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Uomini di Basket
CLAUDIO CAPONE: UN LIBERO DIVENTATO MOSES!
Roseto degli Abruzzi, PalaMaggetti, 2017. Claudio Capone mostra la sua mano da tiratore decisivo.

Roseto degli Abruzzi, PalaMaggetti, 1985. Claudio Capone, con la maglia di Caserta, al Trofeo Lido delle Rose.

Lituania, 2012. Claudio Capone Campione Europeo Over 45.

Emanuele Di Nardo intervista il campione teatino, famoso per due tiri che hanno significato due promozioni in A1 ad Arese e Avellino.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Martedì, 04 Febbraio 2020 - Ore 14:56

Ho conosciuto Claudio Capone in un soleggiato pomeriggio di settembre nel campetto da basket delle “De Lollis” a Chieti nel quale, come spesso capita, ci si ritrova tra amici per trascorrere qualche ora a suon di triple e falli sistematici pur di non correre troppo. Con un livello medio tendenzialmente deprimente, la presenza di Claudio si fece sentire eccome. Stabilite le classiche marcature a uomo, venni accoppiato proprio a lui e non sussultai per la gioia di questa investitura, anzi fu un vero e proprio massacro in un duello durante il quale, pur tentando in tutti i modi di arginarlo, fui letteralmente annientato dalle sue triple. Un 9/9 dall’arco che suscita ancora un certo dolore misto ad ammirazione. Tornato a casa e frastornato ancora da quell’esperienza davvero indimenticabile, decisi di approfondire la conoscenza di questo splendido fromboliere e, sebbene avessi alcuni ricordi della sua carriera e dei suoi risultati, fu un video trovato su YouTube ad innescare la curiosità d’intervistarlo. In questo video venivano riportate le due triple con le quali, a distanza di pochi anni, ottenne la promozione in A1 prima con Arese e poi con Avellino. Prima di tutto pensai tra me e me “dai, in fin dei conti Emanuele non potevi fare molto di più oggi in campo”. Poi, smaltito il momento di autoconvincimento, iniziai a maturare l’idea di un’intervista, che avrebbe visto finalmente la luce alcuni mesi dopo. Ed ecco il risultato.

Come nelle classiche storie d’amore, la passione per la pallacanestro fu un colpo di fulmine all’età di tredici anni. Ma eri attratto anche da altre discipline sportive. La tua poliedricità può essere stata un vantaggio per la tua carriera?
«Probabilmente si. Ho avuto la fortuna, nel corso dei miei tre anni di scuola media alle “Vicentini”, di essere istruito dal professor Battistoni, il classico professore di educazione fisica che metteva l’attività motoria al primo posto. Di conseguenza, quando inizi ad avere una buona dimestichezza in varie discipline, tutto è stato più semplice. Con tutta sincerità, in quel periodo della mia vita giocavo a calcio, la grande passione di mio padre, come libero nel sistema difensivo ma avevo richieste anche dalla pallavolo e dalla pallamano, forse per la mia struttura fisica e per le mie qualità. Avevo la possibilità di scegliere quindi. Ma un pomeriggio, mentre giocavo a tennis nei pressi del Sacro Cuore, mi raggiunse un mio compagno di classe, Pierluigi Di Pietro, che m’invitò a partecipare ad un allenamento di pallacanestro tenuto nella caserma Berardi da Pizzirani e Di Masso: una volta toccata la palla a spicchi arancione, fu amore a prima vista e lasciai perdere tutti gli altri sport».

Possiamo dire, quindi, che il tuo backgroud sportivo rispecchi più il modello americano nel quale i giovani ragazzi vengono iniziati a più discipline prima di specializzarsi in una sola?
«Bravissimo! Come detto, il merito della mia propensione allo sport va dato alla scuola. Un sistema scolastico che purtroppo oggi non c’è più in Italia. Non voglio generalizzare ma oggi non c’è più quella premura verso l’attività fisica. Poi ovviamente ci sono anche delle belle eccezioni».

