La poesia è come il dolore, è di chi se la porta addosso, di chi se la porta dentro, è di chi se la tiene stretta perché ne ha fatta esperienza: è il modo che ognuno ha di dibattere quotidianamente nella parola la parola del proprio esistere.
Ma sia il dolore che la poesia parlano la lingua dell'ascolto. Esiste un'equivalenza di compassione (etimologicamente parlando) tra questi due linguaggi che si contengono a vicenda e che corrispondono a una postura interiore attraverso la quale vivere e comprendere (qualunque cosa significhi vivere, qualunque cosa significhi comprendere).
Questa equivalenza sussiste sia come dato soggettivo che come dato intersoggettivo, sussiste cioè sia nel rapporto che una persona ha con sé stessa sia nel rapporto che ha con gli altri.
Oggi, con quello che sta succedendo a Gaza, possediamo tutti, e ne siamo posseduti, una nuova nozione - storicamente inedita e intollerabilmente tangibile - dell'inferno: l'inferno appare oggigiorno a tutti noi come la perfezione della spietatezza.
Non la crudeltà, non la ferocia, non la brutalità, ma qualcosa di più maledetto e osceno: la spietatezza, la disgrazia come gesto inflitto.
La spietatezza perfetta è quella che non ha vergogna di sé e della propria rappresentazione mediatica: non ne ha vergogna perché annienta l'alterità in ogni sua forma e perché rivendica a sé un disconoscimento onnipotente.
Se ne frega, per dirla con un gergo tristo e storicamente pertinente, e trova nel sadismo la spinta erotica per continuare a sbranare ogni senso dell'umano.
La spietatezza perfetta è quella che diventa un mondo chiuso nella sua autosufficienza e strutturato nell'osservanza sistematica di una sua regola del sopruso. Una regola contro ogni diritto che la smentisca. La sola dialettica ammessa è quella che vede soccombere l'oppresso sotto i colpi dell'oppressore.
Non è tanto né soltanto perfetta la spietatezza che riesce, complice una sagacia perversa, a generare indifferenza attorno a sé, ma lo è specialmente quella che riesce a rendere indifferenti, e anzi fieri dei propri atti e della propria ideologia, coloro che la perpetrano davanti agli occhi del mondo.
Nel libro "Il loro grido è la mia voce", curato da Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini e Leonardo Tosti, sono pubblicate le poesie di dieci autori palestinesi, "in gran parte scritte a Gaza dopo il 7 ottobre 2023".
È un libro importante, come ha sottolineato Moni Ovadia, perché, attraverso la poesia, parla (dice, riferisce) di uno di quei volti della Storia capaci di descrivere spaventosamente la disumanità dell'uomo e, al contempo, il senso di dignità di chi non accetta di sottostare all'ingiustizia.
Gli autori sono Hend Joudah, Ni’ma Hassan, Yousef Elqedra, Ali Abukhattab, Dareen Tatour, Marwan Makhoul, Yahya Ashour, Heba Abu Nada, Haidar al-Ghazali e Refaat Alareer (alcuni di essi, come Heba Abu Nada e Refaat Alareer, hanno trovato la morte a causa dei raid israeliani).
L'antologia ha una prefazione che parla da sé, perché reca la firma insigne di Ilan Pappé, professore di storia all'Istituto di studi arabi e islamici e studioso assai reputato.
Pappé, che è ebreo israeliano, è autore di libri come "La pulizia etnica della Palestina", considerato un testo fondamentale per comprendere la tragedia dei palestinesi e del genocidio che, prima che vittime, li vede prede di una sterminata e sterminante battuta di caccia.
"La poesia - scrive Pappé - è sempre stata una delle manifestazioni più importanti della cultura araba, sia alta sia popolare. È una parte organica della vita".
Per questo motivo - prosegue - "scrivere poesia durante un genocidio dimostra ancora una volta il ruolo cruciale che la poesia svolge nella resistenza e nella resilienza palestinesi. La consapevolezza con cui questi giovani poeti affrontano la possibilità di morire ogni ora eguaglia la loro umanità, che rimane intatta anche se circondati da una carneficina e da una distruzione di inimmaginabile portata".
"Il loro grido è la mia voce" è sia un documento storico sia un documento sulla nostra specie, perché parla delle forme di manifestazione e di attuazione di una barbarie che sbrana fiera tutto ciò che ritiene di dover annientare.
Di un simile grado regressivo dell'umano, il libro parla attraverso lo sguardo di chi di quella barbarie è vittima e tuttavia ad essa non si arrende, opponendole una resistenza strenua che trova nell'affidamento alla parola una forma sacra di forza, di memoria, di affermazione e di difesa del presente (tanto più se incerto e perpetuamente insidiato dalla minaccia mortale di un missile o di una raffica di fucile mitragliatore).
In Italia si stanno moltiplicando gli incontri e le presentazioni per diffondere questa antologia, a testimonianza di una sensibilità crescente e sempre più indignata.
Acquistare il volume è un gesto di assoluta utilità perché 5 dei 12 euro del costo di ciascuna copia serviranno per sostenere il lavoro sanitario di Emergency a Gaza.
In un paese disossato a forza di fuoco, di carrarmati, autoblindo e bombe, e dove un'ambulanza e un ospedale sono bersagli contro cui sparare senza battere ciglio, una presenza come quella di Emergency è di estrema importanza.
L'infittirsi delle presentazioni del libro, non diversamente da quanto avviene con tutte le altre manifestazioni che vedono al proprio centro Gaza, segnala anche, in parte, un aspetto drammaticamente virtuoso dei social, ossia il fatto che essi abbiano permesso (e continuino a permettere: per adesso) una circolazione così viralizzata di immagini e video con gli orrori di Gaza, da interpellare in modo storicamente inedito la coscienza di ciascuno di noi.
Anche questa volta McLuhan ha visto realizzata in maniera concreta una delle sue analisi, cioè quella che, a proposito del "villaggio globale", lo portò a parlare dell'enorme accrescimento che sarebbe stato apportato dai media in termini di consapevolezza della "responsabilità umana".
Quella dell'antologia "Il loro grido è la mia voce" è una poesia che non ha nemmeno bisogno di essere poesia, è sufficiente che sia parola esistente, parola circolante, forma di sedimentazione e cristallizzazione di un sentimento dell'umano che instancabilmente resiste all'orrore, al massacro, allo streminio.
Alcuni versi di Heba Abu Nada (ammazzata appunto il 20 ottobre 2023) sono fra i più rappresentativi del libro:
"Non c'è tempo per grandi funerali e addii adeguati, / non c'è molto tempo: un razzo furioso sta arrivando, / ci acconteremo di un bacio veloce sulla fronte / e un addio rapido, aspettando la nuova morte. / Non c'è tempo per l'addio".
IL LIBRO
"Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza", Fazi, 12 euro.
A cura di Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini, Leonardo Tosti, con una prefazione di Ilan Pappé e con interventi di Susan Abulhawa e Chris Hedges.
Traduzioni: dall’arabo di Nabil Bey Salameh; dall’inglese di Ginevra Bompiani ed Enrico Terrinoni.
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Il critico condotto [Simone Gambacorta]
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