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Giovedì, 25 Aprile 2024 - Ore 17:42 Fondatore e Direttore: Luca Maggitti.

Via Seneca [Il privè di ROSETO.com]
QUELLI DEL VENERDÌ
Foto di gruppo per ‘Quelli del Venerdì’.
[Saverio Di Blasio]


L’aspettativa.
[Saverio Di Blasio]


La realtà.
[Roberto Bergogni]


L’emozione di giocare a pallacanestro (oddio, giocare...) nella scuola di Via Piemonte in cui ho frequentato le elementari. Grazie al professor Saverio Di Blasio per l’invito e ai compagni di gioco. Il mio pensierino del giorno dopo.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Sabato, 25 Febbraio 2023 - Ore 18:15

Sono nato nel 1969. La Scuola Elementare che ho frequentato a Roseto degli Abruzzi è quella di Via Piemonte. Ogni volta che ci passo davanti in bicicletta solcando Via Manzoni – l’arteria che pompa il sangue alla zona interna di Roseto – vorrei fermarmi per rientrare nel posto in cui manco da poco più di 30 anni. Ma ogni volta è chiusa o il lavoro mi attende battendo nervosamente il piede per terra. Crescere, oltre al tempo che passa, è una questione di orari che non si accordano più.
Via Piemonte era l’avamposto del Maestro Donato Norante, abile sarto – seppi poi – con la passione dell’alta moda e dei costumi. Per noi della classe era invece il maestro che girava con la bacchetta di legno sottile come un grissino sotto il braccio, portandola come i francesi portano la baguette. Era il maestro con le guance butterate e gli occhialoni d’osso da ayatollah. Il Maestro “troppo bravo”.
Aperto, esigente, assolutamente originale rispetto alle distinte casalinghe con il registro che si vedevano insegnare nelle altre classi, il Maestro Norante chiedeva impegno e rispetto, trattandoci alla stregua di tanti figli, che reputava intelligenti al punto da coinvolgerli in cose che mi sembravano assolutamente inavvicinabili per la nostra età e per le nostre capacità.
Per cui quando una volta Raffaele – mio compagno di classe – gli chiese: “Maestro, ma perché l’uomo sente il bisogno di entrare dentro la donna?” ricordo il mio e l’altrui sbigottimento. Forse eravamo in terza. Lui sorrise, prese un piccolo sospiro e ruppe il ghiaccio rispondendo: “Raffaele, questa è una buona domanda…”.
 “Sto lavorando come un negro!” si imbufaliva, invece, quando voleva farci venire i sensi di colpa perché non stavamo facendo abbastanza nel supportarlo nei suoi progetti innovativi.
Il vulcano, costruito e fatto eruttare con una specie di carburo.
La palafitta, la cui costruzione era irta di pericoli a causa della stabilità.
La domus romana, con la mia personalissima folgorazione per l’impluvium.
Il castello, edificato utilizzando i fustini cilindrici del detersivo che diventavano, merlati, splendide torri di difesa. E quanta precisione nell’incollare la carta, disegnare le mattonelle, colorarlo, regolare il ponte levatoio sul fossato…
Il Maestro coordinava il lavoro e lavorava lui per primo, grazie alla sua strepitosa abilità con le forbici e con gli altri attrezzi del bricolage. Noi lo seguivamo e ad ogni progetto miglioravamo.
Mentre il modellino cresceva, crescevano le nostre competenze specifiche sia teoriche sia pratiche. Perché il Maestro ci faceva incollare un pezzo solo se gli sapevamo dire in quale ottica si inquadrava, a cosa servisse e di cosa si stava parlando. Un apprendimento, fatto con il sorriso sulle labbra, che mi ha inculcato una fortissima curiosità per la vita nel suo complesso ed in ogni sua sfaccettatura.
Eravamo la classe del Maestro Norante, quelli sporchi di colla e macchiati di pennarello, quelli che ritagliavano cartone, quelli che alla fine esponevano le loro opere e le illustravano a tutta la scuola, avendole comprese appieno. E quelle opere mi risulta siano rimaste per anni, forse decenni, negli spazi interni pubblici della scuola. Come sarebbe bello se ci fossero ancora…
Il Maestro Norante  andò in pensione proprio al termine della quarta classe. Così in quinta ci toccò un nuovo insegnante. Era una donna molto anziana – credo avesse rifiutato la pensione, ammesso che fosse fattibile – e viveva a Roseto degli Abruzzi, in una stanza del vecchio Albergo Roma, dove oggi c’è la Casa della Torta.
La maestra si chiamava Elisa Arru ed era molto diversa da Donato Norante. Tanto il Maestro era un padre originale ed alternativo, tanto la Maestra era una severa  zia-istitutrice, per di più bruttina.
Ma non ci mise molto tempo, Elisa Arru, a calare il suo asso nella manica, coinvolgendoci tutti: l’Esperanto!
Se Donato ci aveva rapiti strutturando con noi una specie di “Quark” ante litteram, Elisa ci stregò con la “Lingvo Internacia” inventata da un medico polacco. La lingua in cui la “e” congiunzione si diceva “kaj” (sempre se ben ricordo), “arrivederci”  faceva più o mano “gis revido” e Cappuccetto Rosso era “Capuciulino”.
Dopo il ciclone Donato, la piccola maestra sarda inossidabile aprì un’altra breccia nei nostri cuori, inculcandoci – con tutto l’amore che gli si leggeva negli occhi protetti da orrendi occhialoni con la montatura grigia – la consapevolezza che con una lingua artificiale, rispettando quelle naturali, le barriere mondiali sarebbero crollate. Un inno alla globalizzazione (negli Anni ’70!), per cui ogni volta che ci ripenso mi chiedo: quale provveditore agli studi illuminato avrà autorizzato l’esperimento dell’Esperanto in una classe di quinta elementare, per di più coordinato da una attempata maestra con una manciata di denti in bocca?
Nel 2001 mancò il Maestro Norante. Andai a trovarlo al cimitero portandogli un vasetto colmo di vezzosi fiorellini rossi. Non ho invece più saputo nulla della Maestra Arru. E me ne dispiace.


