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Abruzzesi buoni per il Mondo
STEFANIA TARQUINI: L’AMAZZONE DELLE STELLE.
Stefania Tarquini.

Stefania Tarquini con l’onorificenza attestante la nomina a Cavaliere della Repubblica.

Stefania Tarquini sul posto di lavoro.

L’ingegnera aerospaziale teramana, che vive e lavora in Germania, nominata Cavaliere della Repubblica a soli 31 anni dal Presidente Mattarella. La nostra intervista.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Sabato, 04 Luglio 2020 - Ore 11:30

L’OMRI – Ordine al Merito della Repubblica Italiana – è il più alto degli ordini della nostra Repubblica e il Presidente ne è il capo. La scala comincia da Cavaliere della Repubblica, poi Ufficiale, quindi Commendatore, Grande Ufficiale, Cavaliere di Gran Croce e, infine, Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone.
Pensando a questi tonitruanti appellativi, vengono in mente persone importanti, quasi sempre mature, premiate per il lustro che hanno saputo dare con le loro opere e attività alla nostra Italia.
Il modo più prestigioso di ricevere l’onorificenza è il “motu proprio” presidenziale. Significa che il Presidente della Repubblica in persona ha preso atto di particolari meriti e concesso il titolo di Cavaliere.
Lo scorso 2 giugno 2020 – a seguito di nomina “motu proprio” del Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, avvenuta in data 27 dicembre 2019 – l’ingegnera aerospaziale teramana Stefania Tarquini, che vive e lavora in Germania, ha ricevuto l’onorificenza, conferitagli a soli 31 anni di età (https://www.quirinale.it/onorificenze/insigniti/361905).
Per conoscere questa “Abruzzese buona per il Mondo” che, giovanissima, può fregiarsi di un titolo così importante, le abbiamo fatto questa intervista.


Stefania Tarquini, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – motu proprio – le ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica. Che effetto le ha fatto, a 31 anni, ritrovarsi componente dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana?
«Un’emozione incredibile. Sono orgogliosissima di essere italiana e di poter contribuire tutti i giorni al miglioramento della meteorologia italiana ed europea».

Lei vive per lavoro in Germania, chi l’ha contattata per comunicarle il riconoscimento e cosa le hanno detto in merito alla motivazione?
«Mi è arrivato direttamente l’attestato per posta a casa qui in Germania.  Devo ammettere che all’inizio pensavo fosse uno scherzo e ho dovuto telefonare al Quirinale, per chiedere conferma. Il fatto è che non mi era arrivata nessuna comunicazione precedente all’attestato e pare che non abbiano fatto cerimonie per le nomine a Cavaliere, causa Covid-19, quindi non ho idea di come – e soprattutto perché – sia stata scelta. Probabilmente il presidente avrà letto l'articolo uscito l’anno scorso su “Buone Notizie” del “Corriere della Sera”, dopo il lancio del satellite Metop-C al quale ho contribuito».
 
Lei lavora guardando il cielo: questa onorificenza è un punto di arrivo o rappresenta una motivazione ad andare avanti?
«È decisamente una motivazione ad andare avanti. Per come la vedo io, ho fatto solo il mio lavoro, con passione, entusiasmo ed attenzione al dettaglio. Ma sempre e solo il mio lavoro, niente di speciale! Mi sono impegnata molto durante l’università (e dopo) per arrivare dove sono, ma sono stata anche fortunata ad essere stata circondata da persone che hanno creduto in me e mi hanno dato queste opportunità».

Ha una dedica per questo traguardo?
«Preferirei di no... ci sono molte persone che devono lavorare una vita e fare cose davvero speciali per avere questa onorificenza e io non ho fatto granché. Certo, ho contribuito a lanciare un satellite, ma molte altre persone come me hanno contribuito. Semplicemente, non sono donne o giovani come me (sorride, n.d.r.)».

