Il professor Flavio Felice.
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Simone Gambacorta a colloquio con Flavio Felice, tornato dagli Stati Uniti dove è stato visiting professor alla Catholic University di Washington.
Roseto degli Abruzzi (TE)
Martedì, 13 Maggio 2025 - Ore 16:45
È bello poter parlare con una persona come Flavio Felice, teramano, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all'Università del Molise, firma di "Avvenire" e del "Foglio", presidente del Centro studi Tocqueville-Acton e direttore della rivista "Prospettiva Persona". Felice è da poco rientrato dagli Stati Uniti, dove ha avuto per sei mesi cattedra alla Catholic University of America, a Washington.
In questa intervista tocchiamo con lui tanti temi: parliamo dell'America del Trump bis, che ha osservato in diretta con gli occhi dello studioso del pensiero politico, quindi attraverso un'ottica specialistica, e parliamo, ed è il piatto forte, di Melchiorre Delfico, perché è stato al filosofo ed economista morto nel 1835 che Felice ha dedicato a Washington una Novak Lecture. Poi, ancora, il suo nuovo libro "Pensare il Buongoverno", il suo interesse per Luigi Sturzo e Wilhelm Röpke e l'intelligenza artificiale.
Sei appena tornato da un periodo di insegnamento alla Catholic University di Washington, dove sei stato visiting professor. Che America hai trovato?
«Un'America vivace come sempre, ma decisamente più divisa. La tradizionale distinzione tra conservatori e progressisti ha assunto un carattere estremamente radicale. La polarizzazione tra democratici e repubblicani ha trasformato gli Stati Uniti da una Repubblica il cui carattere fondante è sempre stato un certo “repubblicanesimo condiviso”, ad una Repubblica il cui carattere più riconoscibile oggi è la partigianeria. La Repubblica dei repubblicani non è più la stessa della Repubblica dei democratici. Il vanto di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, manifestato in occasione del suo discorso inaugurale del 4 marzo 1801, oggi non è più valido. Jefferson rivendicava lo stesso spirito repubblicano dei cittadini americani, a prescindere dall'appartenenza partitica, descrivendo i due partiti come le due facce di una stessa medaglia: “siamo tutti fratelli nel comune patto costituzionale”. Ebbene, quella fede nel repubblicanesimo condiviso che accomunava Jefferson e i padri fondatori, pur nelle grandi differenze che portarono alla Guerra Civile, oggi sembra sparita e sostituita dalla partigianeria di chi non considera più l'avversario politico degno di far parte della medesima comunità politica, la cui cifra è data dal riconoscimento nella comune costituzione: il “covenant” che sta alla base dell'esperimento e della nazione americana”.
Una cosa mi ha colpito di questo tuo periodo: il fatto che tu abbia tenuto una Novak Lecture dedicata a Melchiorre Delfico. Mi sembra che il filosofo teramano sia stato consegnato a una dimensione internazionale. C'è effettivamente quindi un'attualità del pensiero di Delfico?
