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Francesco Infante [The Unrestricted]
DIGITALIZZAZIONE E PROFESSIONISMO: DUE RIVOLUZIONI NECESSARIE PER LA PALLACANESTRO ITALIANA DOPO IL COVID-19.


Francesco Infante, in campo con la maglia del Roseto, nel campionato di Serie A2 2017/2018.
[Cusano Photo]


Il giocatore ex Roseto Sharks inizia una sua rubrica su Roseto.com. Il primo contributo è una riflessione di grande attualità. Strategica e controcorrente.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Mercoledì, 15 Aprile 2020 - Ore 11:44

Francesco Infante è nato nel 1992, a Foggia.
Giocatore di basket, attualmente milita in Serie B con la Luiss Roma.
Dai 18 ai 26 anni ha giocato da professionista, passando anche per Roseto nella stagione di Serie A2 2017/2018.
A livello di studi, Francesco ha conseguito la laurea triennale in Lingue e Letterature Straniere, un master in Sport Management e una magistrale in Relazioni Internazionali presso l'Università LUISS di Roma.
Appassionato di viaggi, filosofie, politica, conosce e parla fluentemente anche l’inglese e lo spagnolo.
Da grande vuole diventare un produttore di olio.
Con questo contributo, Francesco inaugura la sua rubrica su Roseto.com, nella quale scriverà i suoi pensieri sulla pallacanestro (e su altro), potendole esprimere senza restrizioni o censure, come nella tradizione, ormai ventennale, dei “diari” di Roseto.com che hanno visto in passato altri amici collaborare, come Luigi Lamonica, Andrea Pecile, Matteo Boniciolli, Andrea Maghelli.
Lo ringraziamo e vi invitiamo a leggere le sue riflessioni, frutto di studi, riscontri, verifiche. Una boccata d’aria fresca, controcorrente come spesso la libertà di pensiero impone.
Perché, per dirla con Stanislaw Jerzy Lec: “Bisogna provocare l’intelletto, non gli intellettuali”.

ROSETO.com


Esistono due tipi di crisi, quelle indotte e quelle dettate da eventi straordinari.

Quella del 2008-2011 è stata sicuramente indotta mentre quella che stiamo attraversando ora ha origine da eventi che hanno carattere di straordinarietà. Ci sono due modi per affrontare le crisi, il primo è iniziare a ricostruire da dove si era lasciato e il secondo è rivoluzionare il sistema. Ecco, a mio avviso, se dopo il Covid-19 la pallacanestro italiana prendesse la prima direzione, farebbe uno dei più grandi errori della sua storia e incorrerebbe ben presto in una crisi del primo tipo cioè indotta. La seconda via invece potrebbe ridare luce ad un movimento che sta vivendo giorni grigi.

Mentre si continua a discutere se assegnare o meno lo scudetto o quando e come ricominciare l’Eurolega, c’è un intero mondo di dilettanti formato da allenatori, giocatori e addetti, in attesa di conoscere il proprio destino.

In questo articolo non parlerò dei 12 ragazzi che ogni estate ci rappresentano con la maglia azzurra, che danno il massimo per i nostri colori e che, nonostante tutto, noi continuiamo a guardare con amore ed orgoglio. Non parlerò di loro perché loro non sono il movimento cestistico italiano, o meglio, loro sono semplicemente l’apice di un iceberg che spesso si fa finta di non vedere. Questo movimento è formato da persone che ogni mattina e sera della loro vita si allacciano le scarpe proprio come quei 12 e dal momento che ogni vita umana è uguale e ogni lavoratore merita ugual diritti poiché adempie ad ugual doveri, è necessario che il nostro intero movimento prenda in considerazione la categoria ‘dilettanti’, riformandola.

La pallacanestro italiana deve iniziare la sua metamorfosi e se non lo farà non solo rimarrà indietro rispetto al sistema paese e alle altre realtà europee, ma il livello tecnico pian piano si abbasserà. Le società in Italia sono concepite per essere modelli in perdita e non in attivo. Gli introiti arrivano solamente dagli sponsor e dalla vendita dei tagliandi. In un modello di business che punta a vendere un prodotto, questo non è più sufficiente. La partita della domenica è solo il core attorno a cui dovrebbero ruotare decine di altre attività che permettano alla società di auto-finanziarsi. Per far ciò la prima rivoluzione necessaria è quella digitale.

Il virus sta mettendo tutti davanti all’evidenza che la possibilità di lavorare attraverso gli strumenti tecnologici c’è ed è concreta. Oltre a portare un notevole risparmio in termini di tempo, porterà ad un notevole risparmio economico poiché molti uffici non serviranno più e le risorse potranno essere utilizzate in maniera migliore. A tal proposito, le società dovrebbero ingaggiare i migliori marketing manager nazionali che dovrebbero percepire un salario simile a quello del direttore sportivo ad esempio, perché le loro capacità di generare profitti sono simili. La pallacanestro in Italia ha attecchito soprattutto in realtà in cui il calcio è poco presente (Brindisi, Cantù, Varese, Capo, Sassari, Venezia, Roseto), dove la squadra oltre ad essere simbolo della città è un brand e come tale dev’essere considerato. Se questo si verificherà e importanti investimenti verranno fatti nel settore digital, saranno gli sponsor a cercare di entrare nel circus e non il contrario come da sempre avviene.