Si è laureata in ingegneria spaziale nel 2012 al Politecnico di Milano, e a “Buone Notizie” del “Corriere della Sera” – nell’articolo scritto da Nicola Catenaro e pubblicato a gennaio 2019 – ha dichiarato che l’ispirazione per i suoi studi le venne da bambina, quando insieme a sua sorella Cristina (più giovane di 3 anni), fu portata da mamma Luisa sulla spiaggia di Tortoreto, a vedere le stelle cadenti nella notte di San Lorenzo. A che punto è il coronamento di quel sogno di bambina?
«Sempre in progress. Ho sempre voluto lavorare con stelle e spazio, fin da bambina. In università ho avuto pochissimi dubbi a scegliere ingegneria spaziale, forse l’unica indecisione/dubbio era con astrofisica, sempre finalizzata allo studio di stelle e pianeti. Oggi lavoro come ingegnere per le operazioni di satelliti meteorologici ed ho la fortuna di lavorare non solo per la pianificazione di operazioni di routine dei satelliti, ma anche per il lancio di satelliti e missioni nuove e per operazioni “speciali”, come la fine della vita operativa in un modo pulito del mio satellite “più vecchio”, Metop-A. Dico “in un modo pulito” perché oggigiorno i satelliti devono essere progettati in modo tale da non lasciare spazzatura spaziale in orbita a fine vita operativa. Ma i nostri satelliti Metop sono vecchiotti: Metop-A è stato lanciato nel 2006 e il progetto originale risale ad una ventina di anni prima, quando non c’erano ancora le regolamentazioni attuali sui rifiuti spaziali. Ma la nostra organizzazione è davvero impegnata a seguire questa direttiva (terminare la vita del satellite in modo pulito) a tutti i costi, anche se il satellite non era inizialmente stato progettato per questo. Quindi abbiamo dovuto essere creativi e progettare una strategia nuove per deorbitare il satellite in modo pulito e sicuro, cosa che è prevista per novembre 2021».

La sua tesi di laurea l’ha preparata negli Stati Uniti, alla Pennsylvania State University, e riguarda i materiali innovativi che evitano la formazione di ghiaccio sulle pale degli elicotteri. Quanto è stata importante l’esperienza oltreoceano, umanamente e professionalmente?
«È stata fondamentale. Consiglio a tutti gli studenti di lasciare l’Italia, almeno per un po' e confrontarsi con una cultura diversa ed un modo di lavorare diverso. Io mi sono dovuta confrontare con un mondo accademico molto più pratico, dove il primo giorno di lavoro, invece che lavorare sulla teoria di elicotteri, materiali e aerodinamiche varie, mi sono ritrovata con una chiave inglese in mano e col professore che mi chiedeva di “cortesemente smontare la pala di elicottero dal rotore e cambiare il pezzo sulla punta con un altro pezzo”. Libri, software e formule non erano molto utili lì, dove il mondo accademico è molto più pratico e si aspetta che gli studenti costruiscano per davvero le cose che poi progettano, diversamente da noi dove è molto più teorico, probabilmente anche perché le università italiane hanno meno soldi di quelle americane. Oltre a scoprire un mondo nuovo, culture nuove e modi di lavorare diversi, è anche una grandissima opportunità per confrontarsi con persone nuove, imparare bene una lingua e mettersi in gioco. Da allora non ho più smesso di viaggiare!».

