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È il cinema, bellezza! [La settima arte vista da Lorenzo Rastelli]
IL GRANDE LEBOWSKI: LA GRAFFIANTE DISTRUZIONE DEL MITO EDONISTA AMERICANO.


Lorenzo Rastelli, cinefilo classe 2000, continua la sua collaborazione con ROSETO.com recensendo ‘Il grande Lebowski’, film del 1998 diretto da Joel Coen e prodotto dal fratello Ethan.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 25 Gennaio 2018 - Ore 18:30

Passate le feste, e ingurgitata come tutti voi una considerevole quantità di cibo, mi trovo a scrivere questa quarta analisi cinematografica con una pressante necessità, che si è manifestata in modo sempre più evidente con la prosecuzione del mio ruolo di “recensore”, ovverosia quella di avvicinarmi ad un cinema, come dire, più popolare e conosciuto dai miei (eventuali!) appassionati lettori.

Partendo da questo presupposto, vorrei precisare a chi legge che trattare di una pellicola come “Il grande Lebowski” (Fratelli Coen - 1998) rappresenta un’operazione di alleggerimento necessaria a un “critico“ come il sottoscritto per evitare di diventare prigioniero di una percezione della materia filmica lontana da quella di chi lo legge, cosa che, inevitabilmente, tende a creare una barriera difficilmente sormontabile.

Premesso ciò, veniamo al film, facendo però una rapidissima contestualizzazione del periodo storico di riferimento, sicuramente utile per la comprensione di un’opera destinata a diventare, nel tempo, uno dei veri e propri cult degli anni 90...

A cavallo tra la seconda metà degli anni 80 e la prima del decennio successivo, il cinema americano è stato caratterizzato da un profondo rinnovamento legato, primariamente, alla brillante consacrazione di una generazione di “enfants prodiges” che hanno colmato il vuoto generato dal crollo della new Hollywood causato, soprattutto, del memorabile flop dei “Cancelli del Cielo” (1980) di Michael Cimino (1939-2016), che portò al fallimento della major produttrice United Artists.

Fra gli alfieri di questa rinascita, in ordine sparso, troviamo sicuramente Quentin Tarantino (1963), Jim Jarmusch (1953), Paul Thomas Anderson (1970) e, appunto, Joel (1954) e Ethan (1957) Coen, generalmente noti come i Fratelli Coen.

Il Grande Lebowski, a mio modesto avviso, è il film che, insieme a Pulp Fiction, diretto magistralmente quattro anni prima da Quentin Tarantino, ha riscritto completamente l’immaginario del cinema americano del decennio lasciandosi ricordare con alcune sequenze memorabili…

La grandezza della pellicola risiede - come spesso accade quando questi due fratelli estremamente talentuosi e poliedrici si cimentano nella commedia - in una sceneggiatura che, pur immergendosi a volte in una dimensione onirica, risulta granitica e imperniata su battute che suscitano la proverbiale risata a denti stretti, stimolando una consequenziale riflessione sui temi fondanti della gag.

Inoltre, credo sia necessario mettere in risalto il forte intento satirico che permea la pellicola e che è indubbiamente volto a scardinare i miti fondanti di un’America la cui società si basa su una vuota contemplazione dei valori di violenza e machismo.

La trama di quest’opera si compone di una sinossi semplice che si stratifica però in numerose digressioni: Lebowski (un Jeff Bridges in assoluto stato di grazia) è un reduce della cultura hippie che si fa chiamare Drugo e che ama trascorrere le sue giornate tra una canna, un bicchiere di White Russian, che puntualmente gli impregna la barba incolta, e una partita a bowling con i suoi due singolari amici, interpretati divinamente da John Goodman e Steve Buscemi… per uno strano caso di omonimia, il Drugo viene scambiato con un miliardario la cui moglie deve un’ingente quantitativo di denaro ad un ambiguo personaggio che si paleserà solo nel finale… costui manda alcuni scagnozzi, sui quali mi dilungherò in seguito, a casa del nostro in cerca di soldi… non trovando trippa per gatti, questi amabili omuncoli orineranno sul tappeto “che dava un tono all’ambiente” del pacifico e sorpreso Drugo che, a sua volta, si recherà dal suo omonimo per chiedere un legittimo risarcimento… fino a qui ci siete?

