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Martedì, 16 Aprile 2024 - Ore 23:14 Fondatore e Direttore: Luca Maggitti.

Emanuele Di Nardo
Una volta fratelli: il basket e la crisi della Jugoslavia
CONCLUSIONE
La Nazionale della Serbia.

La Nazionale della Slovenia.

La Nazionale della Croazia.

La tesi di laurea, a puntate, del giovane teatino appassionato di basket. Puntata 24, ultima della serie. Grazie, di cuore, a Emanuele.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 30 Aprile 2020 - Ore 11:30

Quando ho deciso di affrontare questa specifica tematica, cercando di approfondire il legame tra la pallacanestro e la politica jugoslave, ammetto di aver adottato inizialmente un punto di vista di parte.

In seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, la letteratura sportiva spesso è incappata nell’errore di semplificare un quadro che, in realtà, era molto più complesso e variegato. Si riteneva che lo sport e, in modo particolare, la pallacanestro non solo fossero un’oasi all’interno della quale non sussistevano divisioni ma anche che avrebbero potuto rappresentare uno strumento di pace e di nuova collaborazione una volta superata la guerra.

Spinto esclusivamente dall’interesse cestistico, ero pressoché convinto che la guerra degli anni Novanta avesse distrutto un sistema sportivo impeccabile, altrimenti longevo e vincente ancora per molto tempo. E che gli atleti avessero pagato il prezzo più alto di tutti, essendo stati costretti a dover ricostruire quasi da capo le rispettive carriere con la maglietta della propria nazionale.

Pensare, infatti, alla Nazionale unita nelle manifestazioni immediatamente successive alle Olimpiadi del 1992, ad esempio quelle di Atlanta ‘96 dove venne riammessa la “Jugoslavia”, ha continuato a suscitare negli addetti ai lavori la fantasia di una super squadra capace di dominare ogni singola partita. Lo stesso Divac era convinto di questo.

Ma la ricerca mi ha consentito di osservare da una prospettiva diversa la situazione: soprattutto le numerose testimonianze dirette, che ho riportato costantemente nel corso della trattazione, si sono rivelate preziose per chiarire un quadro storico-politico, per l’appunto, articolato.

I rapporti tra i vari gruppi etnici all’interno della squadra non sempre erano idilliaci e, sebbene il senso comunitario venisse messo al primo posto per poter raggiungere più facilmente la via del successo, comunque alcune scorie del passato, soprattutto tra le componenti croata e serba, continuarono a persistere, forse in uno stato quiescente ma pur sempre attivo.

La finale dell’Europeo 2017 tra la Slovenia e la Serbia si è dimostrata fondamentale per me perché, attraverso quella partita, è sorto il desiderio di approfondire il mondo della pallacanestro jugoslava, ritenendo che, se quelle due squadre fossero rimaste unite, insieme alle delegazioni delle altre Repubbliche ex jugoslave, avrei potuto essere testimone oculare di un gruppo senza paragoni. Per tale motivo questa manifestazione chiude la mia trattazione.

Ma, se in principio la suddetta finale rappresentava l’esempio più diretto di un’occasione mancata e sanciva la definitiva fine dello jugoslavismo sportivo, ora posso dire che essa avrebbe rappresentato un’occasione.

Abbiamo visto come lo sport sia stato un volano della propaganda titina prima e dei vari nazionalismi poi: i risultati sportivi con Tito servivano a cementificare la Federazione, nonostante le spinte centrifughe che la destabilizzavano all’interno. Dopo la sua scomparsa nel 1980, avrebbero assunto un valore opposto ovvero dimostrare la superiorità della propria repubblica a dispetto delle altre, fino al momento fatale degli scontri bellici.

Concluderei allora con un’altra domanda: se per un momento provassimo a considerare il frutto della dissoluzione a livello sportivo non come un dramma che ha decretato la scomparsa di un movimento cestistico unico ed irripetibile bensì come un’occasione di sviluppo e di crescita per le singole federazione nazionali? Il caso della Slovenia, come abbiamo detto, ne è l’emblema.

Sicuramente il nazionalismo, nelle sue sfumature e varianti, ha contribuito a disperdere un patrimonio umano e cestistico di assoluto livello ma, inconsciamente, ne ha innescato un rinnovamento fondamentale. Se prima la nazionale jugoslava, nelle varie manifestazioni internazionali, poteva schierare in squadra solo dodici dei migliori prospetti delle singole Repubbliche, oggi è possibile apprezzare le gesta sportive di molti più cestisti, chiamati a difendere la propria bandiera.

E per questo motivo, quindi, la finale tra Slovenia e Serbia non deve solo far ricordare, con nostalgia, la stagione unitaria della Jugoslavia ma serve anche per stimolare l’intero movimento ad un costante miglioramento. Se a distanza di vent’anni dalla fine della guerra, due delle principali Repubbliche dell’ex Jugoslavia si sono affrontate in una finale europea, cosa potrebbe accadere tra altrettanti anni qualora le singole scuole di pallacanestro nazionali continuassero a svilupparsi?


In attesa che il campo ci fornisca i suoi risultati, non ci resta che constatare un aspetto: la Jugoslavia unita ha rappresentato il secondo polo di attrazione di pallacanestro al mondo, dietro solo agli Stati Uniti d’America, come dimostra ancora oggi il mercato dei cestisti ex jugoslavi, apprezzati e richiesti dalle squadre di vertice.

In qualità di addetto stampa di una società cestistica, la Teate Basket Chieti, ho avuto la possibilità di osservare quotidianamente atleti balcanici allenarsi in gruppo e di verificare, attraverso i loro procuratori, che la loro nazionalità di provenienza, che sia serba, montenegrina, bosniaca o slovena, è sinonimo di qualità ed eccellenza.

Ormai questi giovani atleti si stanno integrando sempre di più nel sistema occidentale, vivendo come i propri coetanei dei paesi europei, e non solo, più sviluppati. Le limitazioni del comunismo titino in materia di trasferimenti all’estero sono solo un lontano ricordo che non li tocca minimamente.

Per cui le premesse per vedere l’esplosione definitiva della scuola di pallacanestro jugoslava, sebbene paradossalmente non esisti più in quanto tale, sono concrete. E non ci resta che assistere alla storia in movimento.

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Emanuele Di Nardo
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