Darebbe tre consigli ai giovani studenti che come lei sono appassionati da cielo e stelle, per riuscire a coronare i loro sogni?
«1.Fare esperienze all’estero. Magari una doppia laurea in Francia (ci sono molte convenzioni, o almeno c’erano al Politecnico di Milano) o Erasmus o tesi all'estero.
2.Fare esperienze extracurriculari e lavorare a progetti innovativi nel tempo libero. Ad esempio io, durante l'università, mi ero “infiltrata” nel progetto ESMO (European Student Moon Orbiter), un progetto Educational dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA), volto a mandare un satellite interamente costruito da studenti sulla luna. Facevo parte del gruppo che lavorava sul sottosistema propulsivo del satellite. Ho lavorato come ingegnere tecnico per un paio d'anni e poi sono finita a gestire il team come Project Manager. È stato un sacco di lavoro extra (lavoravo al progetto nel mio tempo libero, non faceva parte di nessun progetto/esame ufficiale universitario), da fare tra un esame e l’altro, ma ne è valsa assolutamente la pena, perché ho fatto molte conoscenze, ho avuto interazioni con l’industria,  ho fatto un internship in Inghilterra al “Surrey Satellite Technology Ltd” e ho presentato il nostro lavoro in ESA (European Space Agency), avendo a che fare con ingegneri veri e imparando molte cose nuove. Probabilmente è stato grazie a questo che ho ottenuto il mio attuale lavoro in EUMETSAT. Oggigiorno il mondo è pieno di persone che “hanno solo studiato ingegneria spaziale”. Per farsi notare bisogna fare qualcosa in più.
3) Non smettere mai di sognare. E se realizzi i tuoi sogni, creane di nuovi (sorride, facendo l’occhiolino n.d.r.)».

Lei lavora per Eumetsat (organizzazione intergovernativa europea che gestisce i satelliti meteorologici) ed è la più giovane italiana con funzioni dirigenti all’interno del progetto Metop (Meteorological operational satellite programme). Ha mai sofferto, fra percorso di studi e carriera lavorativa, discriminazioni sessiste, oppure – stante il livello del suo lavoro – non c’è spazio per queste piccinerie nel suo ambiente?
«Come ho già detto in un’altra intervista, all’università c’era un professore che credeva che per me fosse meglio andare a lavare i piatti, piuttosto che dare il suo esame. Invece adesso non più. Nel mondo di EUMETSAT ed ESA, la “diversity”  (intesa come diversificazione razziale, di genere etc.) è un concetto molto importante e sentito. Adesso proliferano le assunzioni di donne, minoranze etniche, persone di colore e persone che vengono da paesi come India, Azerbaijan, Pakistan, etc. Probabilmente oggigiorno, visto che per l’opinione pubblica la diversità è così importante, è paradossalmente più facile ottenere un lavoro se si fa parte di una di queste minoranze sociali. Nel 2015, quando ho cominciato, ero l’unica donna “staff” (quindi non consulente) nel Flight Control Team (il team degli ingegneri che si occupano delle operazioni del satellite) in EUMETSAT. Ora ce ne sono di più: c’è una spagnola che lavora per un’altra missione e che è più giovane di me e ci sono anche giovani ragazze che fanno parte di “Young Graduate Program”: programma mirato a dare possibilità lavorative e contratti di 2 anni a giovani che escono direttamente dall’università o con poca esperienza lavorativa».

Il progetto Metop – che coinvolge sia l’agenzia spaziale europea (Esa) sia quelle americane Noaa e Nasa – è finalizzato a tenere sotto controllo una grande quantità di valori (effetti di terremoti, ozono nell’atmosfera, livello dei mari, attività dei vulcani), mediante il lancio di satelliti nell’atmosfera. Come si fa a passare dalla sala di controllo di tutto questo al banco di un supermercato, senza perdere il contatto con la realtà quotidiana?
«Metop è la prima generazione europea di satelliti in orbita polare, che monta una serie di strumenti per il monitoraggio di clima e meteorologia. Abbiamo moltissimi prodotti e tra i nostri satelliti Metop e Sentinel-3 (orbita LEO sunsincrona) e Meteosat (orbita geostazionaria, monitorano principalmente il meteo per previsioni a breve termine) riusciamo a generare moltissimi prodotti per monitoraggio anche di meteo, clima, terremoti, tempeste, ozono, livello dei mari, scioglimento ghiacciai, deforestazione, attività dei vulcani e molto altro. Delle volte è difficile “staccare” completamente. Quando esco da lavoro mi ritrovo spesso a pensare a quello che ho fatto durante la giornata e a quello che dovrò fare domani, ma alla fine la vita non è solo lavoro, ho tante altre passioni e anche quelle sono molto importanti. Gli esseri umani sono creature complesse e se si può essere creativi a lavoro si può anche essere creativi a casa, facendo cose interessanti anche con amici o famiglia».