Da quel momento la tua vita cambia sensibilmente…
«Ho iniziato a giocare a pallacanestro tutti i giorni, sfruttando tutti i campetti all’aperto di Chieti: da quello del Sacro Cuore fino alla Villa Comunale. C’era una grande passione in città, tutti i ragazzi passavano ore ed ore a giocare e a divertirsi insieme. Quei momenti mi sono serviti per apprendere tante cose e per migliorarmi. Mi sono costruito come giocatore proprio sui campetti mentre, poi, lavorando in palestra, ho accresciuto quel talento naturale di cui disponevo. Ma mi piace rimarcare il fatto che io non abbia abbandonato né l’una né l’altra cosa: ho sempre portato di pari passo il duro lavoro in palestra e l’attitudine da campetto. Disciplina e creatività, due facce della stessa medaglia che oggi purtroppo manca ai giovani, spesso lamentosi della mancanza di strutture adatte. Io credo che bisogna crearsi allora qualcosa, se spinti dalla passione vera. Basta un canestro affisso al muro e si può giocare tranquillamente».

Terminata la trafila giovanile, dopo essersi ricavato un buono spazio in prima squadra, il ventenne Claudio Capone lascia la sua città per accasarsi alla Juve Caserta, in A1…
«Come ti dicevo prima, sono cresciuto molto nel periodo della mia adolescenza grazie anche ad allenatori spettacolari che ho avuto come, oltre ai citati Pizzirani e Di Masso, anche Trivelli e Marzoli. È stato proprio Nino Marzoli a gettarmi nella mischia avendo subito fiducia in me. Ed io lo ringrazio perché non tutti hanno il coraggio di scommettere sui giovani. All’età di vent’anni, come hai detto tu, venne a vedermi il GM di Caserta Giancarlo Sarti, su commissione di Tanjevic. Io, essendo nel giro della Nazionale juniores, ero già monitorato da diversi addetti ai lavori. Venni ingaggiato dalla Juve Caserta e, a 20 anni, mi ritrovai catapultato in Serie A1. Due anni indimenticabili con le finali scudetto, purtroppo perse, e con la possibilità di giocare insieme a cestisti che hanno fatto la storia non solo del basket casertano ma anche italiana come Gentile o Dell’Agnello, senza dimenticare il grandissimo Oscar. Probabilmente il mio matrimonio, avvenuto a marzo del secondo anno, ha inciso molto a livello emozionale e mi ha fatto commettere degli errori che poi ho pagato. Marcelletti, giunto sulla panchina al posto di Tanjevic, mi accantonò definitivamente già da metà stagione. Se fosse dipeso da me, sarei rimasto altri dieci anni per poter festeggiare tanti successi ma così non fu».

A questo punto arriva la tua scelta di andare a Verona, scendendo di due categorie: una decisione drastica ma consapevole o frutto della tua inesperienza?
«Ho pagato a caro prezzo la mia gioventù. In quel periodo della mia carriera non avevo un procuratore che mi consigliasse e, di fronte alla chiusura netta di Caserta, ho agito d’impulso ed ho accettato la prima offerta utile. Poco tempo dopo un mio amico, Carlo Mafrione, mi disse che Claudio Vandoni, in quell’anno sulla panchina di Rimini, rimase colpito dalla mia scelta immediata e quasi spregiudicata, pronto ad offrirmi un contratto se fossi rimasto ancora libero. Successivamente ebbi un pentimento perché passai da un biennio ai massimi vertici della Serie A1 a Verona, in Serie B. Ci voleva molto coraggio per prendere questa decisione e, per fortuna, sono stato capace di essere costante e coerente. Ma quell’anno a Verona fu molto positivo perché entrai in una squadra costruita per vincere con i vari Malagoli, Brumatti e Lardo. L’esperienza veronese, intervallata da un anno in prestito a Desio dove festeggiammo la promozione in A1, mi lascia ricordi positivi».

