20 giugno 2009. Simone Gambacorta e Luca Maggitti. Selfie al quadrato, un anno prima che cominciasse ad andare di moda quello semplice.
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Simone Gambacorta propone un articolo figlio di un trapianto tutto interno al corpo web della parola, con annessa e connessa (connessa sicuramente) migrazione dalla sfera social (i suoi Facebook e Instagram) a quella di Roseto.com.
Roseto degli Abruzzi (TE)
Sabato, 26 Aprile 2025 - Ore 11:30
Le cose che scriviamo sui social sono potenzialmente sempre presenti, perché possiamo richiamarle o recuperarle quando desideriamo, ma sono anche toccate da una speciale forza di gravità che velocemente le tira giù e le fa finire in fondo ai nostri profili o alle pagine o a quello che è.
Certe volte però quei brevi testi, scritti magari rapinosamente e con una scioltezza psicologica che in altre sedi sarebbe stato difficile avere, mostrano di serbare una freschezza e una lucidità non del tutto trascurabili.
Per questa ragione sono andato a recuperare alcune cosine da me scritte di getto sui social (negli ultimi anni) e le ho messe insieme (come qui si vede) e poi ho mandato tutto a Luca Maggitti, che da anni mi ospita qui sul suo sito tramite questa rubrica della quale mia ha reso padrone e sotto (grazie Luca), chiedendogli se le considerasse pubblicabili anche sotto forma (cioè questa che vedete qui) di articolo online autoriciclato.
Autoriciclato in quanto figlio (codesto articolo) di un trapianto tutto interno al corpo web della parola (in questo caso: le cose che ho scritte), con annessa e connessa (connessa sicuramente) migrazione dalla sfera social (il mio profilo Facebook o Instagram) a quella di un giornale online (roseto.com).
Quindi, se state leggendo questo pot-pourri di cose diverse e distanti, ma tutte scritte e pubblicate sul mio Facebook o sul mio Instagram, vuol dire che il buon Maggitti ha ritenuto saggio assecondare questa mia nuova stramba e probabilmente inutile idea.
Aggiungo: quando, oltre alla data di prima pubblicazione, vedete indicata, al termine di ciascuna noticina, la dicitura "Facebook", significa che quella noticina è apparsa sia lì che sul mio profilo Instagram; se invece vedete riportata la sola dicitura "Instagram", vuol dire che la relativa noticina è apparsa solo lì.
Qualcuna magari l'avrò messa anche sul mio LinkedIn, ma non ho avuto modo di controllare. Anzi, devo essere sincero: sono pigro, e per giunta sempre più spontaneamente inimico dell'esattezza, quindi la verità è che di andare ad appurare quali di queste mie note avessi eventualmente pubblicato anche su LinkedIn non avevo alcuna voglia.
Sarebbe stata anche, tutto sommato, una cosa da matti (fare quel controllo), da fissati, da pignoli: e penso proprio alla pignoleria noiosa e moribonda che molto spesso riscontro in chi vive una vita certo più degna della mia ma con la mia del tutto incompatibile.
Specifico inoltre che di correzioni e modifiche ne ho fatte pochissime, per ragioni analoghe a quelle testé esposte.
Oltretutto non ho fatto granché per accorgermi quando fosse opportuno intervenire, quindi ci saranno verosimilmente refusi e compagnia bella, ma non me ne importa: sono inezie e chi eccepisce sviste et similia nei testi altrui è di solito imbecille o moralista (cioè la stessa cosa).
Infine: di chi o che cosa ciascuna noticina parli, lo si può desumere leggendole, sicché non hanno titolo: tuttavia, in ossequio a un minimo senso della struttura delle cose, le ho numerate: dalla numero 1 alla numero 9.
La morale della favola allora qual è? Che le parole dei social trovano in una particolare prova del 9 (come appunto questa mia) la possibilità di misurare in una matematica autoreferenziale e cialtrona la propria riluttanza all'effimero.
Ma è bene che non diate soverchio credito a quanto ho appena detto (la prova del 9 ecc) in quanto trattasi della prima cosa a effetto venutami in mente pensando appunto al 9.
Puta caso: se invece che 9 avessi trascelto 10 delle mie note trascorse, questa storia della prova del 9 non mi si sarebbe mai creata in testa.
Comunque eccole qui le noticine che ho chiamato a rimpatriata.
