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Olimpiadi: storie di soprusi e rivalse.
BERLINO 1936
Luz Long e Jesse Owens, alle Olimpiadi di Berlino 1936.

Il marchio delle Olimpiadi di Berlino 1936.

Adolf Hitler, alle Olimpiadi di Berlino 1936.

Saltano le Olimpiadi di Tokyo? Niente paura, c’è Emanuele Di Nardo con le sue ‘storie a cinque cerchi’. Puntata 02.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Mercoledì, 01 Luglio 2020 - Ore 11:12

Ci sono eventi che non hanno bisogno di essere raccontati perché sono impressi nella memoria collettiva. Ci sono manifestazioni sportive talmente straordinarie da essere sufficiente citarle per sprigionare i ricordi. Nel nostro caso bastano solo due parole: Berlino 1936. L’Olimpiade di Hitler e Owens. Il resto è storia. Infatti, come prima puntata della nostra rubrica, abbiamo deciso di prendere in esame l’Olimpiade ritenuta più politicizzata del secolo scorso, quella organizzata nella Germania nazista quasi alla vigilia della Seconda guerra mondiale.

Partiamo dallo sfatare un mito: il Comitato Olimpico Internazionale designò la Germania come organizzatrice dei Giochi del ’36 solo nel 1931. Questo è un dato storico molto importante da tenere a mente perché Adolf Hitler fece la sua definitiva comparsa sulla scena politica teutonica solo nel 1933. Pertanto le accusa mosse in passato al CIO di aver favorito il Nazismo attraverso questa scelta appaiono infondate. È altresì vero che, stando alle cronache del tempo, diversi Paesi chiesero nel 1933 al Comitato, all’indomani dell’ascesa del Führer, di designare un’altra città ospitante. Ma la richiesta venne respinta. Pur non avendo avuto un ruolo da protagonisti nella scelta di Berlino, Hitler e, per essere più precisi, il suo ministro della propaganda Joseph Goebbels compresero l’importanza dell’occasione offerta, sfruttando le Olimpiadi come strumento per allargare il consenso del partito e per mostrare al mondo intero la grandezza della Germania. Si ritiene che il governo tedesco investì circa 42 milioni di marchi per costruire un complesso olimpionico di 325 acri.

Ma, a parte gli investimenti economici, Hitler prese direttamente il controllo dell’organizzazione allontanando il presidente del comitato olimpico, Theodor Lewald, perché suo nonno materno era ebreo, e sostituendolo con un ex colonnello delle SA. Inoltre escluse dalla delegazione tedesca diversi atleti di origine ebraica, come ad esempio il tennista Daniel Prenn ed il pugile Erich Seelig. Di fronte a questa netta presa di posizione, gli USA minacciarono di boicottare le Olimpiadi ed inviarono in Germania il proprio comitato olimpico presieduto da Avery Brundage. Qui accade l’impensabile: Hitler, per evitare il boicottaggio, richiamò Lewald come “consigliere” nel comitato olimpico e mostrò a Brundage speciali centri d’allenamento riservati agli ebrei, stando alle sue parole. Eppure, a poche settimane dalla partenza per l’Europa, gli unici due atleti d’origine ebraica all’interno della delegazione statunitense furono sostituiti per motivi poco chiari. Tuttavia in Germania arrivò lo stesso Jesse Owens.

Nell’estate del 1936 presero il via i Giochi, i primi ad essere trasmessi in televisione. L’accurata campagna pubblicitaria promossa dal Terzo Reich venne praticamente annientata dai risultati sportivi della “freccia dell’Alabama”, capace di conquistare quattro medaglie d’oro nei 100 metri, nei 200, nella staffetta 4×100 e nel salto in lungo. Un afroamericano che si ergeva sul podio più alto di fronte alla tribuna d’onore presieduta dal principale promotore della razza ariana. E qui giungiamo al punto focale del nostro racconto: Hitler venne immortalato dalle telecamere al momento della premiazione, mentre lasciava la tribuna evitando di rendere omaggio all’atleta statunitense. La stampa mondiale versò litri d’inchiostro per mettere in luce la meschinità del leader tedesco e la sua incapacità di riconoscere il merito ad un uomo solo perché “inferiore”.

Eppure sembra che le cose non siano andate esattamente così: nella sua autobiografia, Owens sarebbe tornato a quel momento e avrebbe dichiarato che, al termine della premiazione in occasione del salto in lungo, al momento di rientrare negli spogliatoi, passando sotto la tribuna riservata ai gerarchi nazisti, incontrò il Führer, il quale, alzatosi dalla sua poltrona, lo salutò e ne riconobbe il suo valore.

Addirittura il giornalista sportivo Siegfried Mischner parlò di una foto autografata inviata da Hitler a Owens ad Olimpiadi terminate, la quale foto Jesse custodiva gelosamente nel suo portafoglio. Quello che emerge dal racconto di Owens, fonte molto attendibile perché visse personalmente quei momenti, è che il colore della sua pelle non lo rese vittima di atroci discriminazioni in Germania, almeno non tanto quanto in patria. Infatti, tornato in America, più volte Owens cercò di far desistere la stampa statunitense dal ricamare sull’episodio dei Giochi del ’36 chiosando con una frase che ci riporta ai giorni nostri: “Vero, Hitler non mi ha stretto la mano ma fino a qui non l’ha fatto neanche il Presidente degli Stati Uniti.”

Il Presidente Roosevelt non incontrò mai pubblicamente il talento dell’Alabama per onorarlo dei successi ottenuti in terra teutonica, mostrando ancora una volta quanto la discriminazione razziale avesse un peso specifico importante nelle dinamiche politiche americane. Con questo non si vuole rivalutare la figura di Hitler o sminuirne le atrocità commesse ma si vuole allargare l’orizzonte di riflessione. Un orizzonte che ci riporta al dramma che stanno vivendo oggi milioni di afroamericani negli USA, un dramma ancor più cruento dopo la morte di George Floyd.

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Emanuele Di Nardo
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Emanuele Di Nardo
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