuta minoranza che si sentiva defraudata dei propri diritti e in costante pericolo di vita. Il presidente della Repubblica serba, il moderato Ivan Stambolić, incaricò Milošević di sedare il conflitto etnico kosovaro. Venne indetto un incontro nel palazzo municipale. Mentre nell’edificio il leader serbo ascoltava le dure recriminazioni contro gli albanesi, tacciati di volere un Kosovo etnicamente puro e, di conseguenza, accusati di continue pressioni sulla minoranza serba, una folla di manifestanti serbi cominciò a farsi sentire dall’esterno in modo sempre più veemente. La polizia locale, a maggioranza albanese, al fine di evitare il peggio, intervenne con la forza (8) . Alcuni nazionalisti serbi informarono Milošević dei disordini ed egli uscì dalla sala per affrontare la situazione. Come se si sentisse incaricato di portare un messaggio dal cielo, urlò una frase destinata a cambiare il corso degli eventi: “Non vi picchieranno mai più!”. Furono parole che avevano il potere di segnare il passaggio fra un’epoca e l’altra, perché furono proprio esse ad incoronarlo leader politico agli occhi di tutti (9).

Non sorprenda il fatto che le prime avvisaglie di una "tempesta” che si sarebbe abbattuta sulla Jugoslavia, si palesarono proprio nel Kosovo, che rappresentava il vero cuore del popolo serbo. Esso si è sempre definito senza mezzi termini nebeski narod (“popolo celeste”), una dimensione esistenziale maturata all’interno della storia dalla battaglia della Piana dei Merli (10)  del 28 giugno 1389. E, in occasione del 600° anniversario da quella celebre battaglia, Milošević, divenuto nel frattempo presidente del Paese, presentò il suo messaggio nazionalista come preciso programma di governo: “Meritiamo il nostro posto nella storia. Siamo stati vittime per troppo tempo. Il nostro tempo è giunto”. L’estratto dell’arringa portata avanti dinanzi ad un milione di presenti a Kosovo Polje diede il via ufficialmente al vento di cambiamento all’interno della Federazione, alla strenua ricerca da parte dei serbi di vendicare tutti i torti subiti e a quell’impeto nazionalista che necessitava del supporto di tutti gli strati sociali, specialmente i tifosi di calcio che il presidente avrebbe sempre considerato utili ed agguerriti difensori della Grande Serbia.

Il telecronista di Tele Capo d’Istria, Sergio Tavčar, con questa breve riflessione analizzò lo spirito che aleggiava nel suo ambiente al momento dell’ascesa di Milošević nel 1987, riportando un aneddoto di un viaggio in autobus con i colleghi giornalisti jugoslavi:

Rispetto all’anno prima (1986), avvertii subito che era cambiato un qualcosa. I serbi erano seduti tutti verso il fondo e chiacchieravano fra di loro, i croati erano a destra, sloveni, bosniaci e montenegrini a sinistra, io, col collega del Kosovo, davanti subito dietro il guidatore. E così per tutto il viaggio con incomunicabilità totale tra i vari gruppi, incomunicabilità che non riuscivo a capire, visto che l’anno prima erano tutti ancora grandi amici. Il Maresciallo Tito, il fondatore ed unificatore dell’ultima Jugoslavia, era morto sei anni prima e fino ad allora praticamente nessuno se n’era accorto. C’erano state, ad esempio, le Olimpiadi di Sarajevo che avevano offerto una toccante testimonianza della fratellanza ed unità, secondo l’abusato slogan ufficiale; c’erano state altre grandi manifestazioni e tutto sembrava come prima. Fino a quel fatidico ’86. Era successo che qualche mese prima con un colpo di palazzo Slobodan Milošević era salito all’importantissima carica di Segretario della Lega dei Comunisti della Serbia. Le sue prime uscite pubbliche avevano galvanizzato i serbi, convinti che la Jugoslavia di Tito li avesse sacrificati a favore degli altri popoli (rispetto alla prima Jugoslavia dove tutto era centralizzato a favore della Serbia, era indubbiamente vero), e molto, ma molto preoccupato gli altri. E tutto questo lo percepii dopo pochi minuti che ero salito sull’autobus (11).

Nei palazzi e negli ambienti governativi, i rappresentanti delle varie Repubbliche trovavano sempre più motivi di scontro, mentre negli stadi cominciavano ad apparire sempre più sigle di ultras legate ad uno piuttosto che ad un altro nazionalismo. Questo segnò un netto cambiamento delle direttive politiche della Jugoslavia; infatti, ai tempi di Tito, esistevano pochi gruppi di ultras organizzati che erano mal tollerati dal governo centrale e strettamente controllati, grazie alla migliore collaborazione tra i partiti comunisti delle varie repubbliche ed il Partito Comunista Jugoslavo al potere; ora queste collaborazioni stavano venendo meno ed ogni Repubblica guardava più ai propri interessi che a quelli unitari, servendosi anche dei messaggi lanciati dagli ultras (12). Fu questa la linea seguita da Slobodan Milošević in collaborazione con Željko Ražnatović, detto “Arkan”.

NOTE
(1) F. Privitera, Jugoslavia, cit, pag. 109.
(2) D Mariottini, Dio, calcio e milizia. cit, pag. 43.
(3) ože Pirjevec, Serbi, croati e sloveni, Bologna, Il Mulino, 1995, pag. 195-196.
(4)Il FMI, nel 1982, offrì alla Jugoslavia la possibilità di un prestito triennale da accompagnare ad una politica di risanamento ed austerità a patto che il bilancio della Federazione fosse riportato sotto lo stretto controllo della Banca centrale che avrebbe recuperato debiti e crediti delle singole repubbliche.
(5) F. Privitera, Jugoslavia, cit, pag. 113-114.
(6) J. Pirjevec, Le guerre jugoslave, cit, pag. 28-29.
(7) Ivi.
(8)  “Jugoslavia. Morte di una nazione” – documentario prodotto dalla Rai nel 1999 e condotto da Andrea Purgatori.
(9) D. Mariottini, Dio, calcio e milizia, cit, pag. 45.
(10) La tradizione ritiene che il principe serbo Lazar, alla vigilia della battaglia contro gli ottomani, vide un falcone che gli preannunciò la sconfitta militare imminente, in cambio della promessa della vittoria celeste e della gloria ultraterrena per il popolo serbo.
(11) S. Tavčar, La Jugoslavia, il basket e un telecronista, cit, pag. 136.
(12) D. Crepaldi, Footballslavia, cit, pag. 144-145.


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