Quel che ho appena scritto è la prima parte di un contributo che inviai nel 2011 al compianto professor Nino Bindi – mio insegnante di Diritto ed Economia alle “Ragionerie” – avendo poi l’onore di vederlo stampato sul suo libro “Lettere e pagelle a un Professore”, pubblicato nello stesso anno.
Ho voluto riportarlo per spiegare bene cosa significhi ancora oggi, per me, la Scuola Elementare di Via Piemonte a Roseto degli Abruzzi, dove ieri sera – grazie all’invito del professor Saverio Di Blasio – sono andato a giocare a pallacanestro, unendomi all’allegra confraternita di “Quelli del Venerdì”.
Il tutto è avvenuto al termine della partita di padel di giovedì sera, quando Saverio – insieme al “compare” Marco Rapone (al quale devo il ringraziamento per avermi letteralmente “trascinato” a fare attività fisica dopo ere glaciali di assoluta immobilità) – mi ha fatto l’invito. Avevamo appena finito un doppio, insieme all’altro amico Alberto D’Angelantonio, e stavamo festeggiando – 4 amici su 4 di fede bianconera – la vittoria in trasferta della Juventus a Nantes, letta sul telefonino. Avremmo poi scoperto della magia di Di Maria (pieno di grazia).

L’invito mi aveva impaurito. Non “giocavo” a basket dal 2008, in occasione di una amichevole del glorioso ‘Ndundee United (rosetani e teramani componenti del compianto Forum di Roseto.com) e prima di allora, praticamente, dalle medie quando ebbi l’onore di fare il porta asciugamani alla squadra allenata dal professor Sandro De Simone (in cui giocavano quelli bravi davvero come i coetanei Carlo D’Emilio, Armando Cistola e Dante Battista, per dire dei primi tre che mi vengono in mente), espressione della Scuola Media Fedele Romani, oltre ai pomeriggi al Campo dei Preti (l’Arena 4 Palme era per i ragazzini di Roseto centro, mentre per noi “coreani” esisteva l’oratorio della chiesa a sud), sempre da minorenne. Insomma: di basket scrivo, ma giocare è un’altra cosa. Soprattutto quando hai 53 anni e subentra pure il senso del pudore.

Saverio mi tranquillizza: il mio panzone è ben accetto e le dimensioni del campo della palestra sono di qualche metro inferiore al 28x15. Inoltre, giocandosi lì in 4 contro 4, ci sono almeno 10 giocatori, per cui c’è un cambio possibile. Insomma: non spirerò in campo.

E sia! Accetto pieno di orgoglio, consapevole di essere stato convocato all’All Star Game, che per di più si giocherà nella palestra della scuola in cui, mezzo secolo fa, ho frequentato le elementari imparando cose che mi hanno positivamente segnato e indirizzato per tutta la vita.

