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Il Critico Condotto – Simone Gambacorta
RITROVANDO GARY


Un romanzo letto anni fa, degli appunti tra le pagine e una parola che tocca tutti: paura.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Lunedì, 08 Settembre 2025 - Ore 18:45

Sere fa sono andato a riprendere in mano un libro, La vita davanti a sé, di Romain Gary. 

È un romanzo che ho letto diverso tempo fa e siccome quando leggo ho l'abitudine di prendere appunti direttamente sulle pagine, da quello che vedo devo averlo letto nel gennaio del 2021. Per quello che ne so, è il libro più famoso di Gary, o uno dei suoi più famosi, almeno in Italia. 

Gary (1914 - 1980) ha avuto una vita molto avventurosa, che si è conclusa tragicamente. È sufficiente anche solo dare uno sguardo alla "voce" su di lui che si può leggere nell'edizione italiana del Dizionario Oxford della letteratura francese per rendersi conto di quanto movimentata sia stata la sua esistenza.
 
Non sono un conoscitore della sua biografia come non lo sono della sua opera. Di lui ho letto, mi pare, solo questo libro, e dico "mi pare" perché, con il passare del tempo, anche la memoria di ciò che si è letto, ogni tanto, vacilla, e per questa ragione qualche porzione del percorso che si è compiuto può rimanere scoperta, può andare dimenticata. Più di una volta mi è accaduto di mettere mano alla mia libreria e di scoprire di aver letto dei libri che non ricordavo di aver letto. 

In ogni caso non sono un esperto di Gary come in fondo penso non si possa esserlo di nessun altro. Già che ci sono lo dico: non ho mai ben capito che cosa possa voler dire, che cosa possa voler significare, essere "esperto" di uno scrittore, essere cioè "esperto" dell'opera, e magari della vita e dell'opera, di uno scrittore come di una scrittrice. C'è sempre qualcosa che mi spaventa, in questa definizione di "esperto", perché mi ha sempre dato l'impressione di portare dentro di sé una specie di insidia: precisamente l'insidia di una definitività.

In una qualifica tanto tetragona c'è qualcosa di troppo assoluto, qualcosa che mi pare mortificare quel senso di apertura a cui la lettura, e più estesamente la letteratura, mi ha abituato: quel senso di apertura - voglio dire - per via del quale la letteratura è sempre stata per me una portentosa occasione per conoscere le mie vulnerabilità. 

È il caso del romanzo di Gary, e se non so neanche dire come mai allora abbia deciso di leggerlo, quello che adesso posso affermare è che La vita davanti a sé mi ha esposto a un impatto che ha riguardato il concetto di "paura" (vedo, da un rapido giro in rete, che si tratta di un elemento del libro che ha parlato a tanti). 

Nella sua lingua d'origine, il francese, il romanzo ha un titolo che trovo incantevole: La vie devant soi. È bellissimo e anche toccante: poche parole che possono orientarsi verso tutti, e che ciascuno può orientare verso se stesso.  

L'edizione che ho io del romanzo, che poi è l'edizione Neri Pozza (la traduzione è di Giovanni Bogliolo), è corredata da un apprezzabile risvolto di copertina, e dico apprezzabile perché è un risvolto "scritto", cioè è un risvolto "pensato", un testo con una sua articolazione, con una sua struttura, con un suo "perché": un paratesto molto diverso da quelli di "servizio", corrivi e pericolosamente pubblicitari, ai quali l'editoria dei nostri anni ci ha purtroppo abituati. 

Sono riportate, nel risvolto, delle parole di Stenio Solinas che riassumono la storia raccontata da Gary: "Venti anni prima di Pennac e degli scrittori dell'immigrazione araba, ecco la storia di Momo, ragazzino arabo nella banlieu di Belleville, figlio di nessuno, accudito da una vecchia prostituta ebrea, Madame Rosa". 

Le parole di Solinas, che è penna sempre mirabile, mi aiutano per riportare qui a mia volta un appunto che ho preso durante la lettura de La vita davanti a sé: è una specie di micro recensione privata, cioè è una nota molto succinta che avevo stesa per me stesso. Vi si dice questo: Gary schiva il patetico miscelando insieme il drammatico con l'esilarante. Che la voce narrante sia quella di un bambino evita l'effetto gag che si sarebbe verificato se l'io narrante fosse invece stato un adulto. 

Francamente non so dire se, rileggendo oggi il romanzo, darei conferma di questa impressione, la quale, tuttavia, a soppesarla, mi pare abbastanza salda nel suo impianto, e dunque posso dire che, tutto sommato, quelle mie ormai lontane parole, per quanto approssimative, mi tornano incontro facendo ai miei occhi mostra di una loro plausibilità. 

Ma stavo dicendo della paura. C'è una pagina in cui Momò chiede a Madame Rosa come mai ogni tanto vada in cantina; la risposta: "Mi ci vado a nascondere quando ho paura". 

Credo sia il punto di culmine del romanzo: il rapporto tra Il nascondiglio e la paura, tra il provare paura e il sentire la necessità di nascondersi, di essere invisibili, di sparire, di mettere sé stessi al sicuro, in un campo controllato e perimetrato; qualcosa di non diverso da quando bambini ci s'infila sotto la coperta, come se fosse un gigantesco cappuccio, un sacco magico dove rifugiarsi per avere salvezza. 
 
Momò però non si accontenta e fa quello che spesso fanno i bambini quando, interrogati gli adulti, restano insoddisfatti: incalza (c'è sempre, o quasi sempre, una implicita richiesta di soccorso, in questa ostinazione inquirente: c'è il voler capire). "Paura di cosa, Madame Rosa?", chiede. "Non c'è bisogno di motivi per aver paura, Momò", risponde la donna. 

La vita davanti a sé conta poco più di duecento pagine e questo scambio di battute avviene più o meno intorno a pagina cinquanta: a un quarto del libro, abbiamo un impatto con un dialogo che è in grado di coinvolgerci interamente. 

Si ha paura e si fugge, si ha paura e si scappa, si ha paura a ogni età: bisogna accettare di lasciarsene ghermire e magari anche di esserne braccati, se non proprio sconfitti. È una logica molto diversa da quella a cui cerca di abituarci il credo produttivista che ci accerchia.

In una pagina del suo libro Ritratti e paesaggi, Andrea Caterini, che è un critico fra i nostri migliori, parlando de La vita davanti a sé, si pone e pone questa domanda: "Ma cosa c'è di interessante davvero in questa vicenda?". Le conclusioni in cui giunge sono luminose: per esempio questa: "Momo non è che un'altra forma della molteplicità degli infiniti io di Gary". 

In scia a questo discorso, credo che si possa aggiungere che di veramente interessante in questa storia c'è appunto la paura. La paura, il provare paura, il sentimento della paura, anzi i sentimenti delle paure, perché gli alfabeti del tremore vivono di rifrazioni, di moltiplicazioni, sono un plurale, diventano eserciti infiniti, diventano moltitudini formicolanti e spesso predatorie della nostra mente, perché se la prendono, la fanno sparire, la fanno sentire braccata, la spingono a nascondersi in una qualche cantina.
 
Quello che Gary ha detto in quel libro è che tutti, in un modo o in un altro, chi in una direzione chi in un'altra, siamo pieni di cantine, siamo pieni di scantinati. 

Li portiamo dentro di noi, li abitiamo in quanto ne siamo abitati, in quanto ci abitano, li abitiamo in quanto - propriamente - sono dei nostri habitat, dei modi di ricorrere a noi stessi nei momenti delle crisi più pronunciate, nei momenti del collasso, nei momenti dell'implosione, nei momenti in cui qualcosa giunge a tramortirci. 

Li abitiamo nella sorpresa e nello sbrego di un dolore, di un colpo inaspettato, di un sogno che magari diventa qualcosa di irreparabile e si volge nel contrario di quello che speravamo potesse essere. 

Simone Gambacorta
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