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Emanuele Di Nardo
Una volta fratelli: il basket e la crisi della Jugoslavia
UNA VOLTA C’ERA UN PAESE DI PALLACANESTRO
Bogdan Tanjevic, ex Commissario Tecnico della Nazionale Italiana che vinse l’oro al Campionato Europeo 1999 in Francia.

Boris Stankovic, ex delegato jugoslavo della FIBA, scomparso nel marzo scorso. Fu uno degli artefici della presenza dei professionisti americani alle Olimpiadi di Barcellona 1992.

Dejan Bodiroga, cestista più rappresentativo della Jugoslavia nella seconda metà degli Anni Novanta. Nella foto, è in azione nella Semifinale persa contro l’Italia al Campionato Europeo 1999 in Francia.

La tesi di laurea, a puntate, del giovane teatino appassionato di basket. Puntata 21.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 09 Aprile 2020 - Ore 12:30

V.5: Una volta c’era un paese di pallacanestro

Nel 1974 il compianto Borislav Stanković dimostrò tutta l’ammirazione che il modello cestistico americano suscitava negli addetti ai lavori europei compiendo un viaggio non solo istituzionale (per la presenza dei professionisti alle Olimpiadi) ma anche mirato a carpirne i segreti dei colleghi statunitensi. Non sorprenda il fatto che, a distanza di poco meno di vent’anni, le parti s’invertirono in un modo assolutamente interessante ma preventivabile: infatti dall’inizio degli anni Novanta la scuola di basket jugoslava divenne la principale risorsa per il reclutamento e l’importazione di atleti stranieri nei college e nell’NBA. Per di più la città di Spalato, dotata di circa centomila abitanti, da sola forniva più atleti al basket professionistico americano (quattro) di qualsiasi altro paese straniero al di fuori della Jugoslavia (1).

In realtà l’attenzione riservata dai dirigenti americani agli atleti formatisi nel sistema jugoslavo fu da intendere come il riconoscimento di un’eccellenza sportiva pari o, addirittura, superiore alla propria. Ad esempio, nel 1993, i Chicago Bulls (la franchigia più vincente degli anni Novanta in virtù dei sei campionati vinti sui dieci disputatati) assunsero uno scout croato per reclutare tutti i talenti provenienti dall’est Europa, soprattutto ex jugoslava. Nel draft NBA (evento annuale organizzato per l’appunto dall’NBA nel quale le trenta squadre possono scegliere nuovi giocatori; essi devono avere almeno diciotto anni e di solito provengono dai college, nonostante fossero frequenti anche le scelte di giocatori internazionali o provenienti direttamente dall'high school, opzione divenuta impossibile dal draft del 2006 (2) del 2000, cinque dei quattordici atleti non statunitensi selezionati provenivano dagli stati successori della Jugoslavia e, da quel momento, l’afflusso dei cestisti slavi è rimasto ininterrotto oscillando da due a sette giocatori per draft ogni anno.

Dopo la disintegrazione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia nel 1992, i cestisti e gli allenatori provenienti dalle varie Repubbliche proseguirono le proprie carriere prestigiose tanto nel basket europeo quanto in quello americano. Le squadre nazionali degli Stati successori non poterono mantenere lo stesso prestigio internazionale e la stessa dinamicità nei trofei come negli anni Settanta e Ottanta, anche se la squadra prevalentemente “jugoslava”, la Serbia, vinse diversi importanti titoli internazionali, a causa di un fattore: l'eredità della vecchia scuola jugoslava della pallacanestro. La Croazia invece, nonostante un numero maggiore di atleti impegnati nell’NBA, cadde nell'oscurità per alcuni anni dopo la scomparsa di Petrović.

Agli Europei ‘93, poi vinti dalla Germania in finale contro la Russia, lo squadrone croato apparve irriconoscibile venendo eliminato quasi subito. Neppure l’anno successivo, ai Mondiali di Toronto, i croati riuscirono a riprendersi decorosamente, perdendo in semifinale contro la Russia, che era a sua volta un pallido ricordo dello squadrone di qualche anno prima. Nel 1995, con la guerra in Bosnia che stava avviandosi all’epilogo con l’inequivocabile sconfitta dei serbi e delle paramilizie delle varie Krajine, la Comunità internazionale permise ai serbi di riprendere il loro posto negli agoni internazionali (3). Dal punto di vista cestistico fu indubbiamente un bene: c’erano pur sempre sulla breccia i vari Divac, Paspalj, Savic, Djordjevic, Danilović, Rebrača più l’astro nascente Bodiroga, per cui la squadra era più competitiva. Lo scontro tra le due nazionali slave non avvenne anche se entrambe arrivarono in semifinale. Ma, mentre la Jugoslavia ebbe la meglio sui padroni di casa greci, la Croazia venne sconfitta dalla Lituania. In una finale combattuta, i serbi piegarono la strenua resistenza dei lituani (96-90). Ma la cerimonia di premiazione rappresentò una delle pagine più tristi della storia del basket: oltre ai copiosi fischi del pubblico greco nei confronti dei cestisti jugoslavi, colpevoli di aver eliminato i padroni di casa dalla competizione, nel momento in cui i rappresentanti della FIBA si apprestarono a consegnare la medaglia d’oro agli atleti vincitori, la squadra croata abbandonò in modo plateale il podio uscendo dal palazzetto di Atene (4).