Il ricco anziano, tra l’altro costretto alla carrozzina, inizialmente sembra restio alla concessione del tappeto chiestogli in cambio dall’incorreggibile perdigiorno Drugo, stigmatizzando uno stile di vita così improvvisato e hippie, ma quando sua moglie Bunny, una giovane e disinibita ninfetta da esibire come trofeo ed interpretata da Tara Reid, sarà rapita da presunti sedicenti criminali, egli chiederà proprio al nostro “Eroe” di trasformarsi in corriere per pagare il riscatto e liberare la donna, ovviamente dietro lauta ricompensa…

Da qui, amici miei, si sviluppano molteplici grottesche, illogiche, ironiche vicende in cui vengono inseriti personaggi divenuti spesso di culto – basta pensare al meraviglioso cameo di John Turturro (1957) in tuta lilla che da vita ad un personaggio indimenticabile, un giocatore di bowling di nome Jesus (!) così cafone ed egocentrico da lubrificare palle da bowling con la lingua - ed emblematici del sofisticato immaginario coeniano.

La pellicola fonda il proprio appeal sulla magniloquenza del suo protagonista, come dicevo interpretato dall’ispiratissimo Jeff Bridges (1949) nella parte di un reduce del Peace and Love, un “disadattato” che però, rimanendo coerente con i suoi principi,  non sfoga in alienazione e violenza la sua lontananza dalla società in cui vive; per capirci, al contrario di quanto accadeva a Travis Bickle (Robert De Niro) in Taxi Driver (1976 – Martin Scorsese), film manifesto della condizione dei reduci del  Vietnam, il Drugo vorrebbe categoricamente evitare ogni coinvolgimento in vicende che implichino l’uso della violenza, convinto com’è della bontà del confronto e della pericolosità delle armi.

Il Drugo rappresenta indubbiamente uno dei personaggi più interessanti della storia recente del cinema in quanto incarna non solo una sorta di Don Chiscotte del secolo scorso, un Eroe tragicomico che vive alla giornata e che seguendo i suoi valori conferisce sempre alle sue disavventure un tono tristemente ironico, ma anche il rovesciamento di uno dei topos tipici della letteratura contemporanea ovverosia quello del disagio dell’uomo nella società in cui è inserito che sfocia in azioni  estreme; infatti, Jeffrey Lebowski sembra interessato solo a tornare alla sua vita di cui in fondo è soddisfatto, cioè passare le giornate a Los Angeles tra una partita di bowling, una visita al supermercato in accappatoio (!) e uno spinello.

Uno dei punti focali più interessanti ed esemplificativi delle intenzioni degli autori credo sia il costante confronto tra i due Lebowski accomunati solo dall’omonimia e rappresentati invece come le due facce dell’America che collidono in maniera grottesca nel dialogo iniziale da cui prende spunto la vicenda e nel prefinale in cui si svelano finalmente i reali intenti che erano alla base del piano ordito dal presunto miliardario; in special modo nel dialogo iniziale, che si mantiene su un registro verosimile, ai già citati residui della cultura hippie vengono opposti, in maniera piuttosto brusca, i valori del reduce di guerra e filantropo che nella vita ha conseguito traguardi e ricevuto onorificenze contando solo sulla sua abilità (self made man) e su un encomiabile spirito di sacrificio accompagnato dalla devozione per “The Land of Hopes and Dreams”.

In questo senso dunque, tenendo in considerazione le rivelazioni che avverranno con il proseguire della storia sul conto del presunto filantropo per bocca della sua “particolare“ figlia, su cui mi dilungherò fra un po’, si palesa davanti allo spettatore una sferzante parodia del mito del self made man che partendo dal nulla, in linea con quanto offerto dal sogno americano, con un notevole sforzo e con una contestuale dimostrazione di “saper fare” può arrampicarsi sui pioli della scala sociale fino a diventare un’istituzione rispettata e temuta da tutti.

