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Emanuele Di Nardo
Una volta fratelli: il basket e la crisi della Jugoslavia
L’ULTIMO SQUILLO DELLA STELLA ROSSA E LA BOSNIA AL CENTRO DEL MIRINO
Sinisa Mihajlovic, stella nascente del calcio serbo e protagonista assoluto dei trionfi internazionali della Stella Rossa Belgrado.

Arkan, capo della tifoseria belgradese e principale promotore della pulizia etnica serba. Fu legato a Mihajlovic da una profonda e sincera amicizia.

La tesi di laurea, a puntate, del giovane teatino appassionato di basket. Puntata 17.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 12 Marzo 2020 - Ore 11:00

IV.6: L’ultimo “squillo” della Stella Rossa
   
La maggior parte degli sportivi jugoslavi cercò di accasarsi all’estero. I più richiesti erano, per forza di cose, nell’ambito calcistico quelli della Stella Rossa. Costoro si erano prefissati l’obiettivo di portare la Crvena Zvezda sul tetto del mondo. Negli spogliatoi del “Marakana” (l’impianto sportivo della Stella Rossa), in un incontro tra tecnici, giocatori, dirigenti e addetti ai lavori venne firmato il “patto d’acciaio”. Nessuno avrebbe lasciato la Jugoslavia, martoriata dalla guerra, sino al termine della finale della Coppa Intercontinentale in programma a Tokyo l’8 dicembre 1991 contro i cileni del Colo Colo.
  
I giocatori continuarono ad allenarsi, nonostante patissero numerosi disagi. Rifiutarono quasi in toto le richieste di trasferimento all’estero e lo fecero perché, con il loro comportamento, volevano continuare a dare speranza al loro popolo, continuare a regalare un sorriso ai bambini, dire “Ecco guardate, siamo ancora con voi” e “Guardate! Qui giocano serbi, croati, macedoni, montenegrini e insieme siamo vincenti perché siamo una cosa sola, siamo jugoslavi!” (1).

L’8 dicembre la Stella Rossa vinse a Tokyo la Coppa Intercontinentale. Arkan, capo dei Deljie, aspettava i giocatori sotto la scaletta dell’aereo, come un Capo di Stato. Accogliendo i giocatori, regalò ad ognuno di loro un pugno di terra della Slavonia con l’impegno a conquistarla tutta. L’abbraccio più fraterno è con Siniša Mihajlović, il battagliero alfiere dell’orgoglio serbo, il più politico dei calciatori:

Il mondo sostiene che noi serbi abbiamo compiuto delle atrocità. Ma non c’era il mondo a vedere cosa succedeva davvero a Vukovar. I croati erano maggioranza, noi serbi minoranza. E si è scatenata la caccia al serbo. Il mio migliore amico, un croato, ha devastato casa mia. Quando mia madre ha chiamato suo fratello Ivo, mio zio, per dirgli di scappare, di mettersi in salvo a casa mia a Belgrado, lo zio le ha risposto: “Perché hai portato via tuo marito? Quel porco serbo dovevi lasciarlo qui, così lo scannavamo (2).

La riconoscenza verso Arkan non subirà tentennamenti nemmeno più avanti, quando, con le sue Tigri, si sarebbe reso il protagonista principale delle nefandezze genocide non solo in Croazia ma anche in Bosnia. Quando Arkan venne assassinato nel 2000, Mihajlović gli dedicò, insieme a Savicevic, un necrologio sui giornali. I tifosi della Lazio, nella curva nord dello stadio olimpico di Roma, esposero uno striscione che recitava “Onore alla Tigre Arkan”. Siniša fu sospettato come mandante della bravata, lui sostiene che non è vero. Nega ma non rinnega.

Il necrologio lo rifarei perché Arkan era un mio amico vero e un eroe per il popolo serbo. E io gli amici non li tradisco. Conosco tanta gente, anche mafiosi ma io non sono così. Se nazionalista vuol dire patriota, amare la mia terra e la mia nazione, beh, io lo sono. Per il mio paese ho fatto molte cose. Una sola non ho mai fatto, al contrario di alcuni calciatori croati: mandare soldi per comprare armi (3).

La Jugoslavia non esisteva più e, nei mesi successivi, l’onda di distruzione si sarebbe abbattuta anche sulle singole rappresentative nazionali.    