«Diciamo che è stata una felice coincidenza. Ero a cena con il preside della School of Business della Catholic University of America, dove ho svolto un semestre come visiting professor e, parlando della mia conferenza pubblica di fine semestre, il preside mi ha proposto di introdurre il contributo al pensiero economico di alcuni autori dell'illuminismo italiano. La discussione era nata da una riflessione su Alessandro Manzoni e dallo stupore del preside per la competenza economica del Manzoni, mostrata in diversi capitoli dei “Promessi sposi”. Allo stupore, ho risposto che era facilmente spiegabile, essendo Manzoni nipote di Cesare Beccaria. A quel punto, il preside mi ha proposto di presentare il contributo dell'illuminismo italiano allo sviluppo del pensiero economico. Mi è sembrata una splendida opportunità per introdurre il pensiero di Melchiorre Delfico che, tra i tanti autori dell'illuminismo italiano, e specificatamente napoletano, ha rappresentato uno snodo fondamentale per comprendere il superamento del feudalesimo e il rifiuto del mercantilismo. Il mercantilismo è la teoria economica che sostiene che la ricchezza delle nazioni dipende dal surplus della bilancia commerciale che si ottiene proteggendo il mercato nazionale attraverso i dazi. Soltanto poche settimane prima il presidente Donald Trump aveva lanciato la sua politica neo protezionista, annunciando dazi commerciali a tutto il mondo e Delfico sosteneva che i dazi sono alla base della barbarie civile e che, per uscire dalla barbarie, bisognasse adottare un sistema di assoluta libertà economica. Mi chiedi, dunque, se Delfico è attuale, penso proprio di sì, come lo è tutta la scuola di economia civile che ha avuto nell'illuminismo napoletano del XVIII e del primo XIX secolo il punto di maggior sviluppo teorico. L'opera economica di Delfico teorizza la libertà economica, contro i dazi, e individua nelle carestie, oggi diremmo nelle ripetute crisi economiche, l'esito della cattiva amministrazione. Penso che meditare sull'opera di Delfico sia decisamente utile e affascinante».
Vengo a una curiosità di tipo metodologico. Quando si studia il pensiero di un filosofo vissuto secoli fa, che tipo di approccio critico occorre? Spiego meglio: spesso, in particolare nella tendenza più localistica, più municipalistica, delle cose, quando si studiano autori in qualche modo considerati come delle glorie locali, si tende a indulgere a una certa enfasi. Invece in ambito accademico, in ambito cosiddetto scientifico, che cosa occorre fare?
«Hai perfettamente ragione, gli autori, studiati a livello locale, sono spesso trasformati in strumenti per la promozione di qualche carattere locale e rischiano di diventare macchiette folcloristiche. Questo non è certo il caso di coloro che negli anni si sono occupati di Melchiorre Delfico, ma è vero che si corre sempre questo rischio; a tal proposito, vorrei ricordare gli importanti lavori di Gabriele Carletti e del compianto Adelmo Marino. Il metodo scientifico per studiare autori locali non può che essere il metodo scientifico in sé. In cosa consiste il metodo scientifico? Consiste nel cogliere, nell'opera oggetto di analisi, un problema sollevato dall'autore, nel caso di Delfico economista, ad esempio, il problema delle cause della carestia. Una volta individuato il problema, si presentano le congetture prodotte dall'autore, le cosiddette inferenze ovvero le ipotesi esplicative che rendono ragione del darsi del problema; volendo rimanere sull'esempio di Delfico e delle carestie, il filosofo teramano individuava tre cause: gli eventi atmosferici, le guerre e la cattiva amministrazione. Infine si passano al vaglio critico tutte le ipotesi per vedere quale delle congetture mostra di essere in grado di risolvere il problema dal quale eravamo partiti: il perché del darsi di una carestia. Seguendo il ragionamento di Delfico, tutte e tre le ipotesi appaiono verosimili, ma la terza ragione: il cattivo governo, assume particolare importanza. Se adottiamo il metodo scientifico, non esiste l'autore locale o la microstoria, tutti gli avvenimenti sono riducibili alla triade del metodo scientifico: problema, congetture, confutazione».
Come è stata accolta dai tuoi colleghi accademici a Washington questa tua lecture su Melchiorre Delfico? Ci sono stati degli spunti che potrebbero generare nuove ricerche, nuovi percorsi di approfondimento, quindi una creazione di una nuova circolazione di idee in termini di disamina di Delfico stesso?
