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Il Critico Condotto
QUALCOSA SULLA POESIA DI FABRIZIO SCLOCCHINI
‘Omaggio a Duchamp’ di Fabrizio Sclocchini.

Simone Gambacorta ci porta alla scoperta di un fotografo che è un poeta del concetto e descrive gli aspetti mutevoli e complessi della realtà.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Venerdì, 02 Dicembre 2022 - Ore 15:00

Per porsi in modo non corrivo dinanzi alle immagini fotografiche di Fabrizio Sclocchini è utile cominciare da una sua frase: «Il concettuale è nel mondo». L’ha detta in un’intervista fattagli da Rai Educational anni fa. Attenzione: Sclocchini dice quelle parole en passant, la sua è una frase “laterale”, ma possiede un grande valore refertuale: lo possiede in quanto indica un dato essenziale all’interno della sua ricerca artistica.

Bisogna tenere presente che Fabrizio Sclocchini è un poeta. Un poeta del concetto. È il poeta del “qui” e “ora” (come lui stesso giustamente dice). Gianni D’Elia (con cui ha firmato i libri “Coro dei fiori” e “Quadri della riviera”, ideati e curati da Sclocchini stesso) lo ha definito «il fotografo-poeta che ci incalza».

Non è un verso casuale. Poeta non lirico, non elegiaco, ma poeta del suo tempo (epoca), poeta del guardare con lucidità e immediatezza le cose che stanno nel mondo: poeta dell’«aria del tempo», per dirla con il suo amico Franco Loi (insieme hanno pubblicato un’antologia de “L’Angel”, uscita nella stessa collana che ha ospitato i libri firmati con D’Elia, la “Nuova officina adriatica”, anch’essa nata per volontà di Sclocchini).

Per questo – voglio dire: per questo “dato di poesia” – vale per Sclocchini ciò che Giovanni Macchia diceva di Baudelaire. In una pagina di “Baudelaire e la poetica della malinconia”, infatti, Macchia scrive: «Egli può cercare la poesia direi dove vuole, dove non la cercano gli altri».

La frase va applicata al caso di Sclocchini (che con la nozione di malinconia, in quanto postmoderno, non ha nulla a che fare) staccandola dallo “specifico” di Macchia e Baudelaire. Va letta, in altre parole, come una libera possibilità di esplicazione ed esplicitazione di un percorso di ricerca che è tutto interamente calato nella dimensione della poesia. Spiega benissimo, quella frase, quel che lo sguardo fenomenologico di Sclocchini fa: trova la poesia lì dove nessuno andrebbe a cercarla.

La trova, in quanto la incontra (in quanto “se la ritrova davanti”), come fa un altro poeta del caos, Héctor Belascoarán, il detective messicano che, con il suo solo occhio buono «gratta la superficie delle cose per mettere a nudo la pelle del paese” (così in “Niente lieto fine”, Il Saggiatore, 2001, traduzione di Stefania Cherchi).

La differenza di fondo sta nel fatto che l’investigatore inventato da Paco Ignacio Taibo II, proprio in quanto investigatore, pone nella sua ricerca un elemento “intenzionale” che in Sclocchini è invece soppiantato dall’immediatezza del cogliere quel che avviene “sotto il suo sguardo”, liberamente parafrasando un titolo di Franco Speroni (“Sotto il nostro sguardo. Per una lettura mediale dell’opera d’arte”, Costa & Nolan, 2005).

È un discorso non dissimile da quello che s’incontra, a voler cambiare area e autore di riferimento, in una frase di “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg: «Le poesie erano dunque così: semplici, fatte di niente; fatte delle cose che si guardavano».

Guardare: è questa l’area semantica di riferimento: lo sguardo, quindi, come «prelievo visivo» (cito da Sclocchini). Vi rientra anche «il guardare lontano» di Giuliano Scabia, con cui Sclocchini ha firmato (e curato) una edizione dei “Canti brevi” (un volume con “allegati” di enorme importanza: vedasi il carteggio tra i due, che costituisce un libro nel libro e che è anche il “nome” del libro).