Lei si è occupata di coordinare le fasi post lancio del satellite Metop C, verificando il perfetto funzionamento di una macchina che viaggia a 26.500 chilometri orari a un’altezza di 817 chilometri sopra la Terra, mentre ci sono persone capaci di interrogarsi per ore sul colore di un capo di abbigliamento da acquistare. Anche lei indugia sulle decisioni banali, oppure non ha tempo per queste quisquilie?
«(Sonora risata, n.d.r.) lei non ha idea di quanto sia stato difficile scegliere il completo e i tacchi da indossare per il giorno del lancio! Certo, alla fine siamo tutti esseri umani. Per il mio lavoro, siamo allenati a reagire velocemente a problemi. Quando sono reperibile, posso essere contattata 24 ore su 24 dagli operatori del satellite, che monitorano attivamente i nostri satelliti Metop e, a volte, possono riscontrare un’anomalia. In quel caso, si deve mollare tutto quello che si sta facendo, andare a lavoro e cercare di risolvere il problema nel minor tempo possibile, perché molte anomalie possono essere critiche per un satellite se non si reagisce entro breve termine. Possono essere sia critiche per la vita stessa del satellite o solo per la produzione di dati, che se però restasse interrotta troppo a lungo causerebbe un “outage” in Europa di dati meteorologici per quella durata di tempo in cui gli strumenti non funzionano. Perciò se si riscontra un’anomalia si deve andare immediatamente in sala di controllo e cercare di capire qual è il modo migliore per reagire. Ad esempio, magari è meglio aspettare e contattare l’industria per avere supporto per risolvere il problema o invece, se il problema è chiaro, magari è meglio procedere alla “recovery” immediatamente con procedure esistenti, magari spegnendo e riaccendendo uno strumento con diverse impostazioni o facendo il restart del software. Ultimamente, mi risulta molto più facile prendere decisioni del genere che, ad esempio, decidere in quale ristorante andare a cena il sabato sera o cosa cucinare stasera per cena!».

Dovendolo definire, qual è il suo concetto di “essere sotto pressione”?
«Uno dei momenti in cui ero più sotto pressione è stato nei giorni post lancio del satellite Metop-C, quando ESA ha trasferito il controllo del satellite ad EUMETSAT e io e un altro ingegnere, sempre italiano, abbiamo mandato i primi comandi al satellite, nel bel mezzo della notte. È stata una grande emozione, ma eravamo sotto tantissima pressione: se qualcosa fosse andato storto avremmo rischiato di causare problemi al satellite. Qualche settimana dopo, eravamo nella fase di SIOV (Spacecraft In Orbit Verification) che io coordinavo e, durante una delle attività, qualcosa è effettivamente andato storto. Ci sono volute ore per capire quale e dove fosse il problema e poi cambiare la strategia, per continuare le operazioni in un modo sicuro per il satellite. Alla fine, i satelliti sono macchine che costano miliardi di euro, perciò se si fa un errore e si danneggia uno strumento si creano miliardi e miliardi di euro di danni. Senza contare che non si può mandare un omino nello spazio e aggiustare il satellite (sorride, n.d.r.)».

