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Emanuele Di Nardo
Una volta fratelli: il basket e la crisi della Jugoslavia
GLI EUROPEI DEL 1991 IN ITALIA
Toni Kukoc, in lunetta durante la finale degli Europei 1991 a Roma, contro l’Italia.

Jure Zdovc, cestista sloveno richiamato in patria all’indomani del 25 giugno 1991, quando scoppiarono in patria i tumulti per l’affrancamento della Slovenia dalla Jugoslavia.

La tesi di laurea, a puntate, del giovane teatino appassionato di basket. Puntata 14.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Giovedì, 20 Febbraio 2020 - Ore 10:45

IV.3: Gli Europei 1991 in Italia

Mentre si stava avvicinando il fatidico e temutissimo 25 giugno, a Roma cominciò la XXVII edizione dei Campionati europei di pallacanestro. Dražen Petrović non partecipò all’Europeo, avendo preso una decisione con largo anticipo e che spiegò con parole dure e chiare:

Non difenderò la bandiera di una nazione che bombarda le nostre case e uccide i miei amici (1).

Ormai la posizione assunta dal cestista di Sebenico era irrevocabile al punto che, in occasione di una partita in NBA, lo speaker americano lo presentò come jugoslavo. Petrović lo interruppe sostenendo che lui fosse croato, non più jugoslavo. Pertanto alla spedizione di Roma partecipò l’intera squadra campione del mondo, senza però la sua stella più luminosa.

La terza partita del girone si giocò il 26 di giugno. Il giorno prima, come previsto, Slovenia e Croazia dichiararono l’indipendenza e, come altrettanto ampiamente previsto, il mattino del 26 i carri armati dell’esercito jugoslavo uscirono dalle caserme e tentarono di “riportare all’ordine” la Slovenia. La strategia dello sfoggio dei muscoli in realtà non ebbe grandissimo successo. Gli sloveni avevano approfittato benissimo del fatto che nominalmente l’esercito era “jugoslavo”, cioè di tutti i popoli, per cui avevano agito in modo capillare dall’interno acquisendo un’imponente massa di dati dai militari sloveni dell’esercito jugoslavo. Al punto che, ad esempio, i carri armati non riuscivano a parlare tra loro perchè erano state sabotate le frequenze radio. Ai militari nelle caserme slovene erano stati tagliati luce, acqua e telefono, attorno alle caserme stesse erano stati posti campi minati; per non parlare dell’aviazione, tradizionalmente per la maggior parte in mano a piloti sloveni che difficilmente avrebbe  bombardato la propria gente.

Cestisticamente gli eventi della breve guerra in Slovenia (10 giorni) si ripercossero a Roma (2), interessando Jure Zdovc: il cestista sloveno fu costretto a rifiutarsi di giocare le ultime due partite con la maglia del Paese che stava invadendo la sua patria. Il giornalista Gianni Cerasuolo seppe riportare con grande fedeltà lo stato d’animo dell’atleta nel suo articolo pubblicato il 29 giugno su La Repubblica:

"Mancava poco alle quattro del mattino quando Zdovc è venuto nella mia stanza in albergo e mi ha detto, quasi in lacrime, che da Lubiana gli proibivano di giocare. Se l’avesse fatto, l'avrebbero considerato un traditore del popolo sloveno. Io continuo a considerarlo un mio giocatore, uno jugoslavo". Dusan Ivkovic aveva dribblato con abilità nei giorni scorsi le domande: “Noi siamo qui soltanto per vincere gli europei”, continuava a ripetere l'allenatore, serbo, 45 anni, artefice delle grandi vittorie del basket jugoslavo. Ma ieri sera dopo la vittoria sulla Francia (97-76) che ha significato per gli slavi la finale, Ivkovic non ha saputo tacere. Aveva cominciato a rispondere in inglese alle domande, poi ha capito che doveva usare la propria lingua per potersi spiegare meglio, quasi la riaffermazione di un'identità. Perché proibire ad un atleta di giocare? Quelli che hanno sbagliato in politica, adesso se la prendono con uno impedendogli di lavorare. Zdovc ha lasciato a Lubiana la moglie e il figlioletto di sei mesi, è preoccupato, ha detto ancora come per sottolineare una specie di ricatto. Nel pomeriggio era arrivato l'ordine dal governo sloveno: a tutti gli atleti sloveni era fatto divieto di gareggiare sotto la bandiera jugoslava, anzi dovevano rientrare il prima possibile a casa. Jurij Zdovc, un biondino di 25 anni nato a Maribor, è quasi più austriaco che jugoslavo. Ieri sera non c'era dunque contro la Francia. E' l'unico sloveno della nazionale campione del mondo e gioca nell' Olimpia di Lubiana. Fa parte di un gruppo di atleti che veste la maglia jugoslava che è un miscuglio di razze e di religione. Tra di loro non ci sono mai stati problemi. Sette serbi (Sretenovic, Djordjevic, Danilovic, Jovanovic, Divac, Komazec, Savic), tre croati (Perasovic, Kukoc, Radja), un montenegrino (Paspalj) e uno sloveno (Zdovc). Croato è anche Dražen Petrović, il genio del basket jugoslavo, che a Roma però non c'è. Stanno insieme dall'85, da quando cioè cominciarono a farsi notare vincendo l'Europeo cadetti in Bulgaria. L'anno scorso sono andati a vincere il mondiale in Argentina sbaragliando tutti. Con l'aggravarsi della situazione in patria, le ore di ritiro gli jugoslavi le hanno trascorse appiccicati al televisore. O vicino al telefono. Hanno parlato a lungo tra di loro, come accade nei momenti difficili. Ieri pomeriggio non hanno riposato. Per Divac una preoccupazione in più: il terremoto a Los Angeles dove è rimasta la moglie incinta di pochi mesi. Il pullman che doveva portarli all'Eur si è avviato senza Zdovc. E nessuno ha avuto voglia di parlare lungo il tragitto. Jurij aveva ricevuto la notizia da un giornalista sloveno, poi anche una telefonata da Lubiana: “Non giocare, non puoi farlo”, gli dicevano dall'altro capo del telefono. Ha saputo così della decisione dei dirigenti sloveni: gli atleti dovevano fermarsi e dovevano tornare a casa. Non ci si può chiedere di gareggiare sotto la bandiera jugoslava diceva il fax che Jurij stringeva con rabbia tra le mani. Gran difensore, ottimo attaccante, Zdovc è corteggiato anche da club italiani (Varese) e da altri club jugoslavi (Cibona Zagabria). E' tutta gente sul mercato, questa. I contratti di Divac e Radja vengono curati dalla multinazionale Img. Kukoc è nelle mani di Luciano Capicchioni, un agente di San Marino che gli ha fatto avere il favoloso ingaggio, tra i 4-5 miliardi l'anno da Treviso. Girano molti soldi nel basket jugoslavo. Ma non solo lì. E' l'affermazione di una scuola, di un modo di praticare lo sport che non ha seguito la disgregazione politica. Anzi. Anche in questo la Jugoslavia è stata diversa. Ha scelto la sua via, lontana dai regimi comunisti. Gli jugoslavi sono soliti dire: La prima cosa che regaliamo ad un bambino è un pallone. Gli atleti sono dei privilegiati rispetto ai loro coetanei ma non con l'ottusa burocrazia di stato alle spalle. E i migliori hanno sempre saputo di poter andare fuori dai confini nazionali prima o poi. Tutto questo prima che cortine e muri fossero abbattuti. Così la grande fabbrica dello sport è esplosa. Nel basket, certo. Ma anche nel calcio, nella pallanuoto, nella pallamano. Sport dove i nuovi campioni nascono nel solco di una nuova tradizione. Ma non si tratta solo di sport di squadra. La Seles e Ivanisevic sono delle testimonianze autentiche. Però adesso nessuno ha voglia di creare federazioni autonome, almeno tra quelli che lo sport lo fanno. E ieri sotto l'enorme volta del Palaeur, da parte di tifosi s' è alzato più volte il nome Jugoslavia, Jugoslavia, mentre l' orgoglio di questa gente si sfogava con un drappo bianco su cui si poteva leggere: Magic, Pat e Air vi aspettiamo a Barcellona, una sfida diretta ai grandi (Magic Johnson, Pat Ewing e Michael Jordan) del basket statunitense. Poi la partita con la Francia, tesa e difficile. C'era qualcosa che non andava per la prima volta in una squadra che si è sempre ritrovata ad occhi chiusi. Forse la tragedia di Lubiana non c' entrava nulla, certo è che Kukoc, Radja, Divac non erano gli stessi. E hanno impiegato un intero tempo ad aver ragione dei francesi. E stasera giocheranno (senza Zdovc) per la finale (3).

La Jugoslavia avrebbe vinto, poi, senza particolari patemi, l’oro in finale contro l’Italia, dominando la partita dal primo all’ultimo minuto. Sarebbe stata l’ultima manifestazione con la nazionale unita. L’impasse bellica finì molto presto con una conferenza ai massimi vertici europei che si tenne a Brioni, arcipelago turistico istriano, l’8 luglio 1991 e che sostanzialmente sancì lo status quo con il solo impegno della Slovenia di congelare le dichiarazioni d’indipendenza per quaranta giorni. Il peggio in Slovenia era passato. L’esercito jugoslavo (serbo) avrebbe sfruttato quel periodo di stallo per spostarsi nei luoghi dove aveva i massimi interessi, nella Krajina croata ed in Bosnia, dove cioè viveva un’imponente minoranza serba che voleva a tutti i costi che non venisse staccata dalla Serbia stessa secondo la teoria della “Grande Serbia (4).

NOTE
(1) S. Olivari, Gli anni di Dražen Petrović, cit, pag. 151.
(2) S. Tavčar, La Jugoslavia, il basket e un telecronista, cit, pag. 167.
(3) La Repubblica, 29 giugno 1991 “Zdovc, sloveno: un no in lacrime alla nazionale”.
(4) S. Tavčar, La Jugoslavia, il basket e un telecronista, cit, pag. 168.


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Emanuele Di Nardo

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