«L'accoglienza è stata molto buona e in molti, tanto tra i colleghi quanto tra gli studenti, hanno mostrato un notevole interesse. Ho presentato la figura di Delfico come un possibile ponte tra le due sponde dell'oceano Atlantico. Sono partito dal mio personale rapporto con il professor Michael Novak, uno dei miei maestri, al quale è dedicata la cattedra che mi è stata affidata nel semestre accademico appena concluso. Ho raccontato quanto Novak fosse interessato a costruire ponti tra l'Europa, l'Italia in modo particolare, e gli Stati Uniti e quanto tali ponti avessero sul versante italiano ed europeo i pilastri radicati nel pensiero umanistico e cristiano. Per questa ragione, un autore come Delfico può rappresentare un interessante punto di incontro tra il pensiero liberale americano, quello dei padri fondatori, e la tradizione classica, rinascimentale e illuministica italiana. Al centro di tale pensiero troviamo l'arte del “Buongoverno”, l'esperienza repubblicana delle libere municipalità e il processo di integrazione europea, iniziato dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale».
Hai studiato Luigi Sturzo, a cui hai fra l'altro dedicato un libro importante, hai studiato William Röpke: come è nato e quando l'interesse per Melchiorre Delfico?
«È nato casualmente, studiando il pensiero economico che fa capo alla cosiddetta scuola dell'economia civile dell'illuminismo settecentesco napoletano. Mi sono affidato a un classico della storia del pensiero economico: la storia dell'analisi economica di Joseph Schumpeter, e lì ho trovato il riferimento diretto a Melchiorre Delfico, indicato come uno dei padri della teoria dei vantaggi comparati, sviluppata successivamente dall'economista classico britannico David Ricardo. Fino a quel momento per me, lo confesso, Delfico era una via, una piazza, una biblioteca e il liceo classico di Teramo. Incuriosito, mi sono procurato l'opera omnia del filosofo teramano, curata da Giacinto Pannella, e ho iniziato a studiare tutte le sue opere economiche. Ne sono rimasto incantato per acume e chiarezza e ho pensato di scrivere un saggio. Così sono nati diversi lavori sul suo pensiero economico, cercando sempre di attualizzarlo, leggendolo in parallelo con le opere dei teorici della politica e dell'economia contemporanei. Credo che sia molto interessante leggere Delfico, in modo comparato, con l'opera di Vilfredo Pareto, Maffeo Pantaloni e Antonio De Viti De Marco, con riferimento al rapporto tra peso fiscale e dimensione della macchina statale, con l'opera di Luigi Sturzo, con riferimento al tema della libertà e della dimensione popolare del potere, con gli scritti di Wilhelm Röpke, con riferimento al problema della costituzione economica, per difendere e promuovere quello speciale bene pubblico che è la concorrenza economica, contro il rischio che il sistema capitalistico si trasformi in un sistema monopolistico. Infine, appare altrettanto interessante leggere l’opera del filosofo teramano in stretta relazione con l’opera dei recenti premi Nobel per l’economia Daron Acemoglu e James Robinson, con riferimento alle istituzioni inclusive e estrattive che Delfico ha studiato con l’intenzione di superare il sistema feudale».
È stata appena pubblicata la tua nuova opera, “Pensare il Buongoverno”, un volume pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana. So che è un lavoro a cui hai dedicato molto tempo e molta attenzione.