Negli anni a venire, la “Jugoslavia” si sarebbe dimostrata senza dubbio la più forte delle eredi del basket jugoslavo. Contrariamente ai croati che, col declino della sua generazione dorata non riuscirono in seguito a produrre giocatori neppure lontanamente di pari valore, i serbi sono riusciti invece a trovare sempre qualcuno di buono, magari non più come prima, ma un ricambio all’altezza l’hanno sempre prodotto. Sempre più sotto la guida di Bodiroga, i serbi sono riusciti ad arrivare nel 1996 alla finale olimpica perdendo contro gli Stati Uniti dopo un primo tempo giocato praticamente alla pari. Poi la Serboslavia ha vinto anche gli Europei del ’97 ed i Mondiali del ’98, giocati in Grecia (5).

I momenti più bui della pallacanestro jugoslava risalivano all’Eurobasket 1999. La Repubblica Federale di Jugoslavia (FRY, Serbia e Montenegro) terminò il campionato europeo al terzo posto mentre la Croazia non riuscì nemmeno ad accedere in semifinale. Tuttavia l’impronta slava rimase ben impressa sulla manifestazione: infatti a vincere il torneo continentale fu l’Italia grazie soprattutto all’apporto dell’ala forte (un ruolo che, nella pallacanestro, viene affidato ad un giocatore dotato di una buona fisicità e di grande tecnica) nativa di Kranj, in Slovenia, e poi naturalizzato italiano, Gregor Fučka. Per di più la nazionale italiana era gestita, in panchina, dall’allenatore montenegrino, anch’egli naturalizzato italiano per meriti sportivi, Bogdan Tanjević.

Tanjević, comunque, avrebbe continuato a definirsi sempre uno jugoslavo, rimpiangendo il periodo unitario della Federazione e recriminando gli orrori della guerra:

Dopo la guerra il mio Paese non esisteva più. Non parlo di politica o di soldi, parlo di morale che era a terra. La mia bandiera non esisteva più. Era bellissima la mia bandiera: al centro c’era il fuoco con sei fiamme, ciascuna punta rappresentava una delle sei Repubbliche. E io sentivo di appartenere in egual modo a ciascuna di esse. La guerra ha consumato la mia vita più dello sport e delle sue tensioni. Ho sofferto per i miei amici e per la gente di Sarajevo che era incolpevole. Conoscevo gente che è morta di crepacuore mentre i sopravvissuti sono rimasti disorientati, costretti a mettere tutto in dubbio, perfino se la vita precedente fosse reale o frutto di un sogno. E se ho avuto quello che ho avuto (nel 2010 gli fu diagnosticato un tumore al colon, ndr), non è stato certo per via del sigaro o dello stress delle partite, quello non c’entra. C’entra invece quello che successe nella mia patria, nella mia città (sebbene fosse nativo di Pljevlja, in Montenegro, la sua carriera sportiva è legata indissolubilmente al Bosna di Sarajevo, ndr), la guerra e tutto quello che ne è conseguito: la disgregazione della nazione. È il corpo che si rifiuta, che si disinnamora di questo tipo di vita, di quest’inganno, di questo tradimento. Una volta eravamo tutti fratelli e, all’improvviso, solo odio! (6)

A Sidney si disputarono i Giochi Olimpici del 2000, il punto più basso della pallacanestro slava: per la prima volta dagli anni Sessanta, infatti, gli jugoslavi non erano tra le migliori squadre del torneo. La Croazia mancò la qualificazione mentre la RFY, con quattro sconfitte, giunse al sesto posto. Ancora oggi, le Olimpiadi di Sidney sono ricordate per il declino della pallacanestro jugoslava (7).

Diversi anni dopo la disintegrazione della Federazione jugoslava, gli Stati successori dell'ex Jugoslavia persero lo status di superpotenza del basket che la Jugoslavia aveva guadagnato durante il tempo della fratellanza multietnica, del socialismo e della Guerra Fredda. La FRY si classificò al settimo posto, la Croazia al decimo posto, e la Slovenia al tredicesimo nella classifica ufficiale della Federazione europea di Pallacanestro per il 2000 (8). La caduta si è anche manifestata in risultati relativamente mediocri delle squadre giovanili degli Stati successori. Durante gli anni Novanta, le squadre juniores della FRY non hanno mai raggiunto il primo posto in un prestigioso torneo europeo. La Croazia era in qualche modo migliore: i suoi junior trionfarono nel 1996 mentre la nazionale maggiore arrivò seconda nel torneo europeo del 2000 per gli Under 19 a Zara. Eppure secondo le classifiche più talentuose, esploratori e manager stranieri offrivano loro borse di studio universitarie e contratti lucrativi. La maggior parte dei giovani di talento era desiderosa di ottenere un contratto e fuggire da un paese che consideravano senza futuro.

Questo, ovviamente, ha influito negativamente sulla qualità delle due scuole nazionali di basket e ha danneggiato in modo particolare le due rispettive squadre nazionali. In breve, anche se le squadre nazionali della Croazia e della Jugoslavia, dominata dalla Serbia, sono state spinte dal nuovo nazionalismo etnico, hanno perso ciò che era solito renderle in passato davvero potenti: un nazionalismo alimentato dallo spirito di fratellanza multietnica; la diversità e risorse umane più ricche; un lavoro di squadra produttivo sul campo di basket stimolato dallo stesso benestante nazionalismo.

NOTE
(1) V. Perica, United they stood, divided they fell, cit.
(2) Fonte: Wikipedia.
(3) S. Tavčar, La Jugoslavia, il basket e un telecronista, cit, pag. 174.
(4) R. Gandolfi, Dražen Petrović e Vlade Divac, cit.
(5) S. Tavčar, La Jugoslavia, il basket e un telecronista, cit, pag. 174.
(6)Mattia Moretti, “Bogdan Tanjević, l’allenatore jugoslavo dal cuore spezzato”, “East Journal”, 10 febbraio 2016.
(7) V. Perica, United they stood, divided they fell, cit.
(8) Ivi.


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