Roberto Barbolini è un giornalista, anche se in effetti è uno di quelli che trova secondo me la sua migliore definizione in un'altra qualifica: la qualifica del fuoriclasse.
Il fuoriclasse non è il primo della classe. Il primo della classe è quello più assennato, quello più pesante, è uno che si conforma a un canone, è uno che rispetta un codice comportamentale. È dentro la classe, è dentro un modo di comportarsi.
Il fuoriclasse invece gioca un'altra partita. Sta da un'altra parte del campo, ha tutt'altro movimento. Perché dico questo? Perché sì, è vero, Roberto Barbolini è un grande nome del nostro giornalismo, in particolare del nostro giornalismo culturale, ma essendo un fuoriclasse, questa qualifica fa un po' acqua. Molta acqua. Un allagamento.
Barbolini è un fuoriclasse perché brilla di luce propria, e di libertà propria, in altri ambiti.
Brilla come narratore, brilla come saggista (non possiamo dimenticare Stephen King contro il Gruppo 63), brilla come critico teatrale e letterario: e già che ci sono aggiungo che trovo che quello che dice e quello che scrive in veste critica abbia un valore che spesso il testo critico di chi fa il critico togato se lo sogna.
Alla luce di tutto questo, la qualifica di giornalista diventa molto parziale e restrittiva, pur senza nulla voler sottrarre alla nobiltà del mestiere.
Questo perché la natura prima di Barbollini è quella dello scrittore e per lui le parole non sono grigie, sono a colori, anzi sono il colore della nostra materia grigia: ne sono la vita, la vitalità, la forza.
Barbolini è uno che quando scrive un racconto, quando scrive un articolo, quando scrive una recensione, quando scrive un saggio, ci ricorda che, se mettiamo da parte il vocabolario, facciamo del male al nostro modo di pensare.
Questo non vuol dire che quando scrive faccia calligrafia o usi delle bellurie o altri tipi di belletti, magari per rendere “deliziosa” e “succulenta” la sua scrittura.
Significa invece che vuole che le sue parole diventino lingua, senza però soverchiare, senza prevaricare, senza sopraffare il motivo per cui le si mette in circolo in un racconto, in un articolo, in un saggio, in una recensione.
C'è in particolare un suo libro di qualche tempo fa che ha attratto la mia attenzione, direi anzi la mia ghiottoneria di lettore, Breve brevissimo (Vallecchi), una raccolta, guarda caso, di testi brevi, anche molto brevi (racconti di poche righe, epigrammi e tutta una giostra di scintillanti feticismi della sintesi).
Credo che questo libro, nel suo essere e offrire un punto di osservazione particolare, consenta di dire qualcosa su Barbolini in generale, ed è questa la ragione per cui qui ne parlo.
Nelle acque della brevità Barbolini ci sguazza come un pesce che si diverte a cambiare continuamente fondale e questo succede perché il nostro è una fabbrica di scrittura, una macchina da scrittura, diciamo che è una 4x4 della scrittura che fa un continuo rally.
Ma il discorso va oltre il gran premio della scrittura in sé e per sé. Perché la domanda che Barbolini ci consegna è soprattutto una: che cosa significa oggi la brevità? Quante sono le forme della brevità?
Barbolini - lo accennavo - è uno stratega delle scritture brevi (non solo di quelle brevi, va da sé), sia per quanto riguarda le forme, perché appunto in Breve brevissimo si va dal racconto all’epigramma, sia per quanto riguarda i registri, che passano dall’ironico al sarcastico al comico.
Questi continui cambi di direzione, tutto questo sterzo e controsterzo, tutti questi cambi di marcia, sono anch'essi parte, e parte essenziale, del rally di Barbolini.
La cosa secondo me più importante da dire è però questa: Barbolini è un cantastorie e un assassino. Questo è il punto e questo punto secondo me corrisponde all'identikit più veritiero, più fedele, più significativo di Barbolini.
È un cantastorie perché da sempre, con i suoi tanti libri, racconta a più non posso, ma in questo libro ad andare in scena è un “più non posso” dove fa grande economia di parole, proprio perché, delle parole, del loro coagularsi, sperimenta di continuo, ossessivamente, la tenuta in derapata, la sintassi accelerata in curva, il taglio della chicane.
È poi un assassino perché, attraverso questa brevità, dà sempre una pugnalata, una pugnalata che va a colpire un grande nemico che abbiamo oggi: il politicamente corretto.
Il politicamente corretto è una delle vittime del cantastore-assassino Barbolini, che con maestria, con sagacia, con brillantezza, lo colpisce a più non posso.
Si potrebbe dire che il suo è un modo per sferzare con leggerezza ciò che è diventato insopportabile, opprimente, anche mostruoso.
