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Emanuele Di Nardo
Una volta fratelli: il basket e la crisi della Jugoslavia
LA BANDIERA STRAPPATA E LA FINE DI UN’ERA
La Jugoslavia Campione del Mondo 1990.

Vlade Divac allontana il nazionalista croato che sventola la bandiera scudata, nel tripudio generale dei festeggiamenti. Questo gesto avrebbe rotto per sempre il legame con Drazen Petrovic.

Vlade Divac.

La tesi di laurea, a puntate, del giovane teatino appassionato di basket. Puntata 11.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 30 Gennaio 2020 - Ore 11:00

III.6: Una bandiera strappata e la fine di un’era

Dopo la vittoria di Zagabria, il Paese aveva riconosciuto gli atleti come dei veri e propri eroi. Apostoli di quello che, più che un Gioco, era una vera e propria religione laica. E, pertanto, rappresentanti di un popolo intero, di una cultura. All’interno dello spogliatoio, si erano parlati col cuore in mano, raggiungendo senza alcuna difficoltà un patto unanime: nessuna strumentalizzazione. Erano giocatori di pallacanestro, non mezzi di propaganda politica (1). Durante il ritiro, la tranquillità del gruppo fu turbata dalle notizie provenienti da Zagabria che parlavano della guerriglia verificatasi al “Maksimir”. Venne indetta una riunione tra i giocatori. Conseguì il patto che Divac avrebbe poi difeso, scatenando contro di sé l’odio di Petrović e della Croazia intera: nessuna divisione politica, solo pallacanestro. Avevano la grande opportunità di rappresentare la Jugoslavia unita.

Calcio e pallacanestro nel 1990 si confrontarono a distanza di poco più di un mese, con il resto del mondo, col comune denominatore del Paese a pezzi. Nei palazzetti non si erano registrati eccessi nazionalistici paragonabili a quelli tra la Dinamo Zagabria e la Stella Rossa di Belgrado. E i cestisti avevano un oceano di mezzo tra loro stessi e le contorsioni istituzionali (2). La Jugoslavia diede prova di tutta la sua superiorità tecnica e fisica. Superò facilmente la prima fase battendo prima i padroni di casa dell’Argentina e poi l’Angola. In semifinale si disputò la partita simbolo di quel mondiale: il tabellone decretò come sfidante gli Stati Uniti d’America. Ma, nonostante il deficit negli scontri diretti passati, i plavi s’imposero 99-91. In finale, contro l’Unione Sovietica priva dei lituani perché già avviati nel processo di dissoluzione, non ci fu storia: finì 92-75, fra gli applausi del pubblico argentino. Una delle più belle squadre di tutti i tempi morì lì, mentre il paese che rappresentava stava andando a pezzi (3).

Infatti, in patria, la situazione era ormai degenerata. La politica di Tudjman aveva risvegliato immediatamente i timori della nutrita minoranza ortodossa che si professava serba e che abitava entro i confini della Repubblica croata, nella Krajina. La polizia della Krajina non accettò l’autorità del neo presidente croato: il capo della polizia serba di Krajina, Milan Martic, avrebbe dichiarato che tutti i poliziotti sapevano che sarebbero stati costretti a portare le stesse uniformi indossate dagli ustascia durante la Seconda Guerra Mondiale, non dimenticando gli eccidi subiti dai serbi (4). Il movimento di resistenza al governo si focalizzò sulla città di Knin che, proprio durante la guerra, era stata un baluardo dei cetnici ed era, dunque, particolarmente sensibile alla propaganda degli emissari di Milošević. Costoro erano spinti a convincere la gente che era giunto il momento di riunire tutte le terre serbe sotto un unico tetto, costruendo una Grande Serbia estesa fino alla Croazia orientale, alla Dalmazia centro-meridionale e comprendente buona parte della Bosnia-Erzegovina (5).

L’affermazione di Hitler sul diritto di tutti i tedeschi di vivere nel Terzo Reich fu adottata da Milošević con lo slogan “tutti i serbi nello stesso Stato” senza che, nell’euforia nazionalista diffusasi tra il popolo, alcuno pensasse di contestare questo evidente anacronismo storico (6). Proprio mentre la Jugoslavia stava salendo sul tetto del mondo a livello sportivo, nell’agosto 1990 scoppiò la rivolta dei serbi di Knin contro le autorità di Zagabria. Tudjman stabilì di inviare a Knin un distaccamento di forze speciali per sedare la rivolta della polizia serba e per ristabilire l’ordine pubblico. Tuttavia venne bloccato da Belgrado che, potendo controllare l’esercito jugoslavo, più o meno chiaramente sostenne la rivolta dei connazionali della Krajina. Il 17 agosto, due giorni prima della finale di Buenos Aires contro l’URSS, i serbi di Knin si proclamarono “Piccola Serbia” e negarono l’accesso a tutti i croati (7).

Quattro dei cinque cestisti croati al Mondiale abitavano nell’area degli scontri. Kukoč e Perasović erano di Spalato, Petrović di Sebenico, Komazec di Zara. Ma, nonostante fossero assorbiti dalle notizie quotidiane provenienti da casa, festeggiarono il trionfo netto. C’era tanta voglia di festeggiare, anche in questa amarezza di fondo per un’epoca che si stava chiudendo. Ma proprio al termine della finale accadde un fatto che avvelenerà tutto (8).

Entrò in campo un gruppo di tifosi che sventolavano bandiere che, dai tempi dell’esecrato stato fascista insediato da italiani e tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, non si vedeva più: il tricolore rosso-bianco-blu con, al centro, una scacchiera biancorossa racchiusa in uno scudo, la storica bandiera della nazione croata. Divac si avventò su uno di loro e, per quanto in realtà volessero festeggiarlo, lui strappò violentemente una delle bandiere dalle loro mani e la gettò platealmente. Sulle prime nessuno notò l’episodio che, però, nei giorni seguenti, avrebbe fatto notizia tanto quanto il titolo mondiale.
   
NOTE
(1) Mauro Ottolina, Eravamo figli della Jugoslavia, articolo del 12 giugno 2018 pubblicato sul sito “www,aroundthegame.it”.
(2) G. Riva, L’ultimo rigore di Faruk. cit, pag. 131.
(3) S. Olivari, Gli anni di Dražen Petrović, cit, pag. 140-141.
 “Jugoslavia. Morte di una nazione”
(https://www.youtube.com/watch?v=gs6qQnqP1fo&t=2332s).
(4) J. Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, cit, pag. 31.
(5) Ivi.
(6)  “Jugoslavia. Morte di una nazione”
(https://www.youtube.com/watch?v=gs6qQnqP1fo&t=2332s).
(7) S. Olivari, Gli anni di Dražen Petrović, cit, pag. 142.
(8) S. Tavčar, La Jugoslavia, il basket e un telecronista, cit, pag. 161.


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