1) È qualcosa di più che un racconto sulla guerra: qualcosa di più arcuato nella persistenza del dolore. Il cimitero cinese parla di tutto quello che, dopo una guerra, non va più via dagli uomini e dalle cose. Una donna, un uomo e il tormento, come in un film di Bergman o Antonioni. Mario Pomilio ci lasciava trentacinque anni fa, la sua letteratura è ancora con noi.
(Facebook, 3 aprile 2025)
2) Le figure di Tomi Ungerer sono repellenti, ma nessuna ha schifo dell'altra: si attraggono, si vogliono, s'ammucchiano, s'accoppiano, si divorano. Nel mondo che abitano, nessuno fa caso alle interiora e nessuno guarda l'interiorità. La bella società crede a ciò che la sostiene, che la distrae, che la eccita, che la maschera: il denaro, il divertimento, lo sfarzo e quelle ritualità tribali che il tratto deformante di Ungerer rende cannibalesche e mostruose. È un'umanità che decompone i propri connotati antropomorfi e diventa un unico, indistinto corpo mal digerito. Quello di The party è un bel mondo che ingoia e poi vomita chi lo popola.
(Facebook, 31 marzo 2025)
3) Distanze, solitudini, perdite, estinzioni. Lontano io di Ernesto Franco è un libro senza spazio per immagini che non siano un sibilo, una pallottola che taglia in due il senso di quello che siamo.
(Facebook, 18 marzo 2025)
4) Ho visto sere fa in tv Tutti gli uomini del presidente di Pakula e notavo che nel film è ampio lo spazio occupato dalle macchine da scrivere, dai taccuini, dalle matite, dagli appunti. È un film di scrittura. L'intera inchiesta che ne è al centro si sviluppa sulla scrittura manuale. I due giornalisti annotano tutto il possibile per chiarire a se stessi il quadro dell'inchiesta che stanno portando avanti per il Washington Post (il caso Watergate. Dustin Hoffman è Carl Bernstein e Robert Redford è Bob Woodward). I taccuini, la manualità del segno, del tratto, della parola: tutto dice moltissimo del transito non reversibile che si è compiuto dallo stilo/matita a quella sineddoche del nostro oggi che è il selfie; idem per i cambiamenti intervenuti nel nostro rapporto con la memoria e con l'utilizzo che possiamo farne. Un altro aspetto rilevante è la gestualità: oltre alla scrittura, c'è la sigaretta. Sta nelle mani degli attori come una matita che brucia. Una matita con i minuti contati. Effettivamente la matita dell'inchiesta - quella per mezzo della quale l'inchiesta materialmente si compone, si fa traccia, nome, pista, appunto, cancellatura, correzione, articolo - è una matita che brucia. Brucia in quanto appura vicende scottanti e brucia in quanto l'inchiesta è un processo accelerante. Una corsa contro il tempo. La sigaretta è il cronometro per l'uscita dal labirinto ed è il termometro del cammino febbrile della notizia. La sigaretta e la matita sono legate nel film dal nesso della carta che s'infiamma: quella che avvolge il tabacco e quella del giornale.
(Facebook, 15 gennaio 2025)
5) "Non mandava più che una comica vocina nasale sopra un tintinnio sottile come d'infiniti bicchieri minuti e fitti". C'è perfidia, nel Fogazzaro di Piccolo mondo antico.
(Facebook, 9 giugno 2024)
6) Nella poesia di Sebastiano Addamo è presente, o in qualche modo evocata o allusa, la parola incubo. Questa parola giunge al lettore per lessico o per sensazione. Ma è un incubo non orrorifico, non è completamente scoperto, non è insomma un incubo - per così dire - lovecraftiano: è semmai un incubo che si direbbe quieto, installato in una totalità senza altre spinte diverse dal semplice esplicitarsi come permanenza; ed è un incubo che ha sullo sfondo un buio lunare, cioè un che di illune e irredimibile, e così anche il molto di metropolitano che fa da ambiente alle immagini addamiane diventa come preda di una dannazione allo sperdimento: come se quelle immagini affiorassero nella disperazione di un luogo espunto, remoto e vicino, perturbante e già morto. Non un inferno, ma un inferno conosciuto, toccato, agito nella lingua di una parola brunita e attonita.