«Sì, almeno nelle intenzioni. È il frutto degli ultimi anni di lavoro, durante i quali ho cercato di sviluppare una riflessione su vari temi. Dal problema del Buongoverno all'articolazione del potere in senso sussidiario. Dal problema della pace alle spinte populiste che stanno interessando non pochi paesi del nostro occidente. Il libro si articola in due parti, la prima dedicata alla teoria del Buongoverno e la seconda all'idea di pace giusta e duratura come esito della cosiddetta via istituzionale. Con particolare riferimento alla prima parte, sono partito dall'analisi del noto ciclo di affreschi dipinto da Ambrogio Lorenzetti, presente nella Sala della pace del Palazzo pubblico, nella splendida Piazza del Campo di Siena. Il ciclo pittorico descrive l'allegoria del Buongoverno, gli effetti del Buongoverno e gli effetti del cattivo governo. La condizione del Buongoverno è un sistema sociale e istituzionale di tipo plurale, dove l'autorità politica è limitata dall'esercizio della vita civile da parte di tutte le parti che compongono il corpo sociale, al punto che la stessa personificazione del potere politico è raffigurata con i polsi legati da due corde che, attraversando il governo della città, giungono fini ai cittadini: mercanti, agricoltori, funzionari pubblici, artisti. È la rappresentazione più esplicita di un ordine civile plurarchico, incompatibile con qualsiasi visione di tipo sovranista e monistica. Nella seconda parte tento di declinare questo paradigma del Buongoverno e della sussidiarietà nel campo della pace e della via istituzionale, ovvero politica, della tradizionale carità cristiana, così come è stata elaborata da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, ricorrendo all'opera di Luigi Sturzo, Sergio Cotta, Alexis de Tocqueville, che dialogano con le teorie politiche ed economiche di Karl Popper, Friedrich von Hayek, Daron Acemoglu, James Robinson, solo per citare alcuni. Emerge la profonda incompatibilità tra la prospettiva post-liberale delle cosiddette democrazie illiberali con la tradizione del liberalismo classico e la netta opposizione del popolarismo e del liberalismo classico all'attuale spinta populista».
“Lo sguardo politico dei grandi narratori” è invece il titolo di un libro pubblicato da Rubbettino che tu hai curato. Vi sono raccolti saggi di studiosi diversi, di autori diversi, su scrittori importanti, da Manzoni a Dostoevskij, a Eliot, a Mario Pomilio. Non sono tutti, ne cito solo alcuni, mi limito a questi. C'è anche nel volume un'importante postfazione di Dario Antiseri. Ecco, chiedo a te, che sei un professore di Storia delle dottrine politiche, questo: quanto è importante la lente della letteratura per poter leggere la politica dei nostri anni, della nostra epoca? E soprattutto: questa lente immagino che non si fermi solo al suo stadio distopico, immagino esista un livello più profondo, in termini conoscitivi, che la letteratura offre. Cosa ne pensi?
«Poter lavorare su alcuni importanti classici della letteratura, cercando di coglierne la prospettiva politica, ha rappresentato una bellissima opportunità di uscire dal tradizionale approccio analitico allo studio delle teorie politiche per assumerne uno diverso, ma non per questo meno rigoroso e altrettanto ricco di potenziale conoscenza. Come ha scritto il filosofo Dario Antiseri nella sua postfazione al volume, la conoscenza scientifica, mediante il metodo analitico, come sinteticamente descritto in una domanda precedente, non esaurisce le fonti di conoscenza. L'arte, la letteratura, la pittura e le altre forme artistiche, sono tutte forme di conoscenza del reale che adottano strumenti alternativi al sapere scientifico. Di fatto uno scrittore può costruire ipotetici mondi popolati da idealtipi che, per via comparativa, ci consentono di misurare la realtà del quotidiano e coglierne la distanza dal modello. È questo il carattere essenziale per procedere nella conoscenza. Nel linguaggio quotidiano siamo abituati a descrivere la realtà usando idealtipi, come ad esempio “sei un don Abbondio”, per descrivere una persona priva di coraggio, oppure “sei un don Rodrigo”, per dire che sei un arrogante e via dicendo. Noi conosciamo e comunichiamo la nostra conoscenza attraverso idealtipi che descrivono ipotetici mondi possibili. La grandezza dell'arte consiste proprio in questo, offrire categorie sintetiche che, per via non analitica, ma narrativa o figurativa, ci dicono i tratti di un'azione e di un'istituzione per poterle descrivere anche in termini analitici. Il sapere economico e politico possono solo arricchirsi dell'apporto dello studio dell'arte e dall'analisi attenta dello sguardo politico dei grandi narratori».
