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Sabato, 20 Aprile 2024 - Ore 16:55 Fondatore e Direttore: Luca Maggitti.

Emanuele Di Nardo
Una volta fratelli: il basket e la crisi della Jugoslavia
LE MACERIE DEL BASKET CROATO
Sergio Tavcar, storica voce di Tele Capodistria, che seppe raccontare, con la sua proverbiale vena polemica, il tumulto sociale e sportivo nella Jugoslavia degli Anni ’90. La foto è del 17 febbraio 2009 e vede il popolare giornalista ospite, in Abruzzo, di Luca Maggitti nella sua trasmissione ‘Pane & Basket’, in onda su AB Channel.

Toni Kukoc, che insieme a Drazen Petrovic rappresenta lo spirito croato contro il sistema federale dello sport.

Velimir Perasovic, che fu l’unico cestista spalatino rimasto nel gruppo che vinse la Coppa Campioni per tre anni consecutivi, in una patria scossa dalla guerra.

La tesi di laurea, a puntate, del giovane teatino appassionato di basket. Puntata 16.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 05 Marzo 2020 - Ore 10:00

IV.5: Le macerie del basket croato

Dopo un’estate relativamente calma che vide la situazione in Slovenia normalizzarsi definitivamente, l’autunno vide il divampare della guerra in Croazia per l’appunto. Tutti i giocatori serbi che militavano nelle squadre croate di ogni sport furono spinti ad abbandonare precipitosamente i loro club. Alcuni spinti da motivazioni comprensibilmente patriottiche, la maggioranza dal semplice fatto che, essendo serbi, rischiavano pericolosamente ritorsioni ai loro danni dalle frange più estremiste della popolazione croata. In tutto questo, però, ci fu un aspetto interessante: malgrado tutto, nell’autunno 1991 partì un campionato jugoslavo di basket, a cui aderirono le squadre delle altre quattro Repubbliche, compresa la Bosnia-Erzegovina che di lì a pochi mesi si sarebbe trovata al centro del massacro più atroce verificatosi sul suolo europeo dopo la seconda guerra mondiale (1). Quando, poi, nell’aprile 1992 scoppiò la guerra in Bosnia, le squadre di quel Paese ovviamente si ritirarono, per cui di quel simulacro di campionato non si ebbero più notizie.

Dražen Petrović continuava, nel frattempo, la sua carriera nell’NBA ma la testa era a Zagabria e Sebenico,  con la sua famiglia, con i suoi amici. Propose ai genitori e al fratello Aza di trasferirsi subito negli Stati Uniti. Non se ne sarebbe fatto niente, anche perché, fra l’altro, Aza era appena diventato allenatore del Cibona (la prima squadra di Zagabria), anche se sarebbero andati a trovarlo spesso. Scene di guerra Drazen non ne ha vissute: il conflitto vero e proprio scoppiò due giorni dopo la sua partenza e lui lo seguì attraverso la CNN. La guerra era però sempre nei suoi pensieri e nelle domande dei giornalisti.

Il 23 novembre a East Rutheford arrivarono i Boston Celtics (la squadra più blasonata dell’intera NBA) dove militava l’amico e connazionale Stojan "Stojko" Vranković (cestista croato). Dražen si sentiva con l’amico ogni giorno al telefono e con lui parlava soprattutto della Croazia. Condividevano la stessa idea politica: per loro non c’era alcuna possibilità di pace, la guerra sarebbe finita soltanto con la totale indipendenza della Croazia. In conferenza stampa gli chiesero cosa sarebbe successo nel caso in cui la Jugoslavia fosse rimasta in qualche modo unita e lui gelò l’uditorio:

Mi auguro che la Croazia conquisti l’indipendenza, ma se questo non dovesse avvenire di sicuro io non giocherò mai più per la nazionale jugoslava (2).