V.1: La Bosnia al centro del mirino

Il 15 gennaio 1992 i Paesi della Comunità Europea riconobbero la Slovenia e la Croazia come entità statali sovrane, decretandone l’ingresso nella comunità internazionale. Ma che la guerra avrebbe interessato nuovi fronti all’interno dell’ormai ex Jugoslavia era una cosa certa. Infatti le divergenze etniche scoppiarono definitivamente nella Repubblica più “mescolata” sotto questo punto di vista: la Bosnia-Erzegovina. Stando al censimento del 1991, la popolazione bosniaca era così distribuita: 44% musulmani, 31% serbi, 17% croati oltre alle numerose minoranze albanese, rom e montenegrina. Pertanto si trattava di una terra al cui interno si tentò di sperimentare quanto più possibile la coesione tra i vari gruppi sociali.

Spinto dal desiderio di contrastare le manovre accentratrici di Belgrado, il presidente della Bosnia, il musulmano Alija Izetbegović, decise di indire un referendum, per l’1 marzo 1992, valido per l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina. La nutrita minoranza serba (un terzo dell’intera popolazione) ovviamente tentò di boicottare il voto desiderando di restare all’interno della Federazione, ormai sotto il controllo serbo. Per questo motivo il 27 febbraio i serbi proclamarono la Repubblica Serba della Bosnia-Erzegovina sotto la guida di Radovan Karadžić. La figura di Karadžić fu legata a doppio filo, nel corso degli anni Ottanta, allo sport bosniaco e, in modo particolare, al Klub Sarajevo (la squadra di calcio della capitale bosniaca) in qualità di psichiatra. Infatti la Società decise di arruolare uno psichiatra col compito di studiare i comportamenti dei giocatori, capirne le difficoltà, trovare il rimedio, farli rendere in campo al meglio delle loro possibilità, motivarli. Faruk Hadžibegić avrebbe raccontato anni dopo della sua esperienza con lui:

Per ironia ci incitava a superare qualsiasi divisione etnica e religiosa per essere veramente un gruppo coeso, forte, unito davanti all’avversario. Era un personaggio stravagante. Al tempo sembrava un burlone pronto alla risata e agli scherzi. Ai cittadini di Sarajevo sembra ingenuo come un montanaro e le sue origini non sarebbero state un dettaglio trascurabile se il successivo conflitto fosse letto come uno scontro tra la pura campagna, dove si conservavano le radici del serbismo, e i corrotti centri cosmopoliti giù a valle. Nessuno aveva sospettato allora che potesse diventare un politico, tantomeno un macellaio e avrei passato l’intera esistenza a chiedermi che cosa gli sia successo, come potessero convivere in lui due personalità così diverse (4).


Il referendum sarebbe passato con il 64% dei consensi, nonostante l’astensione dei serbi. Tuttavia quello fu l’ultimo scontro sul piano politico ed elettorale, prima del vero e proprio scoppio delle ostilità nel campo di battaglia. Si sarebbe aperto, di fatto, un fronte di delicate operazioni diplomatiche nel quale Milosevic e Tudjman si sarebbero accordati, alle spalle dei musulmani, per la spartizione equa della Bosnia-Erzegovina. Sarajevo diventò un duro teatro di guerra tra i musulmani che controllavano il centro e i serbi, a protezione delle periferie e delle colline circostanti. La guerra che ne sarebbe conseguita fu di un’atrocità tale da sollevare definitivamente l’opinione pubblica internazionale.

La Comunità Europea si era attivata prima del referendum proponendo il “Piano Cutileiro” che prevedeva la cantonizzazione della Bosnia ovvero la divisione del territorio in cantoni sulla base della presenza maggioritaria delle varie comunità. Il suddetto piano venne percepito come il preludio della partizione della Bosnia nelle tre aree d’influenza. Tuttavia fallì quando Izetbegović venne a conoscenza dell’incontro segreto a Graz tra Karadžić e Mate Boban (rappresentante dell’HDZ in Bosnia) per la spartizione tra la Serbia e la Croazia (5). La CE, dopo l’eco dei massacri perpetrati dai serbi capeggiati da Arkan, riconobbe la sovranità della Bosnia-Erzegovina (6 aprile) ma la sua manovra non si rivelò tempestiva: il giorno successivo, l’assemblea della Repubblica Serba di Bosnia dichiarò la sua autodeterminazione e la nascita dello stato indipendente della Republika Srpska. Sarebbero bastati tre mesi e anche la minoranza croata avrebbe optato per la nascita dello stato indipendente di Herceg-Bosna (3 luglio).

NOTE
(1) Crepaldi, Footballslavia, cit, pag. 209.
(2) G. Riva, L’ultimo rigore di Faruk, cit, pag. 165.
(3) Ivi.
(4) G. Riva, L’ultimo rigore di Faruk, cit, pag. 28-29.
(5) F. Privitera, Jugoslavia, cit, pag. 152.

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