Parliamo delle università. Tu sei un professore universitario, appunto. La domanda che ti faccio è questa: nel mondo che cambia, cambia anche il sistema della formazione. Direi anzi, facendo una specie di battuta, che di pari passo alla formazione cambia anche il sistema dell'informazione, e viceversa. Ma sentiamo spesso parlare delle università online. Alla fine, verso che strada ci stiamo dirigendo? Che strada abbiamo imboccato?
«È una tendenza generale quella di differenziare lo studio universitario per gradi. Se un tempo, in presenza del ciclo unico di studi, si tendeva a offrire una formazione universitaria forte nella conoscenza di base, senza distinzioni tra conoscenza, competenza e abilità, oggi, con la disarticolazione dell'offerta formativa in tre cicli: triennale, magistrale e dottorato, il processo di trasmissione del sapere è profondamente cambiato. Di fatto, il sistema universitario italiano ha tentato, e sta tentando, di uniformarsi ai vari sistemi già presenti in altri paesi. Una laurea triennale tende a offrire le conoscenze di base, nel secondo ciclo si introducono competenze specifiche e nel terzo ci si dovrebbe orientare verso un percorso di ricerca avanzato. È evidente che, come per tutte le cose di questo mondo, esistono aspetti positivi e aspetti negativi, andrebbe dunque analizzato caso per caso per capire in quali casi la riforma ha prodotto un risultato netto positivo e in quali altri la contabilità tra costi e benefici è invece negativa. Un discorso analogo vale per la proliferazione delle università online. Da un lato sono un indubbio passo in avanti per l'inclusione di tante persone che non avrebbero potuto mai intraprendere un percorso universitario, se non fossero nate istituzioni accademiche di questo tipo; si pensi soltanto agli studenti lavoratori o anche alle famiglie meno agiate che non possono permettersi di mantenere dei figli fuori sede. D'altro canto, l'università è tradizionalmente la comunità dei docenti e degli studenti che si ritrovano in qualsiasi momento della giornata per discutere e analizzare criticamente le questioni che riguardano il sapere. La comunità dei saperi, in cui le singole facoltà danno vita all'universitas scientiarum. Tutto ciò viene meno nelle università online, ma c'è da dire che tutto ciò è, ahimè, assente anche nelle università tradizionali in presenza. Quindi non getterei la croce solo sulle spalle delle università online, ma farei un’autocritica più ampia, dove, in primis noi docenti, dovremmo rispondere alla domanda su quanto siamo realmente centrati rispetto alla vocazione di docenti universitari, alla costruzione della comunità accademica, piuttosto che impegnati a riempire moduli e sbrigare pratiche burocratiche. Il presente dell'università italiana è caratterizzato da questo processo di iper burocratizzazione, che serve a misurare la qualità dell'offerta, attraverso la standardizzazione dei processi, a scapito della creatività e di un certo spontaneismo. Come per tutte le cose, la moderazione sarebbe la via maestra, ma sembra che la via intrapresa sfugga al buon senso».
Tra le altre cose, sei anche il direttore di “Prospettiva Persona”, una rivista nata a Teramo per iniziativa di Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese, che a lungo tempo l'hanno diretta e che poi hanno a te passato il testimone. Che ruolo svolge, che funzione svolge questa rivista e cosa oggi, credi, debba fare una rivista scientifica come “Prospettiva Persona”?