Ha degli hobby o dei passatempi, diciamo così, “terreni”? Come si distrae?
«Adoro la cucina (italiana ovviamente!) e mi piace moltissimo provare ricette nuove e fare dolci. Ultimamente, come molti altri italiani durante il lockdown, sono diventata un’esperta di pizza fatta in casa! In Germania non è facilissimo trovare una pizza come si deve, figuriamoci durante il fermo per il virus! Poi dipingo: pittura ad olio su tela. Mi piace fare paesaggi e anche ritratti. Ultimamente, sto leggendo libri per migliorare a dipingere la figura umana. Trovo dipingere molto rilassante e adoro l’arte classica italiana e pittori come Caravaggio. Mi piacciono anche gli impressionisti e i miei preferiti sono Van Gogh e Renoir, ma non sono ancora capace ad applicare lo stile impressionista ai miei dipinti (sorride, n.d.r.). Come sport pratico la pole dance, che adesso è tanto in voga anche in Italia. Non è la stessa cosa di fare la lap-dance, come magari della gente può pensare, ma è uno sport vero e proprio ed una ginnastica completa, che rafforza spirito e corpo! È un po’ tra la danza e la ginnastica».

Tre cose positive e tre negative della vita in Germania?
«Positive. Per prima cosa la birra strabuona (ci sono tantissimi micro birrifici). Poi le foreste. Non è un caso che i fratelli Grimm siano tedeschi e che molte fiabe siano ambientate nelle foreste tedesche. Le foreste sono davvero speciali qui e adoro fare passeggiate in estate ed autunno. C’è un’atmosfera magica! E poi sono piene di funghi e sto diventando un’esperta nel riconoscere porcini e mazze di tamburo. La terza cosa positiva è che si vive bene, il sistema sociale funziona bene e ci sono protezioni per diverse categorie sociali. La prima cosa negativa è che non c’è il mare. Cioè: c’è il Mare del Nord, ma non è nemmeno lontanamente la stessa cosa rispetto al nostro mare. E poi fa freddo. La seconda cosa negativa la individuo nel fatto che non c’è molta varietà di cibo, nel senso di “stesso prodotto, ma tipi diversi”. I prodotti ai supermercati sono sempre gli stessi, le marche le stesse. Stessa cosa per i vestiti. I tedeschi sono molto più funzionali di noi italiani, hanno bisogno di meno varietà.  Per fare shopping devo o tornare in Italia o andare in Francia! Pure i ristoranti sono sempre gli stessi. Al supermercato di pesce si trova solo salmone congelato, tonno congelato o, se sei fortunato, pesce persico o orata congelati. Ultima cosa negativa: le persone tendono ad essere meno flessibili rispetto a noi, si tende a vedere le cose in nero o bianco e ci sono mille regole da seguire, per tutto».

Cosa le manca di più dell’Italia?
«Mare e cibo. Non poter andare al mare e godersi l’estate è davvero una sofferenza. Qui, se siamo fortunati, fanno 30 gradi solo per un mesetto o per un paio di settimane, poi ritorna la media stagione. Mi manca proprio l’Italia, con gli ombrelloni, le spiaggette, il ristorantino di pesce sul mare. E poi la frutta e la verdura che sanno di qualcosa, che sanno di buono. I sapori qui non sono gli stessi, è tutto più blando, più industriale, tutta qualità da supermercato. E intendiamoci, la qualità da supermercato in italia è 10 volte meglio della qualità da supermercato in Germania».

Lei ha un papà primario ospedaliero di Malattie Infettive all’Ospedale di Teramo, una madre docente di pianoforte (anche se di cognome fa Arpa) al Conservatorio dell’Aquila e una sorella che come lei vive all’estero e si occupa di organizzazione di eventi. Ha mai pensato che voi quattro coprite praticamente tutti i bisogni di un essere umano: dal monitoraggio di ciò che accade nel mondo alla lotta alle malattie, fino allo svago passando per la musica. Siete una sorta di archetipo....
«(Sorride, n.d.r.) Sì, siamo proprio una bella famiglia! Ognuno ha la sua area di esperienze e questo ci dà qualcosa in più. Ci completiamo e ciò facilita lo scambio di informazioni e dà modo di imparare cose nuove e sempre diverse».