Parlando di ricordi positivi, da annoverare assolutamente c’è Montecatini?
«Che ricordi! Tre anni davvero indimenticabili al fianco di veri mostri sacri come Mario Boni o Clemon Johnson e Chris McNealy. Quella promozione resta una delle parentesi più emozionanti della mia vita per il calore del pubblico e per l’entusiasmo che si venne a creare tanto sugli spalti quanto dentro lo spogliatoio. Ottenemmo la promozione disputando il derby contro Pistoia di fronte a oltre 5.000 tifosi chiamati a raccolta dall’importanza di quella partita. Mancavano sei giornate al termine della regular season e quella vittoria ci diede la matematica certezza del primo posto in classifica attraverso il quale staccammo il pass per l’A1. Anche qui sarei restato a vita. Spesso le scelte di mercato da parte di un giocatore sono giudicate senza avere un quadro completo della situazione. Purtroppo in quel momento Montecatini aveva l’esigenza di abbassare il monte ingaggi ed io ero quello che aveva più mercato. Altrimenti davvero non avrei avuto alcun dubbio nel restare in terra toscana. Accettai l’offerta di Forlì, guidata da Piero Pasini che mi mostrò tutto il suo interessamento. Anche lì rimasi affascinato dallo statunitense Darryl Dawkins, atleta incredibile che, nonostante un fisico monumentale, aveva una rapidità in corsa impressionante. Peccato perché la stagione terminò con la sconfitta in finale per la promozione contro Sassari a causa di un mio tiro sbagliato…».

La fortuna aiuta gli audaci e, incredibilmente, un anno dopo hai avuto la possibilità di riscattarti in maglia Arese, in finale. Un video su YouTube ricorda ancora quell’impresa.
«L’anno successivo andai ad Arese e, come hai detto fu, si trattò proprio di un’impresa perché il livello della squadra non era altissimo e perché non avevamo assolutamente il favore dei pronostici. Giocammo una stagione bellissima e riuscimmo a creare un clima ottimale tra di noi. Per me fu la miglior stagione personale della mia carriera, viaggiando a venti punti di media a partita e risultando tra i dieci migliori marcatori del campionato. In finale, contro Cantù, mi sono preso un altro tiro decisivo e questa volta, fortunatamente, è entrato».

Mi chiedo: Claudio Capone come ha vissuto la delusione dell’errore contro Sassari e l’emozione del tiro segnato l’anno successivo contro Cantù? La vita non sempre offre una seconda occasione e tu l’hai sfruttata benissimo…
«È innegabile la delusione che ho provato con Forlì. La mente volava e tornava di continuo su quel ricordo amaro. Ma ci tengo a ribadire che io presi quel tiro con consapevolezza nei miei mezzi, non con la paura di sbagliare. Nella mia carriera ho preso circa 35 tiri vincenti, ma può capitare l’errore e tutto quello che ne consegue. Non possiamo non sbagliare ma dobbiamo lavorare quotidianamente per crearci un’occasione di riscatto, per riprovarci di nuovo. Questa è una mentalità da vincente. Difatti quando abbiamo ottenuto la promozione, dopo aver festeggiato con la squadra poiché è la cosa più importante, dentro di me ero doppiamente felice, avendo dimostrato in primis a me stesso che valevo, riuscendo a riscattarmi. Bisogna avere questa forza mentale per attutire il colpo negativo. Solo chi non fa non sbaglia, ma chi non sbaglia non arriverà mai un giorno a fare la cosa giusta. Se non si rischia, non si cresce».