E siamo a ieri, venerdì sera, poco prima delle ore 20. Entro nel cortile della scuola e Marco mi dice che la scuola non c’è più. Passo davanti ad alcuni alberi e mi ricordo di quando Daniele Carnevali e io portammo una “staiella” (tavola piatta in legno) e la inchiodammo a unire due pini fungendo da traversa. Dove oggi vedo un parco giochi (Saverio mi dirà poi che c’è una scuola d’infanzia), c’era un campo da calcio ridotto, con linee immaginarie e alberi da dribblare, dove spadroneggiava il talento di Gianni Ciotti: il Pelè di Via Piemonte.

Entrati negli spogliatoi, vedo arrivare tutte facce conosciute e mi tranquillizzo: sanno benissimo – non avendomi mai visto giocare – che non posso che essere una pippa immensa, i miei polsi sono tutt’uno col radio e quindi sbaglio anche gli appoggi da sotto e i miei piedi saldati al terreno dalla ciccia accumulata in oltre mezzo secolo. Sorrido e mi sento leggero: posso dare serenamente il meglio di me, consapevole che sarà il peggio per la mia squadra e che chi giocherà con me – molto probabilmente – perderà.

Arriva Saverio che annuncia mal di schiena, dunque fungerà da arbitro e spettatore. Ci dice pure che manca un altro giocatore. Siamo 8 contati e io dovrò giocare tutto il tempo: sono fottuto!

Capito in squadra con Marco, Bruno e Giorgio e prima di iniziare porgo loro delle vaticinanti scuse per come giocherò.

Di fronte abbiamo Fabio, Adamo, Peppe e Ivan.

Saverio dispone 3  tempi da 10 minuti non effettivi e si siede di lato per seguirci e amministrare la contesa, raggiunto poi da Roberto.

I tre tempi da 10 minuti diventano 4, con l’ultima frazione da 6 minuti. Finisce, ovviamente, con la sconfitta della squadra che ha avuto la sventura di schierarmi.

Comunque, a proposito del punteggio, ho molto apprezzato una riflessione di Fabio: “Dobbiamo giocare senza punteggio, per il puro gusto del gioco”. Le sue parole mi hanno fatto tornare in mente il grande calciatore Andriy Shevchenko, che in una intervista ricordò che il suo mentore, l’allenatore Valeri Lobanovsky, faceva allenare gli attaccanti a tirare in porta senza portiere, per disinibirli. Ecco, sono d’accordo con Fabio: bisognerebbe – noi, che possiamo permettercelo – giocare senza punteggio per il puro amore del basket, per la ricerca dell’estetica e dell’armonia di squadra, liberandoci da complessi, condizionamenti e pregiudizi.

Complimenti ai miei 3 compagni di squadra (Giorgio ha segnato un paio di canestri di puro talento in pregevole acrobazia, Marco e Bruno qualità e quantità sapientemente mescolate) e agli avversari (Ivan il terribile e imprendibile angelo biondo che ricordo bravo pallavolista, Fabio maratoneta e tiratore, Peppe solidissimo mio avversario diretto e Adamo profeta della tripla a tabellone). E grazie, di cuore, a Saverio dell’invito.

Mi sono divertito e sono ancora vivo!

Andando a casa, da Via Piemonte passo sotto l’ex passaggio a livello e mi immetto su Via Marina. Davanti al ristorante pensione Gemma, un gruppo di persone parla in mezzo alla strada: staranno fumando dopo cena. Passo e non posso fare a meno di sentire – per un centinaio di metri – che stanno ricordando di quando alcuni di loro scesero da Prati di Tivo per andare a Pesaro a tifare Roseto, che vinse con una tripla di Norman Nolan. Era la Serie A1 2003/2004. Cammino e sorrido, poi mi giro, li fotografo e mando la foto tramite WhatsApp a “The Storm”, raccontandogli la cosa e aggiungendo che sono stato a giocare a basket dopo 15 anni.

Norman mi risponde poco dopo, felicissimo che a 20 anni di distanza la gente si ricordi ancora di lui e di certe vittorie, annunciandomi che questa estate vuole tornare ancora a Roseto, come fatto lo scorso novembre, e raccomandandomi di giocare col freno a mano tirato, visto il mio girovita.

Lo tranquillizzo: che io voglia o meno, il mio freno a mano è sempre tirato!

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Luca Maggitti Di Tecco
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