Il mito del filantropo, che in realtà oltre a svelare la sua natura viscida e gretta dimostra di essere semplicemente un fantoccio in mani altrui, subisce un trattamento al vetriolo quando l’uomo ricco viene accusato legittimamente proprio dalla figlia di compiere gesti caritatevoli lanciando briciole solo per pulirsi la coscienza e, anzi, spesso di utilizzare quei fondi per scopi non proprio limpidi.
La grande galleria di deliri coeniani può essere riletta anche sotto una chiave politica visto che lo spirito di contestazione a chi governava l’America in quel periodo emerge sin dalla scelta di ambientare il film negli anni della Guerra del Golfo, conflitto le cui ragioni ufficiali apparirebbero pretestuose anche al più “ingenuo” dei conservatori texani.

L’anima politica del film si concentra tutta nella figura di Walter, l’amico del Drugo reduce del Vietnam, divorziato dalla moglie, compagno di Bowling e letteralmente incapace di ammettere i propri fallimenti (un John Goodman da spellarsi le mani, in una delle parti più iconiche della sua carriera).

Per costruire il rapporto tra Walter e Drugo, i due cineasti statunitensi si rifanno ad uno dei topos più celebri ed apprezzati della storia della letteratura ovverosia quello della coppia che si completa facendo affidamento sui caratteri opposti e partendo da questo presupposto non risulta difficile cogliere i rimandi a Miguel de Cervantes che nel suo capolavoro (Don Chisciotte della Mancia – 1615) oppone, ad un uomo dolcemente folle ed aggrappato a valori ormai ritenuti vetusti dagli uomini del tempo, un contadino pragmatico la cui saggezza si condensa nei granelli tipicamente tramandati dal volgo e il cui codice morale è basato su una visione disillusa, seppur mai catastrofica della realtà.

Allo stesso modo, i due fratelli soavemente “pestiferi” del cinema americano oppongono ai valori hippie del Drugo e alla sua negligenza, che si riflette nell’unica volontà di uscire al più presto dalla losca vicenda in cui suo malgrado si è immischiato, la schizofrenia di Walter che evidentemente non conta mai (ma proprio mai!) fino a 10 prima di agire e questa combinazione fa si che spesso i due si ritrovino in situazioni paradossali e inevitabilmente comiche; un esempio paradigmatico di quanto appena descritto è immortalato in una delle scene iniziali in cui Walter minaccia apertamente di ricorrere all’uso della pistola per una decisione a suo dire dubbia durante una partita valida per un torneo di Bowling (!) e così facendo rischia anche di far squalificare la sua squadra dalla suddetta competizione.

Ecco, Walter incarna perfettamente la parodia di uno degli stilemi ricorrenti del cinema della new Hollywood cioè il reduce del Vietnam incapace di reintegrarsi nella società, però lo fa in perfetto stile Coen, nel senso che, dietro alla satira, si cela anche un monito affinché, a causa delle guerre temporalmente contigue alla lavorazione del film, non si ripeta una situazione di drammatica alienazione per i superstiti.

La “femme fatale” dominante nella galleria dei personaggi è indubbiamente la figlia del Lebowski miliardario (Maude Lebowski) la quale risulta molto più sfaccettata ed intrigante nella personalità rispetto alla moglie Bunny con quest’ultima che, oltre a comparire di rado nonostante il suo presunto rapimento sia proprio la causa scatenante di tutta l’assurda vicenda,  è delineata dagli autori come la classica opportunista pronta a tutto, che sposa un uomo molto più anziano al fine di ottenere una cospicua eredità...

Ma torniamo alla figlia del (falso) filantropo: Maude incarna l’anima eversiva e disillusa dell’America.
Quantomeno in teoria, Maude Lebowski è un’artista ma i suoi dipinti sono quanto mai singolari, visto che la sua arte è incentrata sul materialismo sessuale, ovverosia una visione cruda e disillusa del sesso fondata sulla volontà di mettere in difficoltà un ipotetico interlocutore maschile con rappresentazioni vaginali esplicite...
Maude, interpretata da una Julianne Moore stratosferica, è una Femme Fatale rovesciata in quanto la sua notevole capacità di seduzione risiede nella sua visione disincantata della realtà circostante e soprattutto dalla limpida schiettezza che la contraddistingue… la comunicazione di Maude è straordinaria, è talmente perentoria da non lasciare possibilità di replica a chi le sta di fronte!