Il punto è che per Sclocchini, endemicamente fenomenologo, il “guardare” precede e differisce profondamente dal “vedere” (che è un processo razionale): «Il concettuale è nel mondo», allora, quando, e in quanto, il guardare lo colga nel suo primo manifestarsi. Il magistero di Wittgenstein è (letteralmente) un “incipit” (vedasi quello del “Tractatus”) ineludibile: «Il mondo è tutto ciò che accade».

In Sclocchini è inoltre fondamentale l’elemento urbano, metropolitano, cittadino, anche politico. Si vedano le foto del manicomio di Teramo, che sono immagini di “un” luogo con cui uno sguardo ha stabilito una relazione nel “qui e ora” di quando furono scattate; niente a che fare con lo struggimento allotrio che erroneamente può essere loro assegnato da una fuorviante idea storico-documentaristica.

Sclocchini agisce nel “distacco”, nella lucidità, «senza empatia – come ha scritto a suo tempo Ezio Sciarra –, senza proiezioni e dilemmi esistenziali, solo con l’attenzione al lascito mitico di tracce di una identità dal messaggio riconoscibile. Si tratta di tracce della territorialità nella forma di citazioni barocche, che coinvolgono sia visioni auliche sia rimandi al quotidiano simbolico» (Nerio Rosa, Ezio Sciarra, “Le immagini postmoderne di Fabrizio Sclocchini”, Università di Teramo, Dipartimento di teoria dei sistemi e delle organizzazioni, Edigrafital, 1998, p. 11).

Mi ha detto Sclocchini: «Il punto di arrivo della flanerie è la metropoli». Non a caso la città che, nella sua terra d’origine e residenza, ossia l’Abruzzo, più lo attrae, è Pescara, la quale presenta un’indole  schiettamente metropolitana. Tuttavia questo dato riferito all’Abruzzo rischia di rivelarsi troppo ristretto (almeno secondo una lettura molto provinciale) e allora lo si può facilmente affiancare al dato “statunitense”, costituito dalla serie di immagini realizzate da Sclocchini a Manhattan credo nel 1998.

È necessario a questo punto dire che per Sclocchini una foto ha senso se (quale immagine) sa caricarsi di riferimenti ipertestuali (link) e se quindi riesce, anche allegoricamente, a istituire «ponti ermeneutici», a «rimandare ad altro», come lui stesso dice. Il “rimandare” deve essere qualcosa di immediato e non pensato, come fosse un riflesso condizionato; viceversa, si verificherebbe un “tragitto forzato”, come in una sofisticazione, come in una “costruzione” volontaristica obbediente a una “idea”.

«Lo stile deve cancellare il condizionamento particolare, il procedere materiale dell’individuo raziocinante. Il pensiero deve presentarsi avulso dal modo in cui è stato conquistato, come una realtà a sé, che non ha nulla di personale», scrive Giorgio Colli in “Dopo Nietzsce, Adelphi, 1996, p. 34). Il concetto può essere utilmente (e liberamente) applicato al caso nostro per rendere meglio comprensibile il discorso del “distacco”.

Il senso dell’heideggeriano «essere-nel-mondo» di Sclocchini mi pare utilmente (e indirettamente) descritto (questo che sto proponendo è anch’esso un link “motu proprio”, ossia a mediazione zero) da un verso di Milo De Angelis: «In mezzo a tutto quel presente» (“Tutte le poesie”, Mondadori, 2017, p. 152).

Direi che la ricerca di Sclocchini è sempre “in mezzo al presente” (in quanto “corporeità” sensibile e percettiva di Sclocchini, non in quanto “idea” di ricerca) e – nell’ambito urbano – coglie i tatuaggi delle città e delle cose. Cioè quello che sta nella «superficie» calviniana, nella «pelle del mondo».

Così Sclocchini mi ha parlato del suo lavoro (cito testualmente da una conversazione telefonica del 15 marzo 2020, come da miei appunti): «Io scrivo – anzi: descrivo – gli aspetti mutevoli e complessi della realtà. Dico questo perché non esiste una realtà intesa come assoluto, come idea di realtà: quindi quando parlo degli aspetti complessi e mutevoli della realtà, smembro la realtà. Esistono realtà relative. Si può scrivere con l’inchiostro, che è un elemento chimico-fisico, e si può scrivere con la fotografia, perché anche il fotone che colpisce l’elettrone è un fatto chimico-fisico».

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Simone Gambacorta
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