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Cultura
LA PENNA DI GIACOMO MATTEOTTI
Giacomo Matteotti.

Uno struggente articolo di Mario Giunco, pubblicato su Koinè.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Domenica, 12 Maggio 2024 - Ore 19:45

“Caro dottore, ho sempre trovato nell’anima sua qualcosa di sofferente e di sensibile. Le ho voluto bene per questo”.

“Come si soffre, dottore, quando si ha pieno il cuore e bisogna sorridere. Ma dovesse costarmi la vita, vorrò perdermi tutta nell’amore che avrò sempre per lei”.

La storia personale di Giacomo Matteotti (1885-1924) e della moglie Velia Titta (1890-1938) è affidata a oltre seicentocinquanta lettere, che coprono quattro anni di fidanzamento (1912-1916) - per un anno si danno rigorosamente del “lei” - e otto di matrimonio.

Giacomo, di famiglia benestante - lo accusavano di essere un “maestro milionario” che guidava “discepoli straccioni” - era tutto preso dalle sue battaglie politiche, sempre in giro per l’Italia e l’Europa, parlava e scriveva correttamente in tedesco, inglese e francese.  

Velia, sorella del famoso cantante lirico Ruffo Titta, aveva una educazione raffinata e una fede profonda, voleva farsi monaca.  

Si scrivono con vezzeggiativi al maschile  - “Chini” e “Giaki”, il figlio primogenito sarà “Strombolicchio” -  come due fidanzatini di oggi.

Lei sacrifica il sogno delle nozze in chiesa, per rispettare la “coerenza d’atto e pensiero” del marito. “Non posso mentire nascondendo il mio cuore, ma saremo felici lo stesso, sarò religiosa lo stesso, vivendo uniti in qualsiasi lotta”.

Mai nella corrispondenza trapelano ira, sfiducia, pentimento, disperazione.  “Una vita di solo amore  non potrebbe mai bastare a uno come te”. “Pensa un pochino a te come prima carità”. “Tu non c’eri, ma ti avevo nel cuore”.

Il loro rapporto si svolge quasi sempre a distanza, sia prima che dopo il matrimonio, ma è un legame indistruttibile.  

“Caro dottore, io le voglio e le vorrò sempre un gran bene, anche se mi farà soffrire”. Giungono a scriversi perfino quando sono  entrambi a Roma.  Per Giacomo Velia è “sorella, amante, donna e amico, mamma e bambina”.  

Talvolta affiorano la solitudine, la malinconia, la consapevolezza delle preoccupazioni familiari. “Io dalle tue lettere vedo una vita priva di ogni luce da qualunque parte essa venga; eppure penso che se in un momento manca da una parte, c’è sempre dall’altra; dove cade una speranza ne sorge un’altra, più grande, più piccola, sia inconclusa, sia irraggiungibile, sia pure vana. Non ti ritrovo più come eri, non rispetto a me, ma alla vita e a te stesso”.  

L’ultima lettera di Giacomo è datata 26 agosto 1923: “Mi sento tutto fuori della vita e della realtà”. Velia gli scrive il 15 maggio 1924, meno di un mese prima dell’assassinio per mano dei fascisti.

Mussolini se ne assume  la paternità politica.

L’istruttoria  inizia nel tribunale di Roma, ma il giudizio è rimesso alla Corte d’Assise di Chieti. Il processo  si svolge dal 16 al  24 marzo 1926 e si conclude con pene mitissime per i colpevoli. La vedova  e i figli Giancarlo e Matteo non si costituiscono parte civile, nella convinzione che il vero responsabile del delitto sia il re Vittorio Emanuele III, per una vicenda di tangenti petrolifere.

Velia è accusata ugualmente di vilipendio alla Corte.

Affida la sua difesa all’avvocato Pasquale Galliano Magno (Orsogna, 1896 – Pescara, 1974), appena maggiorenne sindaco socialista del paese natio, perché ne apprezza  “la bontà d’animo e la dirittura della coscienza”.  

È lui a definire quello teatino  “un processo burla”. Ma la sua integrità morale è riconosciuta anche da un avversario politico, Giacomo Acerbo, che lo nomina amministratore unico del suo patrimonio, comprendente la preziosa collezione di ceramiche di Castelli.

Velia lo incarica di recuperare le poche cose del marito: una tessera ferroviaria, una ciocca di capelli, la falangetta di un dito, pantaloni e giacca, con la manica staccata.

A ulteriore dimostrazione di gratitudine, gli dona la penna stilografica Waterman di Giacomo, la stessa con cui scriveva le lettere a “Chini”.

Mario Giunco
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