La seconda grande rivoluzione è quella del cosiddetto dilettantismo. Credo fortemente che per diritto e per dovere tutti i giocatori debbano essere reputati lavoratori come un professore, un impiegato, un dipendente qualsiasi. Per diritto, perché credo sia il minimo riconoscere ogni tutela ad un atleta che investe 10-20 anni della sua vita in un lavoro usurante come è lo sport a tempo pieno, per dovere, poiché non vedo il motivo per cui un’intera classe lavorativa che percepisce una retribuzione debba essere esente dal dover pagare le tasse, come onestamente fanno tutti i cittadini, pur usufruendo degli stessi servizi. Il discorso teorico sul perché sia giusto essere contribuente di uno stato in cui si vive è semplice e non continuerò ad analizzarlo poiché meglio di me in passato hanno fatto Hobbes e Rousseau. Il discorso pratico invece ha bisogno di contestualizzazione.

Spesso i giovani giocatori/allenatori che iniziano a guadagnare intorno ai 18-19 anni non hanno alle spalle un’educazione finanziaria che gli permetta di saper pensare al proprio futuro e solamente quando arrivano a fine carriera si rendono conto che non hanno accumulato contributi, TFR e quant’altro.

Fino al 2008 questo non era un particolare problema perché gli stipendi erano molto, molto alti e a tutti andava bene così. Dalla crisi del debito sovrano in poi però le cose sono cambiate e per mantenere gli stipendi alti si è passati al dilettantismo anche in A2. Ma come si può parlare di dilettantismo in campionati in cui ci si allena due volte al giorno, in cui gli stipendi sono spesso più alti di top-manager del privato e in cui intere famiglie dipendono dalle prestazioni sportive di un individuo e soprattutto in cui non c’è il tempo materiale per fare un qualsiasi altro lavoro? Se questa condizione alle società può andare bene, ai giocatori non deve andare bene.

Un dirigente sportivo mi contesterebbe che le società devono rispettare i budget e non possono prendersi carico anche dei contributi e tasse dei loro giocatori. Cosa fare dunque?

I giocatori dovrebbero chiedere che il loro ingaggio venga tassato come quello di ogni altro lavoratore dipendente italiano. Seppur vero che i soldi a fine mese sarebbero meno, i vantaggi risulterebbero estremamente maggiori. Prendiamo come esempio un giocatore che gioca fra B e A2 (in alcune regioni anche in C) dai 20 ai 36 anni.

Pagando le tasse, alla fine della sua carriera avrebbe accumulato 16 anni di contributi, TFR e potrebbe continuare a lavorare nel settore o cambiare area, dovendo lavorare come tutti fino a 63 anni e poi godersi la meritata pensione, cosa che invece non potrebbe fare se a 37 anni dovesse versare i suoi primi contributi. Lo stesso naturalmente vale per un giovane allenatore. Ma vi starete chiedendo, di che cifre stiamo parlando?

Un giocatore che guadagna 15k ne percepirebbe 12k, chi guadagna 30k quasi 22k e chi 50k scenderebbe a 34k. A questi va aggiunta però la casa, che ogni società da al giocatore e possiamo quantificare in 500€ mensili e spesso anche il vitto. Al netto delle tasse questi rimangono stipendi ancora in linea o superiori agli standard nazionali.

Pagando le tasse inoltre i giocatori avrebbero diritto ad una disoccupazione fino a 24 mesi in caso di una mancata firma del contratto, grave infortunio o di chiusura della società, mentre ad oggi non esiste nessuna vera misura assistenziale. Per di più pagando le tasse, il sindacato dei giocatori avrebbe molta più voce nelle negoziazioni con leghe e federazione.


Dal punto di vista tecnico, il livello dei giocatori sarebbe più alto per diverse ragioni. Un giocatore curerebbe molto di più il suo corpo, si allenerebbe d’estate e mangerebbe meglio, perché sa che più a lungo gioca e più anni di contributi potrà accumulare facendo il lavoro che ama. Quello del giocatore o dell’allenatore, sarebbe dunque un lavoro ancora più appetibile e le famiglie dei giovani spesso contrarie a mandare il loro figlio lontano di casa per fare il dilettante, sarebbero meno restie.

Stiamo parlando di quasi 750 giocatori solo fra A2 e B a cui vanno aggiunti allenatori, preparatori, dirigenti che lo fanno per mestiere e tutto il mondo della pallacanestro femminile.
 
La Federazione deve guardare a queste persone che sono l’anima del movimento, ne deve riconoscere il carattere professionistico del mestiere e concedere i diritti che a essi spettano. I giocatori dal canto loro devono volere essere riconosciuti ed essere disposti a rinunciare a qualcosa oggi per vivere la carriera con più sicurezze ed assicurarsi un meritato domani. Il rischio è di diventare simili al movimento tedesco, spagnolo, francese o inglese, in cui nelle serie minori nessuno gioca per soldi e tutti hanno un altro lavoro o studiano. Pensare di poter aggirare il problema rimanendo dilettanti non farà altro che allungare la sofferenza ma non permetterà al malato di salvarsi. Per venirne fuori non basta la cura, serve il vaccino.

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