Quanto ha inciso la sua famiglia – o, più in generale – l’ambiente familiare, nel darle carattere e motivazioni?
«È stata fondamentale. Senza la spinta della mia famiglia non sarei riuscita a trovare il coraggio di andare a studiare a Milano da sola, dove non conoscevo nessuno. Il supporto dei miei genitori, economico ed emotivo, è stato cruciale anche per scelte come andare a fare la tesi all’estero o accettare il mio primo lavoro in un posto lontano come la Germania (che poi tanto lontano non è, ma nemmeno cosi vicino a casa!). Come ho detto anche in un’altra intervista, da piccola mia madre mi portava in spiaggia a vedere le stelle cadenti e mio nonno incoraggiava tanto la mia passione per la scienza, comprandomi tanti libri per bambini di scienza, astrofisica, e biologia in generale. Passavamo quella sera a settimana d’estate a guardare Superquark, che tutti adoravamo. I miei genitori mi hanno insegnato quanto sia importante non darsi mai per vinti e che sforzo, impegno e motivazione sono fondamentali per superare ogni avversità».

In una famiglia così ricca di talenti, di cosa si parla quando vi ritrovate riuniti intorno a un tavolo, magari per le feste?
«Niente di così speciale come si possa pensare! Si parla molto di Teramo, del nostro Abruzzo che io e mia sorella abbiamo lasciato e che adesso ci manca tanto, delle nostre colline, mari e montagne, del nuovo negozio o ristorante aperto, di ricette abruzzesi, di vecchi amici e della vita teramana, che per noi è più importante che mai, ora che non ne facciamo più direttamente parte. Poi certo si parla di noi, di come stiamo, che facciamo, progetti, viaggi e sogni per il futuro».
 
Quali sono i suoi obiettivi professionali per il futuro?
«Il prossimo obiettivo è completare il progetto “Metop-A End-of-Life”. Sto organizzando una serie di test tecnologici sugli strumenti montati sul satellite Metop-A, prima che il satellite venga spento dopo il completamento della sua vita operativa. Pianifichiamo di cominciare questi test tecnologici a ottobre 2021 e poi, a novembre 2021, cominceremo le attività per il “deorbiting” del satellite: abbasseremo gradualmente l’orbita con una serie di manovre, cosicché il satellite liberi l’orbita operativa (in preparazione per il lancio dei satelliti di seconda generazione nel 2023) e non contribuisca a produrre rifiuti spaziali. Una volta fatta l’ultima manovra, il satellite sarà immesso in un’orbita per la quale si disintegrerà nell’atmosfera terrestre in 25 anni. Finito questo progetto continuerò a lavorare sui satelliti di seconda generazione (EPS-SG) che al momento sono in fase di progettazione. Prevediamo, al momento, di lanciare il primo di questi satelliti nel 2023. EPS-SG sarà una costellazione di 6 satelliti sempre nella stessa orbita con strumenti di ultima generazione. Ci saranno anche altre missioni nuove e interessanti all’orizzonte. E poi magari, chissà, potrei pensare di passare a lavorare dai satelliti meteorologici a satelliti che si occupano dell’esplorazione del sistema solare, magari per l’agenzia spaziale europea... si vedrà!».

Come ha passato il periodo di lockdown lei, che di base viaggia a qualche centinaio di chilometri dalla terra per lavoro?
«Ho cucinato un sacco – diventando un’esperta nel fare la pizza, come ho già detto – e messo su peso, come tutti! Poi ho dipinto un paio di quadri e letto tanti libri. Alla fine, sono stata molto fortunata: ho un appartamento grande e luminoso e tanto spazio per lavorare in tranquillità. In EUMETSAT abbiamo cominciato a fare teleworking fin dall’inizio e quindi io non sono stata costretta ad andare in ufficio. Ci siamo sentiti sicuri e abbiamo affrontato la situazione del virus in serenità. Abbiamo sfiorato il dramma solo in un caso: quando in tutta la città non si trovavano carta igienica, farina e lievito!».

Luca Maggitti
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