In questa fase Dražen compì gesti di grande valore simbolico come il rifiuto di incontrare l’ambasciatore jugoslavo in Canada, che aveva chiesto di salutarlo dopo un’amichevole. Dražen non ebbe mai idee politiche forti, però gli eventi ed il senso di colpa per la lontananza lo portarono ad un fervore nazionalistico che pochi sportivi croati manifestarono con questa intensità, non fosse altro che per rapporti personali con amici serbi.

Sergio Tavčar avrebbe analizzato in questi termini la situazione legata a Petrović e, in generale, ai giocatori croati:

I giocatori jugoslavi erano lontani dalla politica e che si sarebbero accorti della disgregazione del paese soltanto di fronte alla guerra perché c’era un grande spirito nazionalistico in senso pan-jugoslavo che veniva inculcato fin dalle giovanili. Le differenze etniche non contavano, non soltanto nella pallacanestro ma anche negli altri sport. Davvero un mondo a parte, all’interno di una Jugoslavia dove le proteste contro il dominio della Serbia nella politica e nella pubblica amministrazione crescevano di anno in anno.
Inoltre Petrović non faceva politica ma era attento al mondo che lo circondava. Nel 1990 per quell’episodio con Divac e la bandiera si è sentito offeso, da croato. Sono momenti emotivi, non preparati, in cui si fa una scelta di campo. Senza quella vicenda credo che con Divac sarebbe rimasto in buoni rapporti, nonostante la guerra. Il gesto da lui fatto a Buenos Aires fu percepito da tutti i croati esattamente come lo aveva percepito Petrović, cioè come un’offesa imperdonabile alla loro appartenenza etnica e culturale. Dražen, poi, dall’America era preoccupatissimo per la sua famiglia e per i suoi amici: Sebenico era praticamente sul fronte. Sono anni difficilmente spiegabili a chi non viveva in Jugoslavia: per un breve periodo anche chi non era mai stato nazionalista lo diventò, recuperando una identità che forse nemmeno sapeva di avere (3).

   
In generale i giocatori croati, sebbene fossero cresciuti cestisticamente con i colleghi delle altre Repubbliche, serbi soprattutto, dovettero compiere forti gesti di rottura per evitare problemi con i propri connazionali. Toni Kukoč, ad esempio, dichiarò:

Scegliere da che parte stare è difficile ma ho amici in prima linea che, quando ho rivisto, mi hanno detto di non parlare più con Divac perché avrei potuto avere problemi con loro (4).

L’NBA fu molto attenta nel seguire gli sviluppi bellici sui Balcani, anche soprattutto attraverso le voci dei suoi giocatori. Intervistati separatamente ma posti di fronte alla stessa situazione, nel corso della stagione 1991-92, Vlade Divac avrebbe continuato a rimarcare l’inesistenza di problemi di carattere etnico tra i giocatori mentre Petrović si sarebbe mostrato assai preoccupato per la sua gente:

Durante questa stagione ho molti pensieri per la testa a causa della guerra in Croazia. Ma devo essere concentrato a fare il mio lavoro qui, ovvero giocare a pallacanestro. Tuttavia, appena posso, chiamo per sapere come stanno i miei amici, cosa stanno facendo, come vivono (5).

Tra costoro ci fu Velimir Perasović, l’unico cestista spalatino rimasto del gruppo che vinse le tre Coppe dei Campioni consecutive con la Jugoplastika Spalato. Al telefono raccontava a Petrović degli allenamenti interrotti dai frequenti blackout e della paura che si respirava in città (6). Nel basket jugoslavo la confusione era ormai totale.

NOTE
(1) S. Tavčar, La Jugoslavia, il basket e un telecronista, cit, pag. 170.
(2) S. Olivari, Gli anni di Dražen Petrović, cit, pag. 155.
(3) S. Olivari, Gli anni di Dražen Petrović, cit, pag. 214.
(4) Mauro Ottolina, Eravamo figli della Jugoslavia, articolo del 12 giugno 2018 pubblicato sul sito “www,aroundthegame.it”.
(5) Ivi.
(6) Olivari, Gli anni di Dražen Petrović, cit, pag. 154.


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