Il politicamente corretto è il contrario di quello che Barbolini è sempre stato, ha scritto, ha raccontato, ha letto e recensito, e ha diffuso. È il modo più becero del pensiero comune.
Ecco allora un possibile significato della brevità oggi secondo Barbolini: una mitraglietta per sparare a raffica contro i sermoni del neomoralismo. È una questione di guerriglia intellettuale è di vita e morte cerebrale.
C'è un bel pensiero di Ruggero Guarini, sono versi, si trovano in un suo libro di poesia, Chiunque tu sia, e suonano così: “Il più profondo, / estremo, assoluto male / sonnecchia proprio nel micidiale / sogno di svellere il male dal mondo”.
Evidentemente nessuno di noi ama il male, è ovvio, ma c'è chi diventa paladino di questo tipo di battaglie come se se ne sentisse predestinato, creando così un pensiero semplificato e fanatico.
Viviamo in una società molto portata alla semplificazione, al manicheismo, al giudizio, sicché su questa base si erige un triste edificio di pensieri prepensati, di idee non dimostrate, di semplificazioni accettate come "non si può non essere d'accordo".
Sul politicamente corretto in verità Barbolini di recente si è anche orientato con un altro suo libro, Apocalisse a rate (FuoriAsse), dove utilizza una diversa misura della brevità, diciamo una brevità di tipo più saggistico, perché nel volume sono raccolte delle riflessioni molto preoccupate, e non solo preoccupate, direi anche indignate, seppur senza alcuna forma di rabbiosità, per causa della stupidità imperante.
“La realtà è più insidiosa - scrive il nostro -. Si fonda sull'ipocrisia d'una cultura forse inconsciamente ispirata alla Neolingua immaginata da Orwell in 1984, che rende impossibile ogni forma di pensiero diversa da quella dominante”.
Scrive anche questo: “Si sta imponendo una narrativa che conferma tanto l'autore quanto il lettore nella confortante illusione di trovarsi sempre dalla parte del giusto. È quanto vogliono farci credere, e gli scrittori si adeguano, spesso con l'aggravante della buona fede. Come se la letteratura fosse un'attività terapeutica votata a promuovere il bene”.
Come dire che, nel tempo in cui viviamo, cioè il tempo in cui è obbligatorio avere le carte in regola, il tempo in cui è obbligatorio essere buoni, il tempo che celebra e innalza ogni giorno sugli altari il “potere dei più buoni” da cui già era terrorizzato Gaber, bisogna fare eresia a partire dalle parole: e bisogna farla proprio per non rimanere senza parole, proprio per non ritrovarsi a piedi lungo la strada del pensiero comune, del sentito dire, della visione delle cose uniforme e morta, dell'ipocrisia più saputa e sterile.
Come e quanto tutto questo possa avere dei riflessi sulle prospettive tecnocratiche che si profilano all'orizzonte della società contemporanea, è evidentemente cosa che non necessita di ulteriori chiose.
Come si vede anche grazie ad Apocalisse a rate, da una vita Barbolini non fa che fare una cosa che è sempre la stessa, cioè non fa che dire cose intelligenti, cose anzi molto intelligenti, e da una vita lo fa grazie a una cultura che per effervescenza e per allegria sembra champagne, e che però, al pari dello champagne, ha un prezzo, e il prezzo che Barbolini chiede a tutti noi è quello di capire le cose.
Vorrei adesso qui innestare una velocissima riflessione su come si possa essere severamente, e direi anche ferocemente, intellettuali in servizio permanente effettivo, come appunto è Barbolini, senza per questo sentirsi in dovere, o in diritto, di cantare messa.
Ma andiamo avanti perché c'è un'altra cosa essenziale da dire tenendo a mente sia Breve brevissimo che Apocalisse a rate.
Barbolini mette in campo un'idea di scrittura che può essere riassunta così: portare movimento dove non c'è movimento.
Vuol dire portare uno sguardo diverso, per smuovere le acque e offrire uno scorcio differente, laddove c'è l'assodato, l'indiscutibile, la stagnazione, l'unanime.
E per fare questo basta anche un gioco di parole, uno slittamento semantico, una capriola sintattica.
Sono numeri dove le acrobazie del Barbo schioccano come dita che ci risvegliano dal torpore.
La sua è una scrittura coltissima ma mai pedante, inquieta e sorridente, caustica, ironica, mordace, che si diverte e diverte, e che non rinuncia a pungere, a stuzzicare, a mettere in discussione le forme e gli assetti dei nostri assunti, e insomma a demolire l'idiozia scatenandole contro delle micidiali “farfalle da combattimento”.