(Facebook, 22 settembre 2024)
7) La poesia di Diego Valeri mi colpisce per quell'afflato, quell'ansia che mi sembra di percepirvi dentro, come una sotterranea supplica di ascolto - una clausola che sta come oltre i versi, spersa in un punto dal quale pure continuamente torna a battere: è come se vi fosse, nei versi, la coscienza perfetta del "pochissimo" umano e del "tutto" del dolore; di cosa possano essere il soffrire, il patire; di cosa possano essere il conoscere e il subire quella separatezza che non si sa nemmeno come affrontare, se non assecondandola tutta nel suo presentarsi, nel suo dilagare nelle forme inattingibili di un assedio implacato, sistematico, che s'aggrega alla molecola di questo o quel "momento" e lo storce a ripiegamento, a interrogativo, a prognosi incompiuta. Mi sembra che questa coscienza induca un'attonita e afflitta speranza di affratellamento, una richiesta di carità umana, di vicinanza, nella consapevolezza di quello che non siamo, che non potremo essere, che non abbiamo, che non sappiamo. Ha soprattutto questo, la poesia di Valeri: che ognuno ne è ricondotto alla propria inestirpata solitudine. "e penso una cosa che non voglio pensare: / una cosa / che da sé, da sola, tutte le sere viene, / come viene più tardi la stella. / E dico a me stesso: la stella, la sera, / ma domani non più sera né stella". Le poesie di Valeri sono state ripubblicate da Il Ponte del Sale a cura di Carlo Londero col titolo Il mio nome sul vento.
(Facebook, 23 aprile 2024)
8) Ho iniziato a leggere questo libro (Sulla disperazione d'amore) con curiosità ma anche con un po' di pregiudizio. La curiosità era ben riposta, il pregiudizio no. Stefano Bonaga qui parla infatti della "disperazione d’amore" e va bene: ma quello che ne dice è così persuasivo e "riconoscibile" da virare subitissimo verso significazioni più paradigmatiche, vale a dire più universali. Sicché nel piano del suo discorso, che di per sé non può essere spostato eccessivamente, è possibile far accedere benissimo questioni che oltre all’amore riguardano più in generale il nostro modo di agire/reagire dinanzi a ciò che possiede/rivendica/impone la forza concreta e metaforica di disarcionarci. In questo libro sull’essere disarcionati, la virtù analitico-argomentativa, della quale è per giunta parte una lampeggiante virtù ironica, si manifesta in senso formale come un precipitato che si addensa/condensa/conglomera nella misura del "pensiero" , cioè dell’enunciazione breve ma stratificata nel suo essere tesa-contratta-articolata. Alla fine dei conti quello che Bonaga fa con ammirevole intelligenza è descrivere/lumeggiare/osservare uno stato il cui richiamo di comprensione va parecchio oltre la definizione empirico-soggettiva che tutti pensano di poterne dare: e così la costituzione in discorso di una semeiotica della dolenza porta alla tipizzazione di un’entità singolare la quale è appunto quella facente capo al caos del disperato d'amore.
(Instagram, 20 ottobre 2023)
9) "La sera si stava avvicinando; di quelle sere viola nelle quali gli uccelli tra i platani gridano pazzescamente". È un passaggio del primo romanzo di Mario Tobino (1910-1991), Il figlio del farmacista, appena ripubblicato da Vallecchi. L'ho letto quasi senza accorgermene. È un bello e breve libro ed è un discorso sulla diversità umana, perciò è quanto mai attuale: chi passa il suo tempo con i muli, chi ha un algido animo da burocrate, chi se ne sta in manicomio; la gamma dei casi e dei tipi è varia. Ma più ancora, è un discorso sulle diverse sensibilità e sulle tante sorti che si possono incontrare una mattina qualsiasi o durante tutta una vita. A cominciare proprio dal figlio del farmacista, che è solitario, che scrive poesie e che di continuo asseconda il vizio del suo forsennato immaginare. Della sua intensa vita mentale ci riferisce quanto di lui può dirci quell'ignota voce narrante che ce lo racconta dall'inizio alla fine, e con una prosa tutta soffusamente vibrata di empatia verso il mondo. Sono sufficienti meno di cento pagine perché il figlio del farmacista, questa figura così completa e però anche così poco profilata (quasi vergine, quasi diafana: e che si lascia enunciare ma che non si lascia dire), affiori nelle diverse significazioni dei suoi gesti, delle sue parole e dei suoi silenzi, nel normale mistero di una vita che si muove tra il "canto" strano dei giorni e la morte.
(Facebook, 8 dicembre 2020)
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Simone Gambacorta
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