L’estate successiva alla promozione fu più calda del previsto. Dopo l’ebbrezza del successo, incredibilmente ti ritrovi senza squadra: perché?
«Mi ritrovai praticamente senza squadra per una cattiva gestione del mio cartellino. In quell’estate Corbelli e Rovati, rispettivamente proprietari di Roma e Forlì, si sono scambiati la proprietà delle due Società. Io avevo un accordo con Corbelli il quale, tuttavia, non riuscì a concretizzare nulla. C’è da dire che Benvenuti, divenuto il nuovo team manager di Montecatini, mi aveva contattato personalmente per farmi tornare da loro: addirittura sono entrato nel box di Montecatini per firmare il contratto, assistito dal mio procuratore. A quell’incontro non si presentò mai nessuno perché il GM di Montecatini, Panati, acquistò Andrea Forte che era svincolato. Alle 11:55, a cinque minuti dalla chiusura del mercato, ricevetti un’offerta da Pillastrini che allenava Modena ma il mio presidente, proprietario del cartellino, si rifiutò di accettare l’offerta, forse perché non soddisfacente. A questo punto, senza contratto, chiesi a Forlì di allenarmi con loro, con l’obiettivo di farmi trovare pronto per qualsiasi chiamata. Tanto è stato visto che, nella sessione di gennaio, ottenni l’ingaggio di Fabriano dove trovai coach Perazzetti. Concludemmo la stagione con una salvezza agevole».

Nemmeno l’approdo nella Capitale riuscì a farti riscoprire gli “antichi fasti”?
«L’esperienza di Roma è stata davvero molto strana. Mi ritrovai agli ordini di Attilio Caja, conosciuto nel panorama cestistico per la sua filosofia votata alla difesa e alla fisicità. Non riuscimmo mai a trovare un punto d’accordo e, date le mie qualità molto diverse e data l’agguerrita concorrenza nel mio ruolo, ebbi poco spazio in campo. Mi chiesi per quale motivo Roma mi avesse voluto fortemente in estate se non ero per nulla congeniale al sistema di gioco. Ebbi l’exploit in una partita di Coppa Korac nella quale fui capace di firmare una buona prestazione, ma quella prova non fu seguita da altre prestazioni convincenti. Come se non bastasse conclusi la stagione successiva a Pozzuoli, in una realtà ormai alla deriva e per nulla compatta: inutile dire che subimmo una retrocessione amara e dura da digerire. Quello fu davvero il punto zero come sono solito definirlo, ovvero il punto più basso e triste dal quale volevo necessariamente risalire. A questo punto arriva la chiamata di Avellino…».

Avellino appunto può essere considerato il vero e proprio punto di svolta della tua carriera?
«Venni contattato da Bartocci ma il primo anno fu tutt’altro che semplice: con un record negativo di 1-11 ad inizio stagione, lo stesso Bartocci venne esonerato e noi ci ritrovammo a mantenere la categoria con una salvezza sofferta. Ma la vita sa riservarti anche molta ironia: nel primo anno ad Avellino registrai la mia miglior percentuale realizzativa dall’arco, il 53%, in carriera mentre nella stagione successiva, quella della promozione, restai fuori tre mesi per la rottura della spalla. Quindi puoi immaginare anche la frustrazione per un periodo proprio negativo. Ma, sempre per tornare al discorso di non lasciarsi mai abbattere dalle avversità e di credere in se stessi, nella finale contro Jesi segnai un canestro quasi da centrocampo sulla sirena di Gara 5 che valse la prima storica promozione ad Avellino in A1. Anche qui tornai punto e a capo: nonostante avessi avuto la promessa da parte dello staff tecnico di uno spazio congruo anche nella massima serie, in realtà quella stagione mi vide quasi sempre in panchina mentre registravo continui “N.E.”. All’epoca avevo 35 anni ma fisicamente mi sentivo ancora bene, per cui non apprezzai quella scelta di tenermi così fermo con il rischio che non avrei trovato più squadra altrove. Penso tutt’ora che, prima di tornare a Chieti, avrei potuto benissimo fare molto di più ma mi è mancata la lungimiranza di capire esattamente cosa fare dopo il ritiro: continuavo a vedermi solo come giocatore senza portare avanti, casomai, un discorso da allenatore. Ad onor del vero molto influirono le problematiche familiari con la mia ex moglie che mi costrinsero a prendere delle decisioni forse non ottimali per la mia carriera».