È una mitraglietta che fa resistenza sparando pallottole non mortali, ma vitali e vitalizzanti, anzi rivitalizzanti rispetto a ciò che è impigrito, dormiente, ammuffito.
Un altro punto importante nel senso della brevità lo si deusme da quella parte di Breve brevissimo intitolata Bruciature.
Cosa ci dicono queste Bruciature? Che la brevità è pirica: quando sai usarla, quando sei uno scrittore come Barbolini, la brevità accende qualcosa, brucia un luogo comune, brucia una forma della pigrizia mentale, brucia le tappe.
Bruciare le tappe, appunto. Nel libro c'è un racconto molto simpatico, in cui un personaggio scrive una storia che è identica a Delitto e castigo di Dostoevskij. Lui non sa della cosa, però quando si accorge della lunghezza potenziale del suo romanzo (700 pagine), decide di condensare tutto in poche righe. Così, scrive Barbolini, “twittò Delitto e castigo al mondo intero”.
La cosa potrebbe sembrare una battuta e invece oggi è una realtà riscontrabile quotidianamente nella dabbenaggine dei neoscriventi. Questo per dire che in quelle poche righe troviamo una disamina della nostra epoca e di taluni fra i suoi vizi più ottusi nonché vistosi.
Per quanto invece riguarda i modelli, anzi, per meglio dire, i possibili, ipotetici modelli di brevità, perché si è sempre un po' nell'arbitrario quando ci si spinge ad annettere a un autore dei modelli di riferimento, direi che, con un buon margine di approssimazione, si possano fare per lo meno tre nomi.
Il primo è quello di Giorgio Manganelli, specificamente il Manganelli di Centuria, cioè quello dei “cento piccoli romanzi fiume”, cento brevi narrazioni che racchiudono altrettanti potenziali romanzi, come li tenessero pressati e pressurizzati al proprio interno.
Un altro nome è quello di Achille Campanile, il grande, l'indimenticabile Campanile delle Tragedie in due battute, libro meraviglioso che molto ha a che fare, per taglio, per brevità, per incisività, per amore del riso e del sorriso, con la scrittura che Barbolini propone in Breve brevissimo.
E poi il dimenticatissimo (purtroppo per lui e per noi) Gino Patroni, grande epigrafista, grande umorista e anche lui maestro di quella brevità rapinosa e ridente che piace a Barbolini e anche a noi.
Infine: dedicare a un libro tutto costruito sulla brevità una riflessione prolissa come questa mia è chiaramente una contraddizione in termini: ma ormai è fatta e del resto Barbolini esorta a disobbedire sicché evviva le cose per così come sono venute fuori.
Anzi, credo che sia importante, anche in termini - come dire? - testimoniali, poter dimostrare (o per lo meno, provarsi a farlo) come dalla brevità, o meglio, come da un insieme di esperimenti di brevità, possa svilupparsi invece un discorso che si accresce, che si espande, che cresce (magari anche parossisticamente, magari anche eccessivamente, magari anche ostentatamente, magari anche capricciosamente) su sé stesso.
Il punto non è però il discorso che cresce, quindi non è il commento fluviale in sé inteso: il punto è la spinta iniziale che la brevità esprime, che sprigiona, e dalla quale successivamente si sviluppa, giusto o sbagliato che sia, il discorso che ne discende: vale a dire il discorso che, di quella brevità, è derivazione.
Questo effetto di moltiplicazione, questo effetto di accrescimento è un portato del libro di Barbolini, ma più che del libro di Barbolini in sé (Breve brevissimo), quindi più che del libro materialmente inteso, è un portato del percorso intellettuale complessivo che, culturalmente parlando, Barbolini ha realizzato nella sua carriera di scrittore.
Per dire con più chiarezza quello che sto cercando di dire, richiamerò la nuova edizione di un suo libro di racconti, La strada fantasma, tornato in circolazione grazie alla casa editrice Bibliotheka.
In questa nuova edizione è presente un'introduzione di Cesare Garboli, e Garboli, come si sa, era Garboli, sicché, per chiudere, converrà citarne un passo:
“Penso a Barbolini come a uno scrittore inconscio, irresponsabile, torrenziale; uno scrittore sempre eccessivo, un Fellini della scrittura, dove la scrittura c'è finché dura (e non smette mai). Ma penso anche al rovescio di questo scrittore: a uno stratega dell'automatismo e della combinazione, al generale che osserva i movimenti delle parole dall'altura, immobile col suo cannocchiale”.
ROSETO.com
Il critico condotto [Simone Gambacorta]
TUTTI GLI ARTICOLI
https://www.roseto.com/news.php?id_categoria=58&tipo=rosetano