La genialità di questo grottesco ritratto di vari aspetti della personalità umana si concentra anche nella destrutturazione di una delle correnti filosofiche più in voga nel secolo scorso, ovverosia il Nichilismo.
Certamente gli sceneggiatori non sono stati teneri con gli adepti di questa scuola di pensiero, poiché costoro vengono prima indirettamente additati di codardia visto che, nel film, attaccano sempre in gruppo un singolo indifeso (a tal proposito, l’irruzione dei Nichilisti nella casa del Drugo con marmotta al guinzaglio e successivo tuffo della stessa nella vasca da bagno dove si trovava il nostro Eroe credo sia il top della follia!) e in seguito sono posti da Walter, che come il lettore avrà certamente capito non ha peli sulla lingua, addirittura alla stregua dei Nazisti i quali però si differenziano da loro in quanto almeno caratterizzati da un’idea (seppur estremamente malata!) alla base della loro concezione del mondo; il più grave capo d’accusa che il film imputa ai Nichilisti quindi non è il loro rifiuto delle regole vigenti nel mondo che li circonda ma la mancanza in loro di un ideale sostitutivo che possa spingerli a modificare l’ordine costituito della società.

Una delle scene che sembra confermare inequivocabilmente tale punto di vista è quella in cui viene presentato uno dei Nichilisti, dipinto come un uomo che dorme in piscina per tutto il giorno mentre Bunny prende il sole sul lettino e si passa lo smalto verde alle dita dei piedi...

Altro sguardo interessante è quello del narratore, in pratica un omaggio a tutti i noir di stampo classico prodotti da Hollywood a cavallo tra gli anni 40 e 50 del secolo scorso per cui i Coen non hanno mai nascosto una sincera venerazione, tanto che riprenderanno il filone nel 2001 con “L’uomo che non c’era” con Billy Bob Thornton e Scarlett Johansson.

Il narratore ha l’abbigliamento tipico di un Cowboy dell’America del Sud e i suoi interventi nella vicenda si contraddistinguono per l’utilizzo di un tono ironicamente sorpreso; egli infatti rappresenta contemporaneamente un elemento di distacco e di incontro nella storia; il distacco è evidente quando egli mette alla berlina le stranezze del patinato mondo californiano, popolato da personaggi quantomeno eccentrici che sembrano aver perso completamente il contatto con la realtà; l’incontro o meglio scontro si manifesta nel suo abbigliamento e nel suo atteggiamento visto che infatti costui simboleggia un chiaro riferimento allo stereotipo del Cowboy presente soprattutto nel Sud del paese e in special modo nel Texas.

L’accostamento degli Stati, dunque, non sembra essere casuale poiché - come sostiene il divino storyteller nonché profondo  conoscitore del mondo statunitense Federico Buffa (1959) - in America ci sono due Stati che fanno nazione a parte: la California, patria del glamour e foriera della visione distorta dell’American Dream, e il Texas, in cui al contrario risiede l’anima più verace e conservatrice americana e che ha contribuito in maniera decisiva alla creazione del mito del Cowboy.

In conclusione, mi sento di annoverare “Il Grande Lebowski” tra i cardini della nuova comicità americana anche e soprattutto per la sua capacità di diventare un istant cult conservando, al contempo, la sua sagace e acre vena polemica che si rivela con il proseguire dei minuti grazie ad un sottotesto mai banale e pregno di spunti di riflessione, aggiungerei purtroppo, quanto mai attuali… insomma, forse non per tutti un capolavoro ma decisamente un cult straordinario che è sempre una delizia riassaporare, anche per una colonna sonora di primo livello, che spazia da Bob Dylan al sublime e compianto Townes Van Zandt, passando per gli intramontabili Creedence Clearwater Revival di John Fogerty.

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Lorenzo Rastelli
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