Nel 2005, esattamente 20 anni dopo essere partito per Caserta, fai ritorno a Chieti…
«Dopo un biennio di nuovo a Caserta tra B2 e B1 e dopo altre brevi esperienze, nel 2005 feci ritorno a Chieti in C1. Fu una bella esperienza sotto il profilo sportivo e, a quarant’anni, ero pronto a mettermi a disposizione per la squadra della mia città anche in altri ambiti, casomai togliendomi gli abiti del giocatore e indossando quelli di allenatore o dirigente. Non se ne fece nulla e, nell’estate successiva, passai a Pescara, sempre in C1, venendo accusato di tradimento. Lì restai per due anni e mezzo prima di essere contattato da Vasto nel 2009. Martinsicuro e Ortona furono le ultime tappe della mia lunga carriera che chiusi nel 2015, a cinquant’anni».

In tutto questo non abbiamo menzionato la tua lunga e vincente permanenza nella Nazionale Over…
«Questa rappresenta un’altra bella pagina della mia vita. Ho avuto la possibilità di condividere emozioni uniche insieme a grandi cestisti vincendo praticamente tutto: quattro ori europei e due ori mondiali. Ma anche qui molto contano le motivazioni. Negli ultimi tempi mi sono un attimo preso una pausa proprio perché non ho più quegli stimoli necessari per continuare a giocare a questi livelli. Ma è indubbio che poter partecipare a competizioni internazionali sia unico. In estate ci saranno gli Europei a Malaga e sto pensando cosa fare».

La tua lunga carriera, certamente, avrà molti aneddoti e ricordi impressi: qual è stato il momento più bello e quello più brutto?
«Per quanto riguarda quello più brutto, sotto il profilo sportivo sono sicuro nel dirti la retrocessione con Pozzuoli. L’anno prima lì disputarono una grande stagione grazie anche all’apporto della coppia americana che lasciò grandi ricordi ma, nella stagione successiva, il roster era notevolmente più modesto e non si venne a creare per niente l’amalgama tra noi giocatori e tra la squadra e l’ambiente. Per il momento più bello faccio più fatica ad essere obiettivo perché le quattro promozioni hanno un gusto particolare. Forse posso dirti che Montecatini e Avellino sono molto simili per il bellissimo clima che si respirava e per la solida struttura che stava dietro la squadra. Onestamente credo che la promozione con Avellino sia stata quella più inaspettata, considerando che l’anno prima ci salvammo all’ultimo».

Capone giocatore è stato un concentrato di pura energia e di grande temperamento. Il quadro che emerge è quello di un leone in gabbia che non riesce a esprimere tutto il proprio potenziale anche senza la canotta. Vero?
«Hai assolutamente ragione. Ho cercato per tanto tempo l’occasione giusta nella quale poter mettere a frutto tutta la mia esperienza. Tuttavia non ho mai visto la buona volontà da parte degli altri. Per questo, piano piano ho iniziato io stesso a defilarmi. Sono stato uno dei pochi cestisti abruzzesi capaci di affermarsi a livello nazionale, ma forse pago la fama di giocatore impetuoso e caratterialmente forte. Sono tornato a casa da quindici anni e non c’è stata un’occasione davvero buona. Addirittura mi è stato proposto un contentino da parte di una Società, pur di dire che aveva Capone come dirigente. A me piace fare e, pertanto, vorrei poter essere utile fattivamente, casomai nelle vesti di supervisore capace di reclutare giovani talenti del territorio. Sono perciò stato contento di aver ricevuto la stima della Magic Basket Chieti, con la quale collaboro dalla scorsa estate insieme al mio caro amico Gigi Bonvecchio. Si tratta di una realtà seria nella quale si può lavorare con serenità. Oggi non vedo più un mio impegno importante nel panorama abruzzese come la priorità della mia vita. Mi sto godendo la mia famiglia e la possibilità di mettermi al servizio della Società del presidente Milillo. Poi il resto si vedrà…».

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Emanuele Di Nardo
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