«Innanzitutto, vorrei approfittare di questa occasione per ringraziare pubblicamente i professori Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese per la fiducia che mi hanno accordato e per il lavoro che hanno svolto e continuano a svolgere nel campo della ricerca e della diffusione del sapere, non limitato all'ambito locale, ma riconoscibile a livello nazionale e internazionale. Inoltre, sin da subito, pur non fuggendo dalle mie responsabilità di direttore editoriale della rivista, ho impostato il mio lavoro in forma collegiale, coinvolgendo nelle scelte editoriali l'intero comitato editoriale, composto, oltre che dal sottoscritto, dai professori Di Nicola e Danese e da Pietro D'alimonte. Infine, il comitato editoriale opera in stretta collaborazione con il comitato di redazione e con quello scientifico, presieduto dal prof. Dario Antiseri. “Prospettiva Persona” è la rivista del personalismo in Italia e rappresenta un punto fermo anche per il movimento personalista a livello internazionale, grazie alla rete di istituti di ricerca e università costruita negli anni da Giulia Paola e Attilio. Attualmente, “Prospettiva Persona” è una rivista scientifica semestrale, accreditata dall'agenzia di valutazione dell'università e della ricerca (ANVUR), e con i suoi articoli continua a contribuire alla riflessione sulla centralità ontologica, epistemologica e morale della persona umana. Per questa ragione abbiamo articolato la rivista in diverse rubriche: "Prospettiva civitas”, “Prospettiva Logos”, "Prospettiva donna”, “Studi personalisti”, “L'angolo delle muse”. Sono differenti ambiti disciplinari nei quali intendiamo mostrare la stessa rilevanza filosofica, etica e civile della persona».
Ecco, questo tuo discorso ci pone di fronte a una problematica che rappresenta probabilmente la questione principale dei nostri tempi, perché è una questione che mette insieme più che mai economia, politica e sapere. Parlo dell'intelligenza artificiale. Dicevamo della tua rivista, quindi della cultura del testo, della cultura scritta, secondo alcuni a lungo insidiata - penso ai saggi del compianto Franco Ferrarotti - dalla cultura dell'audiovisivo. Questa almeno era l'idea di Ferrarotti, che ho avuto modo di conoscere in alcuni suoi saggi pubblicati da Marco Solfanelli. Oggi c'è appunto l'intelligenza artificiale che, a mio avviso, è una straordinaria risorsa. Ma in termini di sapere, in termini di conoscenza, che idea ti sei fatto della strada che abbiamo imboccato? Io penso, per esempio - e lo dico a titolo di spunto di riflessione da condividere con te - che sarà sempre meno necessario detenere mnemonicamente dati e nozioni, visto e considerato che saranno sempre più disponibili in tempo reale, anche in chiave comparativa, anche attraverso l'incrocio di dati, e viceversa sarà sempre più importante saper fare connessioni e costruire sistemi di discorso criticamente orientati. Sarà sempre più necessario saper elaborare pensiero critico.
«Sono pienamente d'accordo. Il sapere è sempre più “know how” e, soprattutto, “know why”. Immaginare il sapere del presente come un magazzino di nozioni significa non cogliere la qualità del sapere attuale e relegare la persona umana a mero custode del magazzino. Se invece realizziamo che il sapere è conoscenza dei processi che portano alla conoscenza, abbiamo già fatto un passo avanti, ma non è ancora abbastanza perché anche in questo, oggi, le macchine possono già sostituire l'essere umano. Ciò che un algoritmo oggi non è ancora in grado di fare e, francamente, credo che non potrà mai fare, sostituendo una donna e un uomo, riguarda l'attribuzione di senso, del perché di una data decisione. Potrei avere mille ragioni per dichiarare una guerra, tutti gli elementi in mio possesso potrebbero suggerirmi che non posso non far partire un missile, eppure, per ragioni di senso, mi rifiuto di farlo, mi rifiuto di uccidere, obietto a una legge che giudico in coscienza ingiusta, accetto le conseguenze negative per tenere fede alla mia umanità. Insomma, il perché delle mie azioni è la cifra della mia umanità che nessun sistema di algoritmi potrà mai sostituire o sequestrare, in nome dell'efficienza produttiva o della necessità logica. La carità di Santa Madre Teresa di Calcutta, la santa follia di San Francesco di Assisi, l’amore di San Massimiliano Kolbe che nel campo di sterminio di Auschwitz donò la sua vita per salvare quella di un padre di famiglia, non potranno mai essere sostituiti dell'intelligenza artificiale e di questo dovremmo essere profondamente fieri e gelosi».
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Il critico condotto [Simone Gambacorta]
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Simone Gambacorta
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