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Il Critico Condotto – Simone Gambacorta
DIVAGAZIONE SU UNO STUDIO DI LUCIANO ARTESE


Come da un opuscolo possa trarsi un discorso che va altrove e infine torna al punto di partenza.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Mercoledì, 02 Luglio 2025 - Ore 10:30

È stato pubblicato un piccolo e interessante libro di Luciano Artese dal titolo Mulini di Interamnia. Storia della Borgata Vezzola nella città che cambia. L'opuscolo inaugura, quale primo Quaderno, una neonata collana il cui titolo è il Mulino delle storie. 

Su questo studio si può dire qualcosa perché molti sono gli spunti che offre, anche al di là dei temi e dei contenuti che direttamente affronta. In pratica, sono pagine che accordano (e forse suggeriscono) ghiotte possibilità di divagazione.

Le prime parole del volumetto - quelle che materialmente aprono il testo della ricerca che vi è pubblicata - spingono a ricordare, per esempio, un'osservazione di Silone, lo scrittore più abruzzese tra quelli in verità meno abruzzesi: ossia il (persino troppo) famoso brano ove l'autore di Fontamara dice che a influire in larga porzione sulle sorti della nostra regione sarebbero stati i rilievi montuosi che la caratterizzano; citando testualmente: "Il destino degli uomini nella regione che da circa otto secoli viene chiamata Abruzzo è stato deciso principalmente dalle montagne". 

Sarà il caso di avvertire che il discorso di Silone, opinabile quanto si vuole, è comunque più ampio di quanto possa desumersi dalla porzione che qui se ne cita, e che si cita dalla sede di solito meno frequentata nel richiamarlo, ossia la guida Touring Abruzzo e Molise del 1948. E sarà certo prudente fare tesoro della frenata che, in argomento, propone Costantino Felice in Dagli Abruzzi all'Abruzzo: l'identità sfuggente (2000), dove riconosce l'unicità delle "emergenze montuose" e il loro coefficiente di impatto sulla vita della regione, ma al tempo stesso osserva come sia opportuno evitare di rendere il dato un "luogo comune" semplificatorio e travisante. 

A ogni modo, quando Artese, nell'incipit di questo suo breve studio, scrive che "i fiumi che circondano la città determinavano e delimitavano l'orizzonte fisico e psicologico dei cittadini teramani", non solo rimarca il significato del nome Interamnia, cioè "tra i fiumi" (nome del resto non per caso già insito nel titolo del lavoro: si tratta appunto del Vezzola e del Tordino), ma evidenzia come sia stata e sia l'idrografia a contrassegnare il dato destinale (o un dato destinale) della città, non diversamente da quanto, con il suo assai citato riferimento orografico, dice Silone della regione nel suo complesso (stiamo avvicinando dei punti di vista, non stiamo ponendo su di uno stesso piano profili autoriali evidentemente non comparabili). 

La differenza sta nel fatto, concettualmente parlando, che quella di Artese è un'accezione non negativa, mentre quella di Silone pare inclinare più verso una connotazione limitativa. 

Ma il dato che inoltre ne emerge è questo: che se in parte, attraverso le parole di Artese, vediamo, nitida come non mai, e come non mai intelligibile, la Teramo dipinta da Jacobello del Fiore nel XV secolo, in altra parte ne cogliamo più fortemente il carattere "insulare": che non è solo quello rappresentato figurativamente dal Polittico, e che in ambito letterario sarebbe poi trasmigrato (per arrivare ai tempi a noi più vicini) anche nei due romanzi teramani di Mario Pomilio L'uccello nella cupola, del 1954, e La compromissione, del 1965 (nei quali la collocazione appartata e remota della città è per niente secondaria), ma è anche quello che, in scala più ampia e generale, torna a coincidere con una trazione antropologica dell'intera regione: perché alla diagnosi siloniana va assommata anche quella di Piovene, che nel suo Viaggio in Italia (1957) attribuisce all'Abruzzo caratteri "insulari" simili, o non troppo dissimili, da quelli della Sardegna. La questione, peraltro, non era sfuggita a Pasolini, il quale la tocca con nitore nel suo Canzoniere italiano (1955), dove appunto scrive che "l'Abruzzo, per ragioni geografiche, in parte lo è", un'isola (d'altronde gli esempi adducibili sarebbero parecchi altri, già censiti in numerose pubblicazioni: e sarebbe magari il caso di cavarne un'antologia dell'insularità presunta). 

Questo disporsi di analisi contribuisce a spiegare come mai, tornando per un attimo all'ambito della narrativa italiana contemporanea, sia possibile riscontrare consonanze di ambiente e (per così dire) di pelle, anche nella concia dialettale dei titoli, fra due opere di due scrittrici degli anni nostri, vale a dire i romanzi Accabadora (del 2009, ambientato in Sardegna) di Michela Murgia e L'arminuta (del 2017, ambientato in Abruzzo) di Donatella Di Pietrantonio, libri entrambi vincitori di quel Premio Campiello (nel 2010 Murgia, nel 2017 Di Pietrantonio) già assegnato dal 1965 al pomiliano La compromissione

Lo stato insulare, con tutta l'ipoteca boccaccesca che si porta appresso, sarebbe stato richiamato anche da Ennio Flaiano, che nel 1971, nell'assai diffusamente citata lettera a Pasquale Scarpitti, parla della sua terra natale come di "un'isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere: se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella sono le nostre basiliche, che si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare" (Discanto, 1972). E c'è qui come un mettere insieme tutto, mare e montagna, a disegnare e compendiare, se vogliamo persino in una maniera cartolinistica e sentimentale, una situazione antropologica precisa. 

Sarà il caso di rilevare, per inciso e con schiettezza, come, in effetti, quello di questa pur interessante lettera non è certo il Flaiano più smagliante che sia dato leggere: e c'è da credere che quelle sue parole siano oggetto di ricorrenti citazioni in quanto portatrici di contenuti che sanno anche offrirsi a riprese di più largo giro e di senz'altro agevole e vario impiego. 

Ma torniamo al punto al quale eravamo. Mettendo insieme tutte queste visuali, e naturalmente ogni altra che a esse si possa abbinare, si può dire che, per lo meno riguardo l'Abruzzo, l'occhio della letteratura sembrerebbe confermare quello della storia, e ancor più quello dell'etnografia: e qui sarebbe per lo meno il caso di inserire nel discorso anche quel mai sufficientemente considerato romanzo di Gian Luigi Piccioli che è Epistolario collettivo (1973), e quindi volgere il tutto nella prospettiva della "geostoria letteraria". 

In ogni caso, tornando a Teramo, il discorso dell'"insularità" deve avere a che fare con qualcosa di più addentrato nella realtà delle cose, se è vero che risulta godere del supporto di avalli alti e antichi, fra tutti quello del vescovo Giovanni Antonio Campano, che nel 1475, nella lettera al cardinale di Pavia, parla della città come "posta nell'angolo di due fiumi confluenti", e che "si eleva piana come nel mare le isole".

Bisognerebbe però ragionare meglio, per meglio far fruttare la lettura di Campano, anche sulla possibile postura angolare della città, postura della quale lui stesso appunto parla, e il discorso potrebbe aprirsi pertanto a ulteriori scenari, ferma restando la necessità di evitare di confondere, sovrapponendoli in maniera automatica e distratta, i piani semantici dell'insularità e dell'isolamento, che non parrebbero essere coincidenti (non vuol dire che non lo siano stati, anche magari sovente) nemmeno su scala regionale. 

L'ipotesi insulare fu a suo tempo contestata da Ettore Paratore nel suo Profilo di una storia della cultura abruzzese (1965), nel segno di una interpretazione di non chiusura della regione in linea con le successive analisi di Gianni Oliva, il quale Oliva, in apertura del suo Le frontiere invisibili (1982), scrive infatti che "dal Medioevo ad oggi, tranne pochi periodi di oscurità, la regione abruzzese è stata teatro di una circolazione di idee più o meno in consonanza con quelle diffuse nei maggiori centri culturali italiani".

C'è però da dire che quella di Paratore sembra essere, negli effetti, una requisitoria rivendicativa più faconda che feconda, essendo impostata più come una difesa d'ufficio che come una disamina oggettiva. Al netto delle tesi e delle ipotesi che egli espone, e che di fatto sembrano voler  contraddire anche stizzosamente (seppur non esplicitamente) la visione siloniana, resta il dato inconfutato di una regione certamente connessa e permeata da una circolazione di idee, ma non sufficientemente matura sotto il profilo culturale da arrivare a tradurre quella circolazione di idee in una consapevolezza diversa. 

La questione andrebbe forse impostata in questi termini: l'Abruzzo non è mai stato estraneo a flussi culturali e certamente ne ha prodotti, indubbiamente anche di notevoli e importanti, ma tutto questo è rimasto un discorso rimesso prevalentemente a individualità, a percorsi soggettivi, e non si è riversato in un discorso d'area, cioè non si è tramutato in una consapevolezza più vasta e disseminata: di quei flussi, di quei percorsi singoli, è mancata la fotosintesi, è mancata cioè una strutturazione intellettuale diffusa. A riguardo, Luigi Ponziani offre un punto di vista molto preciso nel suo corposo Letterati, libri e lettori nell'Abruzzo della Restaurazione (2012), specificamente laddove riferisce di una "società sostanzialmente arretrata, nella quale scarsi sono gli stimoli culturali e civili capaci di movimentarne le pieghe, assai ristretti i circoli e gli ambienti in grado di svolgere un ruolo moltiplicatore, stretti come erano tra le rigide regole di un regime rimasto assolutista e intimamente conservatore e il vasto mondo rurale e plebeo".  

Dunque il succinto studio di Artese è in verità un contributo che riesce ben presto ad aprirsi a rifrazioni e a possibilità di riflessione più ampie e problematizzanti di quanto l'oggetto della ricerca, di per sé considerato, e sia pure corrivamente valutato dal lettore meno accorto, darebbe a supporre. 

Dai documenti studiati da Artese presso l'Archivio di Stato, risultano censiti, per esempio, per l'anno 1810, a Teramo, quindici Mulini: "Nel periodo della dominazione francese in Italia (1806-1815) fu redatto annualmente uno Stato dei mulini esistenti nella provincia di Teramo", spiega infatti l'autore. 

La scelta di circoscrivere la ricognizione a questo segmento di tempo (per questa prima porzione del suo studio), Artese la spiega adducendo un motivo che vale anche da criterio: egli osserva infatti che lo Stato dei mulini "del 1810 risulta particolarmente interessante per quanto riguarda Teramo, perché il sindaco Giuseppe Catenacci, oltre alla proprietà e alla indicazione generica (in affitto o in enfiteusi), indicava anche a chi era stato concesso e la collocazione".

Si può osservare allora come in questo caso la burocrazia sappia più che mai confermarsi come una fonte di enorme importanza: un documento di carattere amministrativo, debitamente conservato, giunge ai nostri occhi di contemporanei per rivelarsi, grazie al lavoro del ricercatore, come un "importante foglio": vale a dire come una carta, un atto (peraltro riprodotto - come altri - nell'opuscolo) utile, e molto, per poter conoscere in modo (diciamo cosi) ravvicinato uno spaccato microstorico. 

Più in particolare, è da notare come quella che al tempo era la figura del sindaco, e quindi il ruolo a essa materialmente e direttamente connesso, mostri e rammenti come e quanto il minuto esercizio delle azioni e degli atti propri del governo amministrativo locale, nel suo essere stato (come ovunque) un fattore decisivo di regolamentazione di quella che allora era la quotidianità cittadina, risulti oggi all'origine di un patrimonio di informazioni persino radiografiche. Non è certo una novità, questa: è anzi cosa di e da molto assodata e risaputa; ma è bene qui ribadirla, a rimarcare un dato comunque presente nel lavoro svolto da Artese.

I mulini, annota difatti Artese (siamo sempre al 1810), potevano avere una o due ruote (cioè "macine"), e i proprietari potevano esercitarne una gestione diretta ovvero potevano scegliere di darli "in affitto". Ma quel che più risalta per importanza è il fatto che "i proprietari erano in gran parte appartenenti alle famiglie maggiorenti teramane". 

Siamo quindi di fronte non solo a un sistema economico (l'economia dei mulini), ma anche a una simbologia di ceto, ossia a una certificazione di status: "La proprietà di un mulino, dato poi in gestione con diverse forme di contratto, rappresentava la legittimazione del ruolo sociale, sia per il patriziato di vecchia data sia per il gestori poi divenuti proprietari". 

Il flusso delle acque, e il sistema meccanico e idraulico che costituiva l'economia indigena specifica dei mulini, registrava e rifletteva dunque anche flussi e fluttuazioni sociali, con i relativi avanzamenti, investimenti, esercizi, progetti. 

Riposa pertanto in questo aspetto così perimetrale della storia teramana più di un elemento di centralità quanto alle possibili conclusioni che possono trarsi da un'analisi sia pure stringata come quella proposta da Artese. La possibilità di slargare il campo, di estendere l'area del discorso, è ciò che fa la differenza.

Questo piccolo libro, d'altro canto, rammenta come il pregio di una ricerca stia non nella mole che essa può esibire (non necessariamente soltanto in questo), ma principalmente nello spunto che la motiva e che la conduce (se e qualora ve la conduca) a porsi come modalità di intelligenza di un fatto, di un contesto, di una vicenda, di un fenomeno, di un territorio. 

Qui la possibilità che ci è offerta è perciò anche quella di pensare e ripensare il sistema fluviale teramano nella sua dimensione di medium, e quindi, mcluhanianamente parlando, di modificatore di un assetto, o di assetti (Understanding media, 1964).

Si vuol dire, in pratica, delle "conseguenze psichiche e sociali" che "amplificano o accelerano processi già esistenti", quindi di quel "mutamento di proporzioni, di ritmo o di schemi" che avviene "nei rapporti umani" quale "messaggio" di un medium. Perché il punto per McLuhan è proprio questo, ed egli lo sviluppa, e ne offre esemplificazione, prendendo a spunto il caso delle ferrovie: "La ferrovia non ha introdotto nella società il movimento, né il trasporto, né la ruota, né la strada, ma ha accelerato e allargato le proporzioni di funzioni umane già esistenti creando città di tipo totalmente nuovo e nuove forme di lavoro e di svago" (si cita la traduzione di Ettore Capriolo). 

I mulini (non solo i mulini, naturalmente) hanno prodotto effetti di questo tipo e li hanno prodotti per il fatto stesso di essere esistiti quali parti integranti attive della realtà cittadina. 

Modificatore, allora, nel senso di elemento destinato a determinare processi di cambiamento (come a subirne poi altri) strettamente connessi con le evoluzioni tecnologiche e quindi con le trasformazioni economico-sociali non meno che con quelle più estesamente politiche. 

Sarà per esempio il caso del Fascismo (su cui Artese si sofferma in chiusura), visto e considerato che il regime "aveva favorito la diffusione e l'apertura dei mulini elettrici" per promuovere "la produzione e la macinazione dei cereali", anche in funzione della cosiddetta "battaglia del grano". La grande storia e la piccola storia si incrociano, coincidono e si fondono anche nella vicenda dei mulini del Vezzola. 

È anzi proprio nel capitolo conclusivo del volumetto, ossia quello intitolato La grande trasformazione con la diffusione dell'energia elettrica (capitolo non meno interessante degli altri che scandiscono l'opera, fra cui si segnala quello sulle Attività protoindustriali nella Borgata Vezzola), che si dà conferma (nei termini di riprova storiograficamente acclarata) di come l'avvento di una nuova tecnologia ne soppianti e renda ben presto obsoleta un'altra, laddove si sia scelto di attestarsi su modalità più attardate e retrive sebbene commercialmente e socialmente consolidate (e va da sé: tutto rima, anche in questo caso, con McLuhan). 

Osserva infatti Artese che "alla fine del XIX secolo e nel '900 la concorrenza divenne insostenibile per i piccoli mulini che non poterono o non seppero prontamente ristrutturarsi. Le nuove forze motrici, il carbone e poi l'elettricità, si andavano affermando sostituendo inesorabilmente le risorse ad acqua". 

Artese aggiunge anche (e la sua notazione immette l'analisi in un quadro più ampio: e torniamo a ripetere che è questo il tratto che ce ne rende più caro l'opuscolo) che il "processo" di trasformazione "investì tutto il paese" portando "alla chiusura dei mulini e di ogni tipo di macchina idraulica". 

Si tratta di un punto di riflessione che può certamente connettersi con quanto avviene al tempo odierno su scala globale in chiave di tecnologia digitale, in particolare con l'intelligenza artificiale: non solo la romita Interamnia, ma il mondo tutto è del resto oggi cinto da fiumi; non fiumi d'acqua, ma fiumi di dati e di flussi immateriali di ogni sorta, ossia flussi che generano e riconfigurano assetti, paradigmi culturali consolidati, economie, forme di mercato, monete. 

Ivo Andric (Premio Nobel per la letteratura nel 1961), in un romanzo intimamente legato a un fiume, ossia Il ponte sulla Drina (1945), scrive parole sulle quali può essere utile adesso soffermarsi: "Tra la vita della gente della cittadina e questo ponte sussiste un intimo, secolare legame. I loro destini sono talmente intrecciati gli uni agli altri, che non si possono né pensare né raccontare separatamente. Per tale ragione la narrazione della nascita e delle vicende del ponte è, al tempo stesso, la narrazione della vita della città e della gente che la abita, di generazione in generazione" (si cita la traduzione di Bruno Meriggi). 

Il discorso vale, e con ogni evidenza, e con ogni immediatezza di riscontro, anche per le strutture diverse dal ponte di cui Andric racconta: per esempio vale, o potrebbe valere, per un edificio sacro, per una strada o appunto per un mulino, fermo restando che i mulini di cui si interessa Artese nelle sue pagine sono da considerarsi al di là di aspetti mitici e leggendari (non sono un elemento letterario). 

Da qui si arriva a mettere meglio a fuoco le motivazioni insite nel sottotitolo del libretto, cioè Storie della Borgata Vezzola nella città che cambia: dove è il concetto di cambiamento a reggere tutto, tanto più che quel concetto spiega anche come mai la ricerca, pur nel suo sguardo di insieme, si incentri su un luogo specifico e individuato: vale a dire "l'attuale edificio di Casa Ruggieri, che, posto lungo l'antica via dei Mulini", ha avuto la ventura di offrire sede, "nel corso degli ultimi cinque secoli", a "macchine idrauliche per la macina di cereali, soprattutto farina di grano (...) ma anche per la molitura delle olive" (così si legge nella nota relazionale di avvertenza in apertura di opuscolo). 

Simone Gambacorta
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