Francesco Infante è nato nel 1992, a Foggia.
Giocatore di basket, attualmente milita in Serie B con la Luiss Roma.
Dai 18 ai 26 anni ha giocato da professionista, passando anche per Roseto nella stagione di Serie A2 2017/2018.
A livello di studi, Francesco ha conseguito la laurea triennale in Lingue e Letterature Straniere, un master in Sport Management e una magistrale in Relazioni Internazionali presso l'Università LUISS di Roma.
Appassionato di viaggi, filosofie, politica, conosce e parla fluentemente anche l’inglese e lo spagnolo.
Da grande vuole diventare un produttore di olio.
Questo è il secondo articolo della sua rubrica su Roseto.com, inaugurata il 15 aprile 2020.
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Nel cuore dell’Africa, a sud del grande lago Vittoria e ad ovest del Kilimangiaro, sorge uno degli stati più piccoli al mondo che per la maggior parte di noi sarebbe difficile identificare su una mappa ma che, specialmente i più anziani, forse ricorderanno.
L'estate del 1994, gli italiani la ricordano per quella traversa di Baggio ai rigori nella finale di Los Angeles contro il Brasile. Nel piccolo paese Africano quell'estate invece, segnò le vite di molti. In 100 giorni fra aprile e luglio più di 1 milione di persone fu brutalmente ucciso a colpi di machete. Nell’indifferenza dell’occidente, quell'estate litri di sangue sgorgarono dai pendii delle mille colline.
Questa è una storia di sangue, di speranza e di pallacanestro.
Quando ci si mette in volo per il Ruanda, prima di atterrare all’aeroporto di Kigali, si fa scalo a Entebbe in Uganda, sulle rive del lago Vittoria dove la maggior parte dei passeggeri scende e si dirige verso il proprio Safari africano. In pochi rimaniamo a bordo e dopo una cinquantina di minuti si atterra nel piccolo hangar ruandese. L’aeroporto di Kigali mi ricorda quello di Reggio Calabria. Pochi voli al giorno e solo due nastri per i bagagli. Nella corsa in taxi verso l'hotel però mi chiedo se sia giunto davvero in Africa oppure mi trovi in una piccola Ginevra abitata da uomini con la pelle nera.
Kigali è più pulita di ogni città che abbia mai visto in Italia, i giardini sono perfettamente curati e la maggior parte dei palazzi è nuova. Rimango in città qualche giorno e poi mi dirigo ad ovest verso il lago Kivu.
Viaggio in questo paese in cui la pianura non esiste e superando una collina dopo l'altra si percorrono chilometri a bordo di piccoli pulmini sovraffollati. I bambini giocano e strillano mentre negli occhi delle persone di una certa età non si riescono ancora a intravedere sorrisi.
Nel 1994, dopo 30 anni di dittatura, in questo paese grande come il Piemonte la maggioranza Hutu decise, per questioni principalmente politiche/postcoloniali di sterminare la minoranza Tutsi. Rimasero senza vita più di 1 milione di persone in soli 100 giorni, con la connivenza della Francia e con la comunità internazionale che girò la testa dall'altro lato. Ogni 5 km c'è un cimitero e ogni città ha il suo memoriale, con la sua fossa comune e le donne che si recano a piangere i loro mariti.
Qualche anno fa in questo piccolo paese è arrivato Stefano Bizzozi, che con la sua associazione Sports Around the World ha deciso di portare la pallacanestro nei villaggi e ha costruito da nord a sud cinque campi da basket.
Nel mio mese in Ruanda ho visto tutti i playground e sono stato ospite delle comunità in cui questi sono stati costruiti. Ho tenuto lezioni di basket per i bambini e ci ho giocato insieme. Come direbbe il mio amico Marco Contento, vista la mia poca tecnica, ho avuto poco da insegnargli ma sicuramente loro hanno insegnato molto a me e hanno dato risposte alle mie domande.
Durante le prime due settimane nel paese continuavo a domandarmi perché Stefano avesse deciso di investire soldi in campi da basket in un paese in cui il 20% della popolazione vive sotto la soglia di povertà estrema e in cui nella maggior parte delle case non ci sono elettricità ed acqua corrente. Il basket in fin dei conti non era di primaria importanza.
Durante la mia terza settimana soggiornavo a nord-ovest, ai confini con la Repubblica democratica del Congo e con alcuni ragazzi del villaggio in cui ero ospite, sono arrivato attraverso l'unico sentiero esistente alla scuola di Makoro in cui Stefano e la sua associazione hanno costruito un campo.
Giunti alla scuola, vengo accolto dalla direttrice con centinaia di ragazzi. Dopo aver fatto le presentazioni di rito e aver formato le squadre (onore che spettava a me, vista l’imparzialità), ho lasciato i ragazzi giocare e ho cominciato a parlare con la direttrice della scuola, Odette. Dopo avermi fatto fare il giro della scuola e avermi presentato gli insegnanti, ci siamo seduti a bordo campo e Odette mi ha spiegato che quello che stavo guardando non era una semplice partita di basket.
Su quel campo c'erano i nipoti degli assassini e i nipoti delle vittime che giocavano nella stessa squadra, si passavano la palla e si abbracciavano dopo aver fatto canestro. In un paese in cui fino al 1994 nelle classi scolastiche un Hutu non poteva sedere di fianco ad un Tutsi, quello che stava accadendo lì aveva qualcosa di incredibile.
Finita la partita di quelli più grandi sono arrivati i bimbi delle elementari e dopo aver rifatto le squadre, ho continuato la mia conversazione con la direttrice.
Il campo di Makoro si trova su un balcone naturale che affaccia sul lago Kivu e sull’altra sponda c’è la Repubblica democratica del Congo. Mentre passeggiamo intorno al campo Odette mi indica due bambini che stavano giocando e mi ha dice che quei bambini erano arrivati pochi anni prima dal Congo come rifugiati.
Da 15 anni nel paese è in corso una guerra civile, una di quelle guerre che a noi occidentali piace definire tribale ma in cui di tribale c'è ben poco. Ogni milizia in Congo è supportata da uno stato occidentale. Chi dagli Stati Uniti, chi dall’Inghilterra, chi dalla Francia, chi dalla Cina e tutti vogliono la stessa cosa: le materie prime che servono per costruire i nostri cellulari e frigoriferi.
Goma è la prima città dopo il confine e la riesco a vedere ad occhio nudo, è a meno di 2 km in linea d'aria. Solo tre anni fa lì è esploso uno dei maggiori focolai di ebola e alcuni bambini per essere messi in salvo sono stati portati in Ruanda. Due di loro stanno giocando a basket davanti a me. La partita intanto finisce, saluto tutti, li ringrazio e recupero i palloni.
Tornando al villaggio, lungo il sentiero chiacchiero con un ragazzo che ho conosciuto in settimana, si chiama François ed ha quasi 30 anni. Come quasi tutti i ruandesi è un devotissimo cattolico e mi parla dell’importanza della religione nella sua vita. Mi racconta che le uniche due cose che gli interessano davvero sono Dio e il basket perché sono le sole che l'hanno aiutato a superare i momenti difficili. Il padre di François è condannato all’ergastolo per crimini durante il genocidio e lui non ci ha mai avuto parecchio a che fare. Nella vita di ogni giorno fa l'agricoltore e quando può la sera va a giocare un’oretta al campo costruito da Sports around the World. Siamo quasi arrivati a casa e sulla strada del ritorno passiamo davanti al campo di Busasamana, sempre costruito dall’associazione di Stefano. Vedo la chiesa sullo sfondo ed il canestro in primo piano in un’unica istantanea e penso al libro di Federico Buffa che leggevo da bambino. Questo è Black Jesus.
Il Ruanda non è il Camerun o il Senegal. I ruandesi sono bassi e poco slanciati. Probabilmente le mille colline non partoriranno il prossimo Joel Embiid, ma forse non è questo che conta. In ogni nuovo campo da basket il figlio dell’agnello e il figlio del lupo finalmente giocheranno insieme, è questo che conta.
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Francesco